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Leonov - Wake
12/10/2018
( 1552 letture )
”Midway upon the journey of our life, I found myself within a forest dark, for the straightforward pathway had been lost.”

Lo ammetto, mi ha fatto un discreto piacere leggere in un press kit musicale la terzina di avvio del capolavoro della letteratura tricolore declinata in lingua d’Albione, posta oltretutto in posizione di grande visibilità in calce alle note di accompagnamento all’album, quasi a riassumerne con un riferimento potente contenuti e chiavi di lettura peraltro già annunciate dall’artwork della cover. Ma se pure il richiamo dantesco è stata la spinta finale, la personale spia dell’attenzione per il materiale in arrivo dalla Fysisk Format si era accesa fin dalle prime righe delle note artistico/biografiche composte per presentare sommariamente una band finora pochissimo conosciuta, alle nostre cisalpine latitudini. A dispetto degli otto anni di vita del progetto, infatti, nel carnet dei norvegesi Leonov si poteva trovare il solo, omonimo full length datato 2014 e collocabile in un orizzonte post rock decisamente filiforme e solcato da rivoli space, del tutto conseguenti alla scelta di un moniker in cui rivive l’epopea del cosmonauta sovietico Aleksej Archipovič Leonov, primo essere umano a rimanere sospeso nello spazio fuori dalla leggendaria navicella spaziale Voschod 2.
Non si era trattato, per la verità, di una prova disprezzabile (limitandoci a un singolo esempio, una traccia come Om merita ben altro che un ascolto distratto), ma la sensazione era quella di un compitino pulito e non di più, quando per emergere dal mare dell’anonimato post servono ormai scatti di ben altra portata e personalità. Ma ecco che, nelle “dichiarazioni di intenti” in vista della seconda release, i Nostri spostano decisamente il tiro e, con un eloquente (parole loro) “If you like artists such as Subrosa, Chelsea Wolfe, Messa, Sinistro and Ides Of Gemini you need to check it out.” puntano a catturare l’attenzione dei devoti di quel doom che su queste pagine abbiamo definito in più occasioni “esoterico”, popolato com’è da figure di sacerdotesse che sembrano guidare i convenuti alle loro cerimonie in un percorso iniziatico che renda l’introspezione la chiave di volta per comprendere l’universo ed entrare in sintonia con gli Assoluti. Va da sé che scomodare un simile pantheon, se da un lato suscita immediatamente l’interesse di chi, come il sottoscritto, ritiene il doom declinato al femminile una delle lande più sconfinatamente da dissodare, dall’altro imprigiona la resa della proposta all’interno di un perimetro che non si può allontanare troppo dall’eccellenza, pena l’incenerimento istantaneo al cospetto di modelli così abbaglianti.

E, lo diciamo in premessa, i Leonov di questo Wake non solo non si bruciano le ali, ma, tanto per restare in un immaginario dantesco, finiscono per meritarsi una collocazione, se non proprio nell’Empireo, sicuramente a cavallo di Stelle Fisse e Primo Mobile, certificando un processo di crescita impressionante rispetto all’esordio. Se, infatti, sono indubbiamente significativi i punti di contatto con le ingombranti pietre di paragone evocate in sede di presentazione, è altrettanto vero che i norvegesi hanno forze artisticamente sufficienti per caricarsi la materia doom sulle spalle senza bisogno di riprodurre pallidamente a mo’ di copia originali che altri hanno magnificamente rilasciato, a cominciare dalla prova vocale della cantante Tåran Reindal. Dotata di un timbro etereo, perfetto per disegnare cantilene ad alto tasso ipnotico, la singer riesce a ritagliarsi uno spazio tutto suo nella classica scala fate/sirene/streghe con cui inevitabilmente devono fare i conti le frontwomen del genere.
Lontana dalle venature soul di una Jessica Thoth o, a maggior ragione, di Rebecca Vernon, così come da quelle jazz di Sara, in casa Messa (e ancor più dalle implicazioni “teatrali” del contatto col fado di una Patricia Andrade), la Reindal dimostra piuttosto di aver frequentato con profitto la lezione Chelsea Wolfe e, ancor meglio, quella Sera Timms, sia nella declinazione Ides of Gemini che in quella Black Mare, ma per avere un quadro completo delle ascendenze bisogna necessariamente aggiungere alla (già ottima) compagnia il nome di Carline Van Roos, cuore pulsante dei francesi Lethian Dreams. Il tocco decisivo è allora quello di un doom minimalista/cantautorale, il cui asse portante è la capacità di disegnare atmosfere malinconicamente soffuse da cui sono rigorosamente banditi approcci muscolari o anche solo enfatici, a tutto vantaggio di un’articolazione delle tonalità dei grigi in tutte le possibili gradazioni.
Detto delle eccellenti notizie in arrivo dal microfono, attenzione però a non trascurare il lavoro del resto della band, impeccabile nel compito di “ancella da cerimonia” della vestale che officia il rito sull’altare ma dotata qualitativamente di vita propria, a cominciare da una sezione ritmica che scandisce alla perfezione i tempi emozionali delle tracce (con nota di merito particolare per il lavoro alle pelli di Jon-Vetle Lunden) per finire con le sei corde di Ole Jørgen Reindal e Rune Gilje, perfettamente a loro agio sia nell’aprire squarci melodici a volte addirittura struggenti, sia nell’iniettare nel corpo dei brani gocce di spettralità che ne incrementano la cifra liturgica complessiva.

