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Mendeed - This War Will Last Forever
14/09/2019
( 711 letture )
Curioso il percorso artistico dei Mendeed, five-piece scozzese dalle mille potenzialità, prematuramente scomparso nell’oblio delle band-meteora subito dopo un rampante esordio costellato da tour e piccoli successi. Parliamo di metà anni 2000, con la NWOAHM in voga e tanta confusione tra etichette e sotto-etichette stupidamente in guerra tra loro. La band, dopo un EP valido ma ancora impreciso (From Shadows Came Darkness del 2004) e svariati singoli, entra in gioco con un album monolitico e mastodontico, epico e diverso dal solito. Un debut con gli attributi che nessuno si aspettava: questo This War Will Last Forever è un lunghissimo viaggio (60 minuti) attraverso le sfumature del metal estremo e non, coadiuvato da una produzione ruvida e sfrontata e da un sound sferragliante a tratti, diretto e nel contempo pomposo. L’album, che apprezzai non poco all’epoca, non è privo di magagne né difetti (band giovanissima, troppe idee, ecc-ecc), ma è assolutamente una chicca che, nel bene o nel male, va riscoperta per capire la qualità messa in mostra il più delle volte.

Si parte con una lunga intro alla “Braveheart” da pelle d’oca, quella What We Have Become, con la sua atmosfera tipicamente scozzese, le cornamusa e la malinconia di un post-battaglia che ha lasciato morti ovunque. Un modo sicuramente tradizionale per aprire le danze, che non tardano a evolversi con la violenta, groovy e strutturata opener Beneath a Burning Sky, forse una delle loro canzoni più conosciute (grazie anche al video promozionale). Un brano che identifica in poco più di 5 minuti le intenzioni barbarico-bellicose della band: non c’è solo un modo di intendere il metal all’interno del platter, ma tanti piccoli richiami che passano ovviamente dal melodic death, metal-core e black, non disdegnando classic e power metal. Un gustoso (e talvolta confusionario) meltin-pot di sotto generi, ma anche una ventata di aria fresca.
Apprezziamo immediatamente le doti tecniche di alcuni membri: dai chitarristi Steph Gildea / Steve Nixon fino al giovane drummer Kevin Mathews, davvero inarrestabile e con un background piuttosto vario. Sfuriate, intrecci melodici, breakdown e ripartenze in doppia-cassa si sprecano nell’arco dell’intero lavoro, per non parlare del comparto solista, veloce e sensazionale in più punti e tipicamente neoclassico. Il breve assolo di batteria che introduce la fiera Stand as One and Fight for Glory ci lancia in un vortice di power metal estremizzato. Armonizzazioni, assoli melodici, contro-cori alla Children of Bodom e riff europei che sono una manna dal cielo. Una varietà forse imprevista che, a un primo ascolto, ci accoglie a braccia aperte, facendoci scapocciare a dovere. Un tripudio di riff, cori “live” e bridge melodici che si tramutano in cavalcate chitarristiche/soli di pregevole fattura. Remains of the Day si apre con un breve coro che ben presto si tramuta in un mid-tempo dominato da riff graffianti e accelerazioni guidate da un bravissimo Kevin Mathews in stato di grazia. Retrogusto dei primissimi Trivium nel pre-chorus e poi ancora chitarre duellanti e rallentamenti improvvisi. Il più grande pregio di questo This War Will Last Forever è sicuramente la varietà messa in mostra: non c’è paura né mancanza di sostanza, anche se questa peculiarità risulta essere una vera e propria arma a doppio taglio (la seconda parte del platter è inferiore alla prima, sia per idee che per songwriting).
Assolo dopo assolo ci gustiamo l’assalto macchiato di black di Chapel Perilous, vera e propria scudisciata sulle gengive, abilmente doppiata dalla massiccia The Mourning Aftermath, che gioca con le parole ma non con la musica. Un riff-macigno apre le porte di uno dei brani più lunghi e sofferti: un lead distorto accompagna una marcia apocalittica di 6 minuti: assalto frontale e teatrale con svariati cambi di tempo e atmosfera. Entrano in gioco le influenze di fine anni ’90 (tra cui Dispatched e primi Norther), soprattutto a livello strumentale. La voce ruvida, sgraziata e cattivissima di Dave Proctor viene talvolta mitigata dalle contro-voci pulite e azzeccate di Gildea e Lavery, abili a creare un sottotesto melodico e, a volte, a elevarsi in primo piano, rubando la scena al frontman/fondatore della band senza troppe difficoltà.

