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Galahad - Empires Never Last
25/05/2019
( 1470 letture )
La carriera dei britannici Galahad, formatisi nel 1985 come cover band di gruppi progressive e di rock classico, comincia quasi parallelamente a quella dei più famosi conterranei IQ, in quella seconda ondata di neo-progressive seguita ai Marillion nei primi anni '80. Se però in questi due casi i primi lavori sono assai degni di nota, lo stesso non si può dire di quelli dei Galahad, fortemente derivativi dalla band di Fish e Steve Rothery e caratterizzati da una produzione a dir poco amatoriale. Nel 1995 il gruppo si riprende parzialmente con il discreto Sleepers, ma è solo durante la seconda parte della loro carriera, negli anni 2000 -ormai totalmente fuori dall'epopea neo-prog- che il gruppo comincia a riscuotere il successo sperato, grazie al buon Year Zero, che vede la partecipazione di John Wetton (Asia, King Crimson) come ospite alla voce. Nel 2007 il picco creativo viene raggiunto con il qui presente Empires Never Last.
Guidati dal tocco del Re Mida del progressive rock/metal, ovvero Karl Groom dei Threshold, i cinque inglesi si presentano in studio con un bagaglio di idee incredibilmente fervide, e pescano a piene mani dal contesto musicale del momento. I suoni si induriscono fino a sconfinare nel progressive metal, in una maniera non dissimile da quanto fatto in quegli anni da altri gruppi neo-prog come Arena e Pendragon. Non è un caso infatti che tra i musicisti ospiti figuri proprio un certo Clive Nolan, grande amico e già collega di Groom negli Shadowland, che su Empires Never Last presta anche le sue doti chitarristiche.

Sviscerato il contesto di creazione dell'album, è il momento di affrontarne i brani, sparsi su un'oretta abbondante di musica, nonché il concetto di fondo del lavoro, a partire dalla scelta della copertina tutt'altro che casuale e legata a doppio filo con il titolo dell'album. Per chi non l'avesse mai vista, la fotografia raffigurata sulla cover, scattata nel 1945, quando la Seconda Guerra Mondiale era agli sgoccioli, è universalmente considerata il simbolo della liberazione di Berlino e della sconfitta del terzo Reich. Per l'occasione, i Galahad hanno sostituito la falce e il martello della bandiera russa issata sul Reichstag con il loro logo sormontato da una stella. A questo punto il richiamo al titolo appare palese, ma tutto l'album è imperniato su una riflessione sociopolitica del rapporto tra gli esseri umani e il potere.
Si comincia quindi con l'etereo coro femminile a cappella che caratterizza la prima parte di De-Fi-Ance, brutalmente interrotto da una voce maschile che urla il titolo del brano e ne introduce la seconda sezione. Questa è totalmente strumentale, ad esclusione di alcuni lugubri sussurri, ed è guidata dai riff nervosi della chitarra di Roy Keyworth e dai synth di Dean Baker, che dipingono un finale sinfonico e carico di pathos. In Termination uno Stuart Nicholson sopra le righe duetta con la voce femminile, in un brano che comincia a delineare la visione critica di un'umanità distruttrice, per la quale non rimane che un'unica soluzione, ovvero l'estinzione. Nella traccia, le belle parti soliste di chitarra si intrecciano con le tastiere e l'incalzante batteria di Spencer Luckmann (che si sbizzarrisce persino in un'accelerazione conclusiva sul doppio pedale): cosa chiedere di più? La terza traccia I Could Be God è certamente il piatto forte di Empires Never Last insieme alla title-track. Oltre alle influenze nel riffing stoppato mutuate dal prog metal dei Threshold e presenti in tutto l'album, in questa lunga suite appaiono reminiscenze dei primi Marillion (quelli di Fugazi), in particolare nella performance molto teatrale del vocalist, che a tratti ricorda quanto fatto da Fish. Il testo questa volta è narrato dalla prospettiva dell'uomo, che in un delirio di onnipotenza si equipara a Dio, sebbene non in una veste spirituale, bensì manipolatrice e materialistica:

