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21/03/24
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The Red Coil - Himalayan Demons
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13/08/2018
( 1688 letture )
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NOLA non è stato, almeno per il sottoscritto, un lavoro qualsiasi o uno di quelli scoperti pochi mesi or sono, e non ancora metabolizzati. Entrò nella mia vita all’incirca una decina di anni fa, in quella fase tardo-adolescenziale in cui vanno conformandosi i gusti musicali, le attitudini di ognuno di noi, in cui si scoprono numerosi panorami musicali nuovi, in cui si assaggia di tutto un po’ e in cui, per un motivo o per l’altro, ci si affeziona a qualcuno in particolare. Una volta sazi, però, si ritornava subito tra le mura domestiche, acusticamente parlando, quando ci si era allontanati troppo da ciò che più appagava la nostra sensibilità. Quando NOLA entrò fragorosamente nella mia playlist di allora, come tutti i manifesti di un’epoca e di un determinato modo di intendere la musica, non ne uscì più. Quella miscela di blues e metal, negli anni etichettata come southern metal, ma traboccante di elementi del “metal delle paludi” (ovviamente...), fagocitava con rabbia un’intera cultura, grazie alle doti dell’asse da antologia del metal, Anselmo/ Taylor/Keenan/Windstein/Bower, e la vomitava sui più malsani locali di New Orleans. La pura casualità “redazionale” volle, qualche settimana fa, che mi fosse assegnato questo Himalayan Demons, proprio a me, soggetto poco affidabile nella valutazione in cifre di questi quarantacinque minuti (quasi) senza freni, poiché ancora mi ritrovo dilaniato dai latrati di quell’Anselmo in stato di grazia, dal riff di Lifer, dall’assolo immortale di Pillars of Eternity, dai singhiozzi “sudisti” di Eyes of the South e da Jail...l’unica vera erede di Planet Caravan riconosciuta all’unanimità. Ma il passato è passato, pertanto i ricordi vanno accantonati. E no, mettiamolo subito per iscritto, Himalayan Demons non è NOLA. Non avremo più modo di ascoltare un altro NOLA. Non ho neppure il desiderio o la pretesa che venga superato da qualcuno, il ragazzaccio della Lousiana, ma è chiaro da chi attinge a piene mani, soprattutto nel riffing delle asce, il qui presente quintetto milanese.
I The Red Coil sono una formazione milanese nata nel 2008, ma con una discografia piuttosto contenuta alle proprie spalle: un EP d’esordio, Slough Off (2009, autoprodotto) e il primo full-length, Lam (2012, pubblicato per Bull2Kill Records). E dopo sei anni di silenzio discografico, pensano bene di ritornarsene con questa seconda release, Himalayan Demons, pubblicata per Argonauta Records. Etichetta, la genovese Argonauta, che, come si intuirà dai lavori dell’ultimissimo periodo riportati tra parentesi qui sotto, tende il proprio orecchio verso sonorità quali stoner (Spellbound), doom (Church of Void, Horsepower), sludge (Qaal Babalon, Swamp Wizard Rises) e post-metal (Serrated, Vesta) e che, con una certa lungimiranza, sta arricchendo il proprio roster anno dopo anno, diventando uno dei punti di riferimento discografici – o, forse, lo è già - nel patrio suolo.
Cosa succede quando il riffing della coppia Keenan/Windstein incontra un immaginario che guarda verso oriente? Cosa accende nelle nostre menti il pensiero dell’Everest o del K2? Vette innevate, ostili all’essere umano, estese per migliaia di chilometri nelle cui basi sono fiorite lingue, nazioni e culture che nulla hanno in comune tra di loro. Basti pensare al trio Cina-India-Pakistan, i cui confini stritolano le altre due enclavi, stanti ai piedi della catena montuosa più alta del pianeta: Bhutan e Nepal. Non sentirete versi cantati/recitati in qualche lingua esotica o antica (sanscrito?) fra i solchi di questo lavoro, ma solo la voce di un demone di scuola anselmiana, Marco Marinoni, che sbraita, si sfoga, soffre, gioisce mentre la massiccia sezione strumentale asfalta qualsiasi ostacolo le si ponga dinnanzi, dipingendo nei momenti più opportuni immagini di considerevole spessore psichedelico, effettuando una transizione spaziale istantanea che parte da New Orleans e termina sopra l’Everest, e poi viceversa, si ritorna nuovamente nei meandri dallo stato “gigliato”, ma prima facendo una toccata e fuga fra gli Sherpa. Come avrete intuito, si tratta di un lavoro solido, vigoroso, che presenta formalmente rari cali qualitativi, e a provare queste affermazioni ci pensa subito la doppietta iniziale sludge/groove, Withdrawal Syndrome Wall/Godforsaken, forgiate sopra l’incudine con in dote il marchio Down, dirompenti come migliaia di metri cubi di neve che si staccano e impattano sopra di noi, lasciando pure spazio nel secondo brano a un refrain catchy che sovrasta i boati di un basso da capogiro. Nel senso opposto proseguono le due tracce successive, Oriental Lodge/Opium Smokers Room, nelle quali risalta un hard funky scratchato (2.21) nato da un incontro fra Tom Morello e la solita combriccola del Sud già nominata sufficientemente in precedenza e la chiusa ipnotica della quarta traccia (4.41), che non può