Cinque tracce per poco più di quaranta minuti di viaggio complessivi, i Leonov affidano la partenza all’episodio più ortodossamente doom del lotto (I Am Lion, I Am Yours), ma, dopo aver apprezzato una Reindal qui concentrata a dettare i tempi di una base cadenzata, bastano pochi solchi per assistere all’iniezione delle prime, corrosive sporcature space/post, a chiarire subito il concetto che l’indirizzo sarà sbagliato, per chi fosse alla ricerca di strutture che facciano della compattezza il proprio tratto distintivo. Si gioca a carte decisamente più scoperte nella successiva Eucharist, percorsa dall’inizio alla fine da una corrente mistica a metà strada tra la contemplazione estatica individuale e una funzione sacra destinata alla fruizione collettiva, prima che un magnifico finale addensi nuvole cariche di oscurità, senza mai recidere però il cordone ombelicale con l’attitudine melodica iniziale. Vola verso esiti ragguardevoli anche Shem, che, dopo aver puntato su un avvio in sospensione quasi shoegaze del ritmo, convoca sul palco prima pulsioni tribalistiche e poi una strepitosa apertura alcestiana, a cui segue per contrappasso un lampo improvviso che scatena inattesi tocchi industrial/rumoristici.
Assorbite agevolmente queste scosse poco più che ornamentali, la navigazione riprende sulle onde appena increspate di Oceanode, forse l’unico motivo di piccolo rammarico in un platter per il resto impeccabile, complice una chiusura abbastanza debole sul versante emozionale nonostante lo sforzo profuso nel chiamare in soccorso un registro psichedelico. Tutto superato più che in fretta, però, perché è pronta al decollo la traccia che da sola varrebbe la spesa del biglietto, la chilometrica Wake, quindici minuti di autentico spettacolo ben oltre il recinto acustico: passaggio in volo su mondi avvolti da nebbie che rendono inconsistenti le forme, fugaci apparizioni di creature in arrivo da dimensioni fiabesche, un senso di malinconico abbandono che libera dalla spietata dittatura di Tempo e Spazio (o forse ne è piuttosto il suo rassegnato riflesso?)… e qui il recensore si deve fermare, perché pronunciare i nomi di Aleah Stanbridge e dei Trees of Eternity significherebbe caricarli del peso di troppe responsabilità, questi ragazzi, in vista di uscite future.

Eleganza e raffinatezza in artisticamente impeccabile simbiosi ad intercettare ed esaltare un impressionante pathos di fondo, un saggio di bravura di come ispirazione e linguaggio debbano necessariamente convivere sotto lo stesso tetto, se la meta è l’imperdibilità, Wake è un album che si iscrive di diritto alla categoria delle grandissime uscite di questo 2018. Se riusciranno a perdersi ancora nella selva oscura delle sette note, siamo pronti a scommettere che nell’Empireo doom bisognerà stringersi un po’, per far posto ai Leonov.



VOTO RECENSORE
83
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2018
Fysisk Format
Doom
Tracklist
1. I Am Lion, I Am Yours
2. Eucharist
3. Shem
4. Oceanode
5. Wake
Line Up
Tåran Reindal (Voce, Tastiere)
Ole Jørgen Reindal (Chitarre)
Rune Gilje (Chitarre)
Morten Kjelling (Basso)
Jon-Vetle Lunden (Batteria)
 
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