"For us this record represents a rebirth of sorts," says Vidal. "We went through a few trying years where the future of the band was in doubt and making another record seemed like it may never happen. But, we continued on, believing that we had more to accomplish. This new record is a result of that belief, as well as a lot of hard work. We’re all very proud of it and are looking forward to sharing it."
(Andrea Vidal, 2018)
Inutile ribadire che questo neonato II degli Holy Grove vede la luce tra pessimismo, sconforto, una probabile carenza di fiducia nei propri mezzi e chi più ne ha, più ne metta. In fondo in fondo, la capiamo pure la nostra Andrea Vidal, una che delle proprie doti canore non dovrebbe temere nulla, mentre rilasciava queste parole: per alcuni la musica si tramuta in ragione di vita, mentre per altri è mero passatempo e nulla di più. Poi, qualcuno dei lettori avrà già adocchiato la voce a destra, quel “musicisti ospiti”, che senza dubbio precedono di fama i Nostri, e forse, si sarà detto: “ma sì, e diamolo un ascolto, a questi Holy Grove, che sarà mai in fin dei conti!”. Ci auguriamo che così sia.
Ed è necessario spendere un paio di parole su come i Nostri sono arrivati ad incidere questo II, ma soprattutto su come sono arrivati (integri) a questo 2018, che volge al termine. La storia degli Holy Grove non è la classica storia di amici di liceo che jammano dopo le ore di laboratorio o del “chitarrista nato nello stesso isolato del batterista, che a sua volta è cugino del bassista” e via dicendo. I Nostri, quando si formano nel 2012, sono perfetti sconosciuti. Andrea Vidal, Trent Jacobs, Gregg Emley e l’allora batterista, Adam Jelsing, in comune hanno solo una cosa: la passione per la musica (ma va?). E più nello specifico, coltivano la stessa passione per l’heavy rock, per lo stoner, per il doom e per il blues rock. Demo 2012 è il primo passo discografico, seguito da Live at Jooniors (2014). Di lì a poco, la band perde un pezzo per strada, Adam Jelsing, prontamente sostituito da un nuovo drummer, Craig Bradford. Giusto in tempo, perché la nostrana Heavy Psych Sounds Records fiuta le potenzialità del quartetto e pubblica la loro prima fatica discografica, Holy Grove (2016), un lavoro che consigliamo di riscoprire, registrato interamente a Portland, negli studi (Everything Hz) della leggenda che porta il nome di Billy Anderson. A grandi linee, è così che nasce la risposta a stelle e strisce ai nostrani Messa. Risposta, questi Holy Grove, che presentano affinità, ma anche divergenze con il monicker veneto: più rivolti all’heavy rock/stoner i primi, rispetto al drone doom (mutato poi in jazz…) dei secondi. Soprassedendo sulle questioni stilistiche, si noteranno, piuttosto, elementi di somiglianza tra le due vocalist, e non solo nel timbro. Corde vocali, le loro, versatili, che graffiano e scaldano allo stesso tempo, grazie alle quali le nostre hanno la possibilità di spaziare dal soul, all’hard rock, ad eventuali strappi colorati di pop con la medesima facilità, ma senza mai allontanarsi dal contesto doom in cui sono inserite. Curioso, inoltre, di come coincidano per due volte le date d’uscita di Holy Grove / Belfry (2016) e di II / Feast for Water, se non fosse che, nel 2016, gli americani subiscono un altro scossone alla line-up, che mise a rischio l’esistenza stessa della band (si veda, appunto, la citazione in apertura…). Non sarà nemmeno il forfait di Craig Bradford a frenare la sete di doom/stoner degli Holy Grove, perché con l’appoggio di Ripple Music e con l’entrata del nuovo drummer Eben Travis, di “formazione” power/speed, la band sforna questo II. Diminuisce il numero di brani, si punta sul minutaggio dei singoli tasselli e sull’atmosfera, modellando un lavoro distribuito equamente fra sezione strumentale e il fervore e la grinta della brava Vidal. Ritroviamo ancora una volta Billy Anderson, che oltre a contribuire con una linea di chitarra nel singolo Solaris, produce, registra e missa questo II. Adam Burke si occupa dell’artwork (giusto per assaggiare un altro suo lavoro recente si veda la copertina di Hypnagogia) e un certo Mike Scheidt offre alcune “ghost vocals” in Cosmos, che, guarda un po’, è il vertice di questo nuovo platter, insieme alla furibonda Aurora. Sognare non costa nulla e a qualcuno dei lettori sarà già venuta l’acquolina alla bocca..
