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26/04/24
KARMA
CSA RIVOLTA, VIA FRATELLI BANDIERA 45 - VENEZIA
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26/10/2019
( 1276 letture )
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Durante la prima metà degli anni settanta il progressive rock e il jazz rock italiano trovarono talmente tanto terreno fertile da lasciar germogliare molte formazioni dall'identità estremamente marcata, tuttavia non mancarono nel corso degli anni altrettante possibilità di vedere tante squadre mischiate. Gli Etna sono una formazione che nel giro di pochi anni ha cambiato etichetta e nome ben tre volte, pubblicando anche dei dischi decisamente diversi fra loro. La band agli esordi pubblicò come Flea on the Honey un omonimo disco più vicino all'hard rock e cantato in inglese nel 1971. Successivamente l'assetto vocale passò alla lingua italiana nel 1972 con Topi o Uomini, disco che si spostava su lidi decisamente più progressive pubblicato sotto il monicker di Flea. Infine arriviamo all'ultima variazione di nome, un tributo e riferimento al vulcano siciliano nei pressi di Catania, città natale dei fratelli Marangolo. Etna esce nel 1975 sotto Catoca Records ed è un disco di chiarissima derivazione jazz, interamente strumentale e che strizza l'occhio ad una miscela di influenze: le lunghe strutture delle componenti cinematografiche alla Eumir Deodato, la profondità introspettiva dei Perigeo e una ricerca sonora che di tanto in tanto ricorda l'apparente freddezza e acidità dei King Crimson di Larks' Tongues in Aspic. Quando nel 1975 il disco fu registrato, tutti i componenti della band erano già impegnati in altre formazioni molto note e questo fa degli Etna una sorta di supergruppo ante tempus: Agostino Marangolo già dal 1974 andrà a sostituire Walter Martino nei Goblin, raggiunto poi da Carlo Pennisi nel 1979 alla chitarra, mentre Elio Volpini inizierà una collaborazione con il fratello Enzo nella tanto fugace quanto brillante formazione L'Uovo di Colombo nel 1973.
Da questa miscela incredibile di musicisti e ambienti arrivano le prime note distese di tastiere con Beneath the Geyser, che al di là della calma apparente nascondono un incipit geniale e fuorviante al tempo stesso: stacchi contorti e ritmiche galoppanti si rincorrono in un calderone che unisce sapientemente la cultura jazz rock con quella progressive. Ascoltando un brano come questo ci si rende subito conto di quanto il prog italiano sia tanto caro a leