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Martyr Lucifer - Gazing at the Flocks
18/12/2018
( 980 letture )
Un viaggio lontano e imprevedibile.
È questa la metafora che giunge alla mente dell’ascoltatore per sintetizzare a grandi linee il concept e le sensazioni veicolate dagli episodi contenuti in Gazing at the Flocks. Martyr Lucifer torna sul mercato con un lavoro di inediti dopo cinque anni dalla pubblicazione del fortunato Shards, prendendo ancora una volta il testimone derivante dagli esordi sempre più lontani sanciti da Farewell to Graveland. Se da un lato l’esperienza ormai pluridecennale del mastermind romagnolo suggerisce aspettative consistenti, a rafforzare questa idea di qualità stilistica e produttiva troviamo l’intera squadra che collabora alla realizzazione del disco: oltre alla confermata Leít, che ha saputo dare buona prova di sé sui due lavori precedenti, hanno lavorato alle tracce del platter anche il batterista svedese Adrian Erlandsson (che di certo non ha bisogno di presentazioni), il chitarrista Nagaarum (direttamente dalla scena experimental doom/dark ambient ungherese) e, dulcis in fundo, Simone Mularoni, per l’occasione impegnato sia al basso che in regia. Si tratta del terzo disco del monicker caratterizzato ancora una volta da un team sicuramente eterogeneo, in cui ogni singola parte riesce a dare il giusto apporto al progetto durante la composizione e l’elaborazione finale dei brani. Considerando queste premesse, vediamo nel dettaglio che sorprese riserva il contenuto del disco qui in disamina.

Gazing at the Flocks (letteralmente “ammirando il gregge”) tratta con le sue dodici canzoni l’intricato quanto insolito tema della criptozoologia, articolando il concept in undici canzoni, escludendo la opener interamente strumentale. Già un primissimo ascolto del disco è capace di catapultarci in un mondo onirico, etereo, abitato da forme confuse e dai tratti indefiniti che sembrano sottrarsi ai soliti schemi interpretativi. Man mano che le tracce procedono, a palesarsi davanti alla mente dell’ascoltatore sono figure opache e sfuggenti, i cui contorni si dissolvono nell’aria ancor prima di poterli mettere a fuoco. Tendere una mano o aguzzare la vista è inutile: è come ritrovarsi di colpo in un sogno dettato dall’inconscio, in un luogo intangibile in cui il confine tra realtà e finzione è labile. A mediare tra esseri umani e creature sconosciute è un livello profondo di conoscenza reciproca che poggia le basi su un dialogo fatto di esperienze, interiorità ed emozioni: ecco che i lineamenti velati di chi ci sta di fronte appaiono per quello che realmente sono, ovvero un bozzolo in cui sono custoditi aspetti rintracciabili anche nell’essenza umana. Ciò che ci sembra estraneo, in sostanza, non è poi così dissimile a noi. A fare da eco a tutta questa eterogeneità sono le voci del frontman e di Leít, capaci di supportarsi a vicenda in passaggi che, allo stesso modo delle figure evocate dal concept, non sempre sono di immediata comprensione. L’album mostra uno stile che difficilmente può essere ricondotto ad un genere musicale portante: la differenza sostanziale rispetto ai due lavori precedenti consiste proprio nell’immensa varietà di sound qui proposto, con la convivenza più o meno forzata del gothic con influenze prettamente darkwave, alternative rock, indie, hard’n’heavy e progressive. A caratterizzare il disco sono scelte stilistiche del tutto lontane dall’essere easy-listening, con elementi di matrice diversa che, purtroppo, non appaiono sempre calibrati. Dopo gli svariati ascolti doverosi per assimilare a trecentosessanta gradi tutte le sfumature qui proposte dalla band, ciò che resta è un notevole senso di confusione, come se idee, strumenti (soprattutto) e voci facessero talvolta parte di un insieme sovraccarico. A fronte di ciò, brani come Bloodwaters e Feeders sono chiari esempi di come tutti i singoli elementi non riescano sempre a fondersi appieno, fornendo un’immagine d’insieme ridondante. L’episodio più lampante di disomogeneità in un album già di per sé molto frammentario è rappresentato dall’undicesima traccia, la quasi omonima Flocks: oltre a presentare un incipit dalla sezione ritmica così serrata da stridere con la pacatezza di fondo dell’intero platter, il pezzo è costituito da alcune parti strumentali singolarmente interessanti ma che, a causa di cambi tempo e inserti non sempre azzeccati, risultano slegate e meno convincenti nella loro visione più ampia. Parlando ancora di soluzioni che non riescono a fare centro, è da segnalare la presenza di testi ripetitivi che smorzano l’efficacia della brillante prova vocale sia maschile che femminile, come nel caso delle liriche del mid-tempo simil-cantilena Feeders, aka Heterotropy-Saprotrophy, della grintosa Spiderqueen e della nivea Halkyónē’s Legacy, aka The Song of Empty Heavens. Gazing at the Flocks vede il mastermind e i suoi destreggiarsi in brani dal filo conduttore poco marcato, dando vita a canzoni in cui il gothic metal di fondo assume sfaccettature sempre diverse. Oltre all’eccelso focus sulle chitarre già ampiamente sperimentato nel corso della discografia, a sostenere abilmente i brani dell’album (fatta eccezione per gli episodi dal tratto disordinatamente sperimentale) è la melodia del synth, capace di evocare atmosfere dark, cupe e oniriche, talvolta con incursioni più inclini all’heavy metal come nel caso della cover Somebody Super Like You di Paul Williams. Tralasciando le parti meno riuscite, questo terzo lavoro del gruppo racchiude diversi passaggi degni di nota. Come miglior brano dell’intero disco va menzionato Benighten & Begotten, con il suo sublime trascinarsi degli arpeggi di chitarra e dei colpi di batteria intorno a linee vocali profonde, malinconiche e struggenti, per poi esplodere a circa un minuto e mezzo dall’inizio in un vortice di chitarre elettriche e di synth melodico. Anche la successiva Spiderqueen non è da meno, nonostante la ripetitività del testo: spetta a Leít il compito di fornire la giusta sostanza al pezzo su un appoggio puntuale di chitarre e sezione ritmica, in un duetto con Martyr oltremodo perfetto. Tra i migliori episodi occorre inoltre citare Veins of Sand Pt. 2, canzone in cui voce e strumenti si destreggiano abilmente nel tessere trame via via più ricche e articolate in ogni passaggio, pur mantenendo una struttura circolare di fondo. Un’ulteriore menzione ampiamente positiva va fatta alle due parti di Leda and the Swan: la prima si mostra come una ballad alternativa, caratterizzata da voci e sussurri soavi calati in un climax introspettivo, suggestivo e poetico; la seconda è a tutti gli effetti un pezzo strumentale di matrice gothic/dark metal focalizzato su chitarre e assoli.