non far riaffiorare alcuni ricordi legati a – per chi l’avesse visto - Noodles (Robert De Niro) in C’era una volta in America. Momenti questi, che conferiscono un taglio più personale (quello che stavamo cercando, diciamolo) al lavoro. E se la botta oppiacea vi avesse causato torpore, The Shroud riassesta i bpm sulle coordinate d’apertura a suon di vergate da parte della sezione ritmica, per poi riaffondare a picco nella meditazione buddhista. In Moksha si prende la scena (ancora una volta) il basso “invadente” (connotazione positiva, in questo caso) di Gelindo, che riesce ad abbellire ancor di più uno dei migliori tasselli dell’opera. Strutturata come la precedente traccia, aggressiva e rocciosa nella prima parte, possiede un altro spiazzante bridge dal sapore mistico (2.23), ma in questo caso rifinito dal basso jazzato (2.35) di Gelindo e dal cantato pulito (unico caso) di Marco Marinoni. I Nostri concludono la parte del materiale “originale” con The Eyes of Kathmandu, mid-tempo riassuntivo senza infami e senza lode dei quaranta minuti precedenti scivolati via senza cali, sorretto da incursioni southern (2.10) e sussurri improvvisi degni di qualche tempio della capitale del Nepal (2.48). Per concludere, il lavoro finisce sulle note di una stravolta When the Levee Breaks, che, però, non ottiene lo stesso esito della No Quarter (Crowbar) dei Crowbar, se proprio vogliamo scomodare altri titani delle paludi.
Cambi di registro costanti che prima incarnano la maestosità di una bufera d’altissima quota e poi, d’un tratto, il silenzio ascetico. Sono questi i tratti che rappresentano al meglio il disco sophomore dei milanesi The Red Coil, suonato con la giusta passione southern, eterogeneo, ma senza un brano che spicca davvero sugli altri, tuttavia contente un numero di flash tali da costringere noi, figli di NOLA, a tenere in considerazione questi ragazzi, ora e in futuro.
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8
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@Giax, beh dai penso che prossimamente faranno altri concerti, anche perché quello di ieri sera, beh, è stato per pochi intimi e invece loro meritano (dovevano esserci anche altre band ma io non le ho viste, boh... forse hanno suonato dopo o sono rincoglionito io). |
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7
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@No Fun: Grande, avevo visto la data sulla loro pagina FB, ma per motivi di distanza/lavoro mi sarebbe stato impossibile partecipare. Sono contento ti siano piaciuti e che si siano riconfermati in sede live...quanto mi piacerebbe sentire dal vivo la "scratchata" di Oriental Lodge! 😉 |
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6
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Visti live ieri sera, quasi per caso: un amico qualche giorno fa mi aveva parlato del locale, The One, venerdì ho voluto vedere chi ci suonasse in questi giorni e ho visto che ci sarebbero andati i Red Coil. Bravi cazzo, come sul disco, compresa la scratchata, il cantante è potente, il bassista prende a pugni le corde del basso e gli altri ci sanno fare, si vede che hanno esperienza (anche perché, eh eh, non sono dei ragazzini). Ho ascoltato anche Lam, è meno immediato di Himalayan Demons, mi è piaciuto ma devo riascoltarlo meglio. |
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5
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Mi sta facendo scapocciare parecchio, è proprio un bel lavoro. Prende subito, con il groove dei riffoni delle prime tracce. Unico rammarico, la voce, sempre con quel growl rauco... non che non vada bene ma alla fine risulta un po' piatto, e parlo di rammarico perché nella parte della canzone Moksha dove Marco canta pulito mi piace un casino! Ha una voce che è già rauca e affumicata ma anche delicata, avrebbe potuto permettersi di variare (una delle cose belle di NOLA è la voce di Anselmo, che a volte sembra Eddie Vedder altre volte Mike Williams). Appena mi arriva mi ascolto pure Lam. |
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@No Fun: Ben detto, perché questi vanno supportati. Attendo il responso, a presto. 😉 |
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Assolutamente no. Non l'ho ancora comprato Ebbene sì mi fido e lo prendo al buio, come faccio ogni tanto, mai pentito, cioè voglio dire non è che mi fido solo della recensione ma anche del mio intuito per quello che mi può piacere. Ti farò sapere |
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2
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@No Fun: hai già dato un primo giro di ascolti? 😉 |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Withdrawal Syndrome Wall 2. Godforsaken 3. Oriental Lodge 4. Opium Smokers Room 5. The Shroud 6. Moksha 7. The Eyes of Kathmandu 8. When the Levee Breaks (Led Zeppelin cover)
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Line Up
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Marco Marinoni (Voce) Daniele Parini (Chitarra) Luca Colombo (Chitarra) Gelindo (Basso) Antonio Carluccio (Batteria)
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