Come accennavamo poc’anzi, non tutto gira a dovere, e così iniziano alcuni giri di giostra a vuoto, come le canoniche schegge melo-death di Poisoned Hearts e Resurrecting Hope, inframezzate dalla più convincente e power metal-oriented Withered & Torn, che riprende le tematiche di Beneath a Burning Sky e accelera caoticamente per poi destrutturarsi in un difficilissimo ma breve passaggio math. Il talento del combo scozzese non viene messo in discussione e a ogni buon passaggio musicale ne abbiamo la conferma, anche se forse avremmo preferito qualche brano di respiro in più.
Il finale non è sprovvisto di colpi di coda, e la personalissima For Blasphemy We Bleed, con una parte quasi decantata e le sinfonie campionate non fa certo gridare al miracolo, ma incuriosisce e strappa un sorriso per la sua semplice efficacia. Anche qui la durata risulta un problema, anche se le abilità di Steve Nixon ci regalano ancora una volta delle parentesi soliste di primissima qualità. Il bridge ci lancia nel calderone –core con un breakdown stoppato che si evolve in un gradevole up-tempo classicamente metal.

I giochi si chiudono con la nerissima ed emblematica Black Death, un riassunto del Mendeed - sound, con tutti i pregi e difetti del caso. Un buon bignami di melodic death metal, metal-core e heavy metal, compresso in un altro lungo macigno sonoro di riff intricati, intrecci melodici e cori epici. Una salsa che funziona bene a tratti, ma che ci stimola continuamente facendoci comunque divertire a suon di headbanging. La bellezza di un debut di questo tipo, dopo trent’anni di heavy metal per il sottoscritto, sta proprio nella sua imperfezione, voglia di fare e cocciutaggine. Non importa se il contenuto sia esagerato o spropositato: l´intento c´è ed è evidente, come i cori epici che chiudono l’album prima della ghost-track, che riprende le cornamuse e il campo di battaglia desolato e nebbioso.
Come scritto a inizio disamina: il caso dei Mendeed è curioso. Una band che ha stupito per due-tre anni, prematuramente sciolta e dispersa in atomi dopo soli due album. Un piccolo pezzo del puzzle che merita di essere ascoltato.



VOTO RECENSORE
75
VOTO LETTORI
85.9 su 10 voti [ VOTA]
gioppino
Lunedì 16 Settembre 2019, 11.21.48
2
Disco bello e tecnico. Ai tempi mi diede molte soddisfazioni.
Jo-lunch
Sabato 14 Settembre 2019, 20.41.35
1
Gruppo musicale perlopiù sconosciuto a molti. Un misto tra metalcore e power metal senza convinzione. Sono stati una meteora nel panorama musicale dell'epoca, anche se hanno fatto qualcosa di buono e alcuni brani sono veramente interessanti. Ma forse non ci credevano neanche loro. Sono durati poco e dispiace, potevano dare di più, ascoltando i vari brani qualcosa di talentuoso si percepisce. Peccato.
INFORMAZIONI
2006
Rising Records
Melodic Death
Tracklist
1. What We Have Become
2. Beneath a Burning Sky
3. Stand as One and Fight for Glory
4. Remains of the Day
5. Chapel Perilous
6. The Mourning Aftermath
7. Poisoned Hearts
8. Withered and Torn
9. Resurrecting Hope
10. For Blasphemy We Bleed
11. The Reaper Waits
12. The Black Death
Line Up
Dave Proctor (Voce)
Steph Gildea (Chitarra, Voce)
Steve Nixon (Chitarra)
Chris Lavery (Basso, Voce)
Kevin Mathews (Batteria)
 
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