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Black Tusk - T.C.B.T.
24/10/2018
( 1051 letture )
”Punk’s not dead”

Che si tratti del glorioso album targato The Exploited, lontano anno domini 1981, o del film documentario di Susan Dynner girato nel 2006 per celebrare il trentennale della nascita del movimento, la lapidarietà di un motto agevolmente spendibile come rivendicazione/minaccia/profezia ha sempre accompagnato la storia di uno dei generi musicali che ha più provato a coniugare velleità artistiche e vita reale dei suoi campioni, al punto da rendere paradigmatiche espressioni come “way of life” o “do it yourself”. Evidentemente e del tutto comprensibilmente, immaginiamo che buona parte di chi ha vissuto in presa diretta l’epopea punk settantiana faccia fatica anche solo a concepirne l’esistenza in un quadro così socialmente e culturalmente mutato come quello attuale, ma crediamo del pari che sarebbe un grave errore celebrarne frettolosamente il de profundis o confinarla in una dimensione di semplice meteora. Se, infatti, cercare nel panorama discografico contemporaneo eventuali epigoni di The Clash o Sex Pistols risulterebbe impresa del tutto anacronistica prima ancora che vana, è altrettanto vero che da alcuni rami collaterali del grande fiume si sono staccati rivoli capaci di innervare spunti in arrivo da altri registri, mantenendo in qualche modo viva almeno una parte della tradizione. È questo il caso, ad esempio, di quell’hardcore punk che, partito dalle roccaforti della West Coast, ha vissuto un momento di gran spolvero negli anni Ottanta, diventando una delle punte di diamante della scena underground a stelle e strisce ancor prima che la sua “variante melodic” spalancasse le porte del successo commerciale a più di qualche moniker, Bad Religion in testa.

E proprio grazie alla mediazione dell’hardcore si è realizzato uno degli incontri più proficui e significativi tra il metal e il punk, complici gli intrecci con doom, southern rock e, soprattutto, stoner. Il nuovo genere ha preso subito dimora nelle lande del sud degli Stati Uniti, dalla California dei 16 alla Louisiana di Crowbar e Down fino all’insospettabile Georgia, dove, partendo oltretutto dalla medesima città, Savannah, due band hanno dato vita a un decennio di grande fermento creativo. Rabbia, potenza, spigolosità estrema, dissonanze erette a sistema, lo sludgecore di Kylesa e Black Tusk si è subito posto al capo più acido e urticante dello spettro sonoro, ma mentre col passare degli anni la coppia Pleasant/Cope ha progressivamente accettato il confronto con le suggestioni melodiche (al punto che i passaggi migliori dell’ultimo platter rilasciato prima dell’annunciata pausa di riflessione, Exhausting Fire, sono quelli a più alto tasso di contaminazione), i Black Tusk si avviano a tagliare il traguardo del terzo lustro di carriera senza sostanziali scostamenti rispetto al debutto, ribadendo puntualmente ad ogni uscita la fedeltà al modello “energia, muscoli & sudore”.

La prima buona notizia è che con questo T.C.B.T. (acronimo di Take Care of Black Tusk, in cui rivive, opportunamente modificato, l’antico motto “Take care of business - TCB”, scelto come moniker dalla band che ha accompagnato Elvis Presley negli ultimi tour) Andrew Fidler e soci segnano un punto importante sulla strada del definitivo superamento della tragedia che ha ne segnato indelebilmente la biografia, vale a dire la morte del bassista Jonathan Athon, scomparso nel 2014 in un incidente motociclistico. Già dopo quella data, in realtà, i Nostri si erano rifatti vivi con un album, ma il materiale contenuto in Pillars of Ash era il frutto di una precedente registrazione, portata a termine pochi giorni prima della scomparsa di Athon. Nel frattempo, per il ruolo di bassista è stato ingaggiato Corey Barhorst, fino al 2011 membro della famiglia Kylesa e immediatamente a proprio agio in una dimensione stilistica tutto sommato condivisa dai due gruppi.
La seconda buona notizia è che il terzetto (recentemente integrato dall’ingresso in pianta stabile in formazione di una seconda chitarra, affidata a Chris "Scary" Adams) non ha dimenticato i segreti per offrire agli affamati di sludgecore un prodotto con tutte le carte in regola per soddisfare le esigenze di chi nel metal panorama sia alla ricerca di potenza e impatto, nonché di tutte le possibili implicazioni dello scontro degli atomi di una materia letteralmente sollevata dal suolo e scaraventata a gran velocità contro muri che ne frantumino i legami elettrostatici. Che la base sia fangosamente sludge o polverosamente stoner poco importa, quello che va in scena è un indiavolato sabba perfettamente apparecchiato per una altrettanto sfrenata resa live, modalità in cui del resto i Nostri hanno dato abbondanti prove di eccellenza in antiche calate finanche sul patrio suolo. Inutile cercare episodi che agevolino un’immediata memorizzazione “individuale”, vano ipotizzare un’attenzione anche solo accennata alle strutture delle tracce, poco utile avventurarsi in dettagliate dissezioni dei brani alla ricerca di possibili corrispondenze (certo, è difficile non pensare ai Mastodon degli esordi, come numi tutelari più prossimi, non fosse altro che per la comune, georgiana conterraneità), il consiglio per affrontare con costrutto i poco più di quaranta minuti di ininterrotta tempesta sonora è quello di arrendersi all’incalzare di un ritmo quasi primitivamente primordiale, carburante pressoché inesauribile per selvaggi scontri di corpi in disarmoniche traiettorie sotto i palchi. Prevedibile, con simili premesse, il ruolo del cantato (anzi, per meglio dire, “dei” cantati, considerato che tutti i componenti brandiscono il microfono), sempre spigolosissimamente declinato in scream ad incrementare il tasso acido dell’insieme e a dilaniare i pochi brandelli di carne eventualmente sopravvissuti al lavoro tritasassi degli strumenti, con la batteria di James May in primo a piano a dettare i tempi della macinazione.

In questo flusso non di rado in perenne tensione fino alle soglie della cacofonia, come detto, diventa problematico isolare nella tracklist momenti che funzionino da “stand alone” di particolare pregio o intensità (forse con la sola, possibile eccezione di Scalped, che distilla contemporaneamente le migliori parti punk e sludge dell’intero lavoro, o di Whispers, vagamente Bad Religion oriented con le sue venature cripto punk rock) e qui risiedono sia il merito sia il limite principale dei Black Tusk di questo T.C.B.T., nonché una potenziale ipoteca sul loro futuro: la fedeltà orgogliosa e non banalmente ostentata a un canone è sempre sintomo di ottima salute sul fronte dell’ispirazione, ma se fosse il genere in sé, a mostrare dopo anni di onoratissima militanza gli inesorabili segni del tempo e più di qualche affanno da esaurimento della vena creativa? Per ora il saldo rimane positivo, ma si sente più di qualche scricchiolio, in sottofondo…



VOTO RECENSORE
69
VOTO LETTORI
69.5 su 2 voti [ VOTA]
alehc77
Mercoledì 31 Ottobre 2018, 16.46.03
1
Il disco non è male... la recensione purtroppo mi è parsa incredibilmente prolissa...
INFORMAZIONI
2018
Season of Mist
Sludge
Tracklist
1. A Perfect View of Absolutely Nothing
2. Closed Eye
3. Agali
4. Lab Rat
5. Scalped
6. Ghosts Roam
7. Ill at Ease
8. Rest with the Dead
9. Never Ending Daymare
10. Orange Red Dead
11. Whispers
12. Burnthe Stars
Line Up
Andrew Fidler (Voce e chitarra)
Corey Barhorst (Basso e voce)
James May (Batteria e voce)
 
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