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The Afghan Whigs - Black Love
19/01/2019
( 1753 letture )
Gentlemen ottenne un buon successo, il singolo Debonair venne trasmesso ciclicamente da MTV e l'album ottenne recensioni molto positive. Nonostante il successo dell'album, la band non seppe cogliere l'attimo, e rimase sempre allo stato di cult band.”

Si esprime così, con l’inevitabile stringatezza che ci si deve attendere dalle brevi note che sviluppano una “voce” secondo la lezione di D’Alembert e Diderot, la più nota e consultata enciclopedia libera online al capitolo “The Afghan Whigs: Biografia – Il periodo major e lo scioglimento”. Al netto di una discreta semplificazione e di una lettura forse un po’ sommaria della corrispondenza tra attimi colti/da cogliere e status di una band, la definizione fotografa se non altro abbastanza puntualmente la parabola artistica e commerciale di un quartetto assurto agli onori delle cronache musicali con uno degli album destinati a divenire icona della manciata d’anni che ha congedato il secondo millennio.
In realtà, a prescindere dal valore (incontestabile e incommensurabile) di un platter come Gentlemen, le undici tracce che lo compongono avevano già tutte le carte in regola per preannunciare sviluppi eretici rispetto a una traiettoria che in troppi immaginavano segnata all’interno del recinto grunge. Era il 1993 e il vento di Seattle scuoteva praticamente tutte le fronde rock e, nella frenetica ricerca di potenziali “capitali” alternative e/o concorrenti, la Cincinnati di Greg Dulli e compagni sembrava essere diventata la risposta continentale al centro motore delle coste del Pacifico, pur senza poterne ovviamente insidiare la supremazia, visto l’affollarsi di titani anche oltre la sacra tetrarchia Nirvana/Soundgarden/Alice in Chains/Pearl Jam.
Come dimostrato con dovizia di particolari dall’astronomia, però, quasi sempre la luminosità di un fenomeno configura un rapporto di proporzionalità inversa con la sua durata e la morte di Cobain si ergerà a drammatica incarnazione della crisi dell’intero movimento, destinato a rinsecchire con la stessa velocità con cui era rigogliosamente sbocciato. Arriviamo così al 1996 e, dopo il canto del cigno dei Soundgarden con Down on the Upside, in molti si attendevano un lavoro in grado di rilanciare le sorti dell’intero genere e, tra le opzioni più credibili su cui contare, quella degli Afghan Whigs sembrava essere una delle più concretamente accreditate.