Che dire, in conclusione, di Gazing at the Flocks? Quello a cui ci troviamo di fronte è un album dalle innumerevoli sfaccettature, con uno stile sì influenzato da mondi musicali differenti, ma che proprio per questo motivo appare disorganico e confuso. Ad ogni modo, oltre alla produzione eccellente affidata alle mani di Simone Mularoni, a pesare positivamente sono gli episodi in cui il tratto sperimentale riesce a creare un amalgama consistente con le soluzioni più d’impatto dei pezzi. Proprio a causa del rincorrersi continuo di derivazioni e sfumature, si tratta di un lavoro che segna uno stacco dal debutto a livelli maggiori rispetto a quanto fatto con Shards. Le basi per un quarto album gothic sperimentale ci sono tutte, occorre soltanto premiare alcune scelte anziché altre e confezionare il tutto in un lavoro più identitario ed equilibrato.



VOTO RECENSORE
68
VOTO LETTORI
70 su 2 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2018
Seahorse Recordings
Gothic
Tracklist
1. Veins of Sand Pt. 1
2. Veins of Sand Pt. 2
3. Bloodwaters
4. Feeders, aka Heterotropy-Saprotrophy
5. Leda and the Swan Pt. 1
6. Leda and the Swan Pt. 2
7. Wolf of the Gods
8. Somebody Super Like You
9. Benighted & Begotten
10. Spiderqueen
11. Flocks
12. Halkyónē’s Legacy, aka The Song of Empty Heavens
Line Up
Martyr Lucifer (Voce e synth)
Leít (Voce)
Nagaarum (Chitarre)
Simone Mularoni (Basso)
Adrian Erlandsson (Batteria)
 
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