I can always be God
He can exist deep inside of me
But it doesn't make me better or a better person
Perhaps it just gives me an excuse to do just what I want to do
God and the Devil are not so different
Both manipulate in their own ways


Verso la metà del brano i sintetizzatori à la Tangerine Dream fanno da sfondo alla registrazione del celebre discorso di Martin Luther King Jr. "I have a dream", inno contro il razzismo negli Stati Uniti d'America e ulteriore riferimento alla volontà di supremazia sull'altro, sul diverso, insita nella razza umana. Nel violento climax finale i Galahad costruiscono una magniloquente sinfonia dando una nuova veste a tutte le influenze succitate e combinandole con gli stilemi del neo-progressive in un riuscitissimo castello sonoro, come mai avevano fatto prima.
Difficile ripartire dopo un numero importante come I Could Be God, ma gli undici minuti di Sidewinder riescono nell'impresa di non far rimpiangere la traccia precedente. L'equilibrio tra le strofe e il potente ritornello è il punto forte del brano, altro centro in un album senza cali. La strumentale Memories From An African Twin funge da momentaneo abbandono della cupezza sperimentata finora, in quattro minuti spensierati ma non particolarmente memorabili. Si cambia decisamente registro con la già citata title-track, il cui ritornello sembra studiato apposta per entrare nella testa dell'ignaro ascoltatore, e il cui titolo accenna al fatto che le condizioni esistenziali e sociopolitiche sono sempre mutevoli, e tutti gli imperi creati dall'essere umano, piccoli o grandi, reali o figurati che siano, hanno sempre inevitabilmente una fine. Si chiude con This Life Could Be My Last, altro lungo brano guidato inizialmente dal pianoforte e dalla voce a cui si aggiunge un tappeto di synth di scuola krautrock, per un pezzo molto carico dal punto di vista emozionale, permeato da quella malinconia cara a gruppi quali i tedeschi Sylvan.

Dotato di una produzione frizzante e precisa, Empires Never Last, con la sua manciata di brani di altissima qualità e un sottotesto politico degno di nota, rappresenta il tassello che nella prima parte di carriera era mancato ai Galahad, ed è uno dei lavori più rappresentativi dello stato di salute del neo-progressive nel nuovo millennio. Durante gli anni successivi e fino a oggi, il gruppo ha poi continuato a sfornare ottimi album, sfruttando un trend di creatività incredibilmente positivo e dimostrandosi in grado di reggere i paragoni con i mostri sacri del genere. Per chi non li conoscesse, questo e il successivo Battle Scars sono degli ottimi punti di partenza per scoprirne la carriera.



VOTO RECENSORE
86
VOTO LETTORI
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Salvatore
Lunedì 8 Gennaio 2024, 18.53.56
1
Alessandro Pavoncello \"Wonderboy\" Grande band che riscopre quel che fu il neo prog nei fasti più gloriosi ...io ci sento anche altrettanti numerosi richiami ai RUSH ottantiani ...quelli di Signlas ..Power Windows...soprattutto nelle loro prime produzioni e per il timbro acuto e suadente del loro singer ...molto in stile GEDDY LEE di quel periodo
INFORMAZIONI
2007
Avalon Records
Prog Rock
Tracklist
1. De-Fi-Ance
2. Termination
3. I Could Be God
4. Sidewinder
5. Memories From An African Twin
6. Empires Never Last
7. This Life Could Be My Last
Line Up
Stuart Nicholson (Voce)
Roy Keyworth (Chitarra)
Lee Abraham (Basso, Voce)
Dean Baker (Tastiera)
Spencer Luckmann (Batteria, Percussioni)

Musicisti ospiti:
Karl Groom (Chitarra)
Clive Nolan (Fake dulcimer)
Tina Booth (Voce nella traccia 1)
Tina Groom (Voce nella traccia 1)
Sarah Quilter (Voce nella traccia 1)
 
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