Mai come in questo caso, però, le fiches erano puntate sul numero sbagliato e, quando Dulli in modalità croupier della roulette pentagrammatica annunciò a gran voce l’uscita di Black Love, quasi tutti rimasero ammutoliti al cospetto di quello che sembrava essere un tradimento e abbandonarono in fretta il casinò di Cincinnati. Pressoché ignorato dalla critica mainstream dell’epoca (che differenza, rispetto al diluvio di lodi dispensate nelle recensioni ri-scritte in occasione della ristampa che nel 2016 ne ha celebrato il ventennale…) e protagonista di un flop commerciale che avrebbe comprensibilmente irritato gli alti papaveri della Elektra Records, Black Love è il classico esempio di come a volte solo il tempo possa rendere giustizia a ciò che la “contemporaneità” ha ingiustamente negato, restituendo dignità alle poche, sbeffeggiate voci che avevano avuto da subito il coraggio di sfidare la corrente remando in direzione ostinatamente contraria.
Ecco allora che, sia pur faticosamente, si è affermato il semplice principio che il quartetto (qui con Paul Buchignani a sostituire Steve Earle alle pelli) non ha perpetrato alcun improvviso tradimento né tantomeno leso la divina maestà grunge, per il semplice motivo che gli Afghan Whigs non sono mai stati un gruppo organicamente ascrivibile alla poetica grunge, come del resto già ampiamente annunciato da Gentlemen, almeno per orecchie dedite ad ascolti liberi da pregiudizi classificatori. Il vero centro della scena rimane così occupato da quelle propensioni eretiche a cui facevamo riferimento (del resto, quando nel palmares della carriera si può sfoggiare la cover di un brano delle Supremes, My World Is Empty Without You, permettendosi di non scimmiottare Diana Ross e compagne…), che si materializzano in un incontro sempre più proficuo con la tradizione soul e R&B e realizzando un piccolo gioiello di musica noir. Ebbene sì, usiamo volutamente e non a caso il termine “noir”, perché dietro l’album si celano anche le mai negate velleità letterarie e cinematografiche di Dulli, che si erano spinte fino ad acquisire i diritti del libro di Ann Imbrie Spoken in Darkness per realizzarne un film. E Black Love, pur senza una struttura da classico concept album, mette in scena una collezione di fotogrammi dietro cui pulsa la vita di un vero e proprio romanzo poliziesco, che il quartetto sviluppa con il consueto carico di sensualità ma con una vena introspettiva decisamente più marcata rispetto al predecessore.
Beninteso, Dulli non rompe i ponti con il passato da cattivo ragazzo affetto da incurabile misoginia che in Be Sweet aveva fieramente proclamato “Ladies, let me tell you about myself, I got a dick for a brain”, ma sull’apparentemente impassibile maschera da misantropo si allarga più di qualche crepa, lasciando intravvedere un’anima meno convinta della propria autosufficienza e pronta a condividere l’incertezza del possibile confronto con le proprie debolezze. Ecco allora la scelta di un titolo che, al di là dei risvolti autobiografici (rinviando in prima istanza alla passione giovanile del singer per l’incenso che porta lo stesso nome, come immortalato nella splendida cover), porta in sé i germi dei contrasti ma anche della poesia che scaturisce dal contatto tra il sentimento più nobile a disposizione dell’umana esperienza e il colore che più di tutti anticipa la sorte che ci attende come individui. In questo mare potenzialmente sconfinato di spunti e ispirazione, gli Afghan Whigs amalgamano da consumati maestri le componenti muscolari e abrasive con quelle melodiche, confezionando undici episodi di incredibile intensità marchiati a fuoco dalla voce di un Dulli se possibile ancora più incisivo rispetto alla già monumentale prova offerta in Gentlemen, proiettato in una dimensione da rocker a tutto tondo ma con la fondamentale integrazione di un retrogusto soul che regala all’impasto un’irresistibile carica di sensualità, perfettamente assecondata da una sezione strumentale semplicemente da applausi, con nota di merito particolare per la sei corde di un McCollum impeccabile sia nelle cavalcate acide sia nei passaggi ad alto tasso di eleganza e trasognata raffinatezza.

Che si tratti di non recidere il cordone ombelicale con la madrepatria grunge (Crime Scene Part One), di rendere accidentata una base quasi ballabile iniettando nuvole di nicotina nel microfono (My Enemy), di disegnare insidiosi arabeschi pericolosamente narcotizzanti (Double Day), di strizzare l’occhio al funky chiamando a convegno congas e percussioni (Blame, Etc. ), il risultato è fin dalle prime tracce quello di un coinvolgimento totale, in un’atmosfera in cui tensione e mistero si dividono il proscenio finché le note della voluttuosamente sofisticata Step into the Light non sopraggiungono a chiudere un ipotetico primo atto. Al riaprirsi del sipario siamo subito accolti da uno dei carichi da novanta del platter, Going to Town, che andrebbe portata come prova in tutti i rock convegni in cui si dubiti della possibilità di attraversare la soglia dell’easy listening mantenendo dritta la barra della qualità e se la successiva accoppiata Honky’s Ladder/Night by Candlelight fa segnare un appena percettibile arretramento sul versante della freschezza compositiva, ci pensano i fuochi di artificio della triade conclusiva a rimettere i vagoni sui binari dell’emozione, a cominciare dal memorabile lavoro di tastiere e pianoforte (nelle mani dell’ospite Harold Chichester) della cadenzata Bulletproof per proseguire con quella Summer’s Kiss che il buon Greg stesso ha dichiarato essere un tributo agli Who e che in meno di quattro minuti incendia l’etere in un crescendo al cui culmine si stampa il più lapidario e contemporaneamente miglior riff dell’intero lavoro.
E infine c’è lei… la regina assoluta della corte, la traccia per cui si sarebbero dovuti spendere fiumi di inchiostro tentando di rendere almeno per sommi capi l’idea di quale vetta il quartetto fosse stato in grado di toccare in termini di orchestralità e coralità. Metà ballad malinconica, metà sussurro eroico intriso di inquietudine, Faded è ancora oggi una creatura sfuggente che dispensa a piene mani commozione e turbamento; e ad anni di distanza, più di qualcuno lo ha finalmente ammesso, che scomodare l’ombra di una Purple Rain era tutt’altro che un azzardo…