Ci pensano gli otto minuti scarsi dell’opener, Blade Born, a mostrarci una band che ha compiuto un passo avanti a livello di songwriting. Sul piano stilistico, si nota un brano perfettamente inseribile nel precedente lavoro, ma si faranno presto i conti – e che conti - con l’incisività delle prime strofe, tagliate con un’irresistibile patina radiofonica, con il riffing arioso di Trent Jacobs, con l’atmosfera a tratti allucinata, in cui la voce limpida di Andrea Vidal risplende in lontananza, incalzando su tempie e meningi. Accantonato il doom / heavy psych della precedente, la bacchetta magica di Eben Travis, per l’occasione chiamata cowbell, stravolge l’atmosfera e introduce il terremoto Aurora. Toc-toc, è qui la festa? Si passa ad uno stoner / heavy rock, incendiato dal fuzz di Jacobs, dominato dai dirompenti cambi tempo di Travis e dallo scorticamento delle corde vocali di Vidal, che qui offre una prova encomiabile. Quattro minuti da manuale di “stoner al femminile”. Con il sangue che pulsa ancora, dopo una tale ondata di calore, Valley of the Mystics ci rivela i nuovi Holy Grove. Certamente non esente da difetti, il terzo brano si articola su frangenti doom di stampo candlemassiano reiterati un po’ troppo dopo la seconda metà, intervallati, più o meno regolarmente, da stacchi con forti rimandi al soul (esempio: 1.41-2.38), come forti in questo punti sono gli echi dei Messa di Feast for Water. Un brano sicuramente sopra la sufficienza, che vive i propri momenti migliori grazie all’interpretazione della vocalist, di contro affossato da un riffing altalenante e che sfuma in una fastidiosa monotonia. Con Solaris, singolo-suite orientato verso il doom nel riffing, calano le tenebre anticipate nella precedente Valley of the Mystics: il timbro della cantante vive un altro momento di gloria, soprattutto in coda. Se si volesse trovare un difetto (non da poco…), qualche minuto del brano risulta (ancora) superfluo e, giunti a questo punto, auspichiamo una maggiore attenzione sui fattori efficacia / efficienza da parte dei Nostri. Giocare con il minutaggio può essere pericoloso, ma gli Holy Grove con Cosmos risollevano le sorti di una prova che fino a questo punto si è rivelata più che discreta. Dicevamo, Cosmos: un carico da dodici minuti di dilatazioni space, pulsioni stoner, drammaticità doom convogliate in flusso, o in una spirale, che mira a sfregiarci. Sorretto da un climax struggente che si innalza fino a metà inoltrata del brano, è giusto evidenziare in questo caso, tutto l’operato di Trent Jacobs, ispiratissimo, impegnato a gestire synth-archi, linee soliste riuscite e un assolo spiazzante: breve, ma intenso. Pregio o difetto? Non spetta a chi scrive dirlo, ma è lecito chiederne, anzi, aspettarsene di più, di assoli, nella prossima uscita.
Da una band che si muove agilmente su più generi e che possiede una vocalist di questo calibro, l’esigenza degli ascoltatori è sempre rivolta verso l’alto…ma non sempre le attese vengono ripagate completamente. Per certi versi, II è un lavoro che lascia l’amaro in bocca, dal momento che al suo interno più di qualcosa di veramente buono lo incontriamo strada facendo: comincia con un’impennata da big, si accartoccia sui propri solchi e si risolleva dignitosamente col brano conclusivo. I Nostri, con un pizzico di testardaggine, propongono brani lunghi e riusciti a metà nel cuore del platter, troncando nettamente con le atmosfere iniziali (tanto che non sarebbe errato parlare di due opere distinte…) e imboccano un sentiero permeato di dolore e umori foschi, ma senza far scattare mai la medesima scintilla percepita con Blade Born / Aurora, che, a conti fatti, sono pure il miglior biglietto da visita della band odierna. Non si è ancora materializzato del tutto per gli Holy Grove, lo spettro del balzo definitivo, perché II è stato, allo stesso tempo, un passo in avanti e un passo indietro rispetto all’esordio; maturità raggiunta parzialmente, ma la classe dei singoli membri c’è. Ora, non resta che assemblarla, questa classe, mettendola al servizio dei brani. Stabilità nella line-up permettendo.
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