Un gioiello finito nelle mani di un tempo sbagliato, un capolavoro clamorosamente sfuggito alla cura e alle attenzioni di buona parte di chi evidentemente non aveva capito fino in fondo le premesse del suo venerato predecessore, Black Love è un album che aspetta da ormai due decenni di vedere riconosciuto il suo (legittimo) posto nella galleria degli imperdibili di un intero decennio. E’ ora di regolare finalmente i conti con una narrazione sbagliata: la storia degli Afghan Whigs non è iniziata e finita con Gentlemen.



VOTO RECENSORE
90
VOTO LETTORI
89 su 6 voti [ VOTA]
No Fun
Domenica 27 Gennaio 2019, 19.14.46
7
L'ho comprato un paio d'ore fa in una bancarella, proprio perché mi ricordavo di questa rece.
Marco 75
Mercoledì 23 Gennaio 2019, 10.55.43
6
Un capolavoro, già all'epoca me ne innamorai e non capisco come abbia potuto essere un flop. Ancora oggi, dopo tanti anni, non mi sono stancato di ascoltarlo.
JackFrusc
Domenica 20 Gennaio 2019, 0.20.23
5
Rettifico whigs
JackFrusc
Sabato 19 Gennaio 2019, 23.08.58
4
Il primo disco che acquistai degli afghan wings. Bello bello bello voto 80
Red Rainbow
Sabato 19 Gennaio 2019, 16.26.00
3
@ kukkozia: hai ovviamente ragionissima su moniker e anno d'uscita (maledetto T9 per l'uno e date in memoria nel campo "anno d'uscita" 😃, grazie mille, corretto al volo... 😉
kukkozia
Sabato 19 Gennaio 2019, 16.14.14
2
Red Rainbow ha ragione: la storia degli Afghan Whigs non è iniziata e finita con Gentlemen, prima c'è sicuramente Congregation del 1991 e dopo, oltre all'oggetto di questa recensione, 1965 è un altro album di gran livello. Questo a suo tempo non lo presi in considerazione, stupidamente perché lessi recensioni poco lusinghiere, salvo poi ascoltarlo finalmente 5 anni dopo la sua uscita (e maledicendo il fatto di aver dato troppa retta alle recensioni). L'album è davvero notevole, con la chicca finale Faded davvero splendida, oltretutto l'ho risentito per intero poco tempo fa e continua ancora ad emozionarmi, anche se personalmente sono più legato a Gentlemen. Piccoli appunti: il gruppo è Afghan Whigs e non Afghan Wings, l'anno è 1996 e non 2006. Per me un 75 ci sta tutto.
Poison Ivy
Sabato 19 Gennaio 2019, 15.22.10
1
Secondo clamoroso grande disco del gruppo di Dulli, voce stupenda e carica di emozione come pochi. Un disco che come il precedente col grunge c'entra zero e fu stupidamente ignorato all'epoca. Da recuperare per chi non lo conoscesse e venga trasportato nell'affascinante mondo degli Afghan.
INFORMAZIONI
1996
Elektra Records
Alternative Rock
Tracklist
1. Crime Scene Part One
2. My Enemy
3. Double Day
4. Blame, Etc.
5. Step into the Light
6. Going to Town
7. Honky’s Ladder
8. Night by Candlelight
9. Bulletproof
10. Summer’s Kiss
11. Faded
Line Up
Greg Dulli (Voce, Chitarre)
Rick McCollum (Chitarre)
John Curley (Basso)
Paul Buchignani (Batteria)

Musicisti Ospiti
Harold Chichester (Pianoforte, Tastiere)
Barbara Hunter (Violoncello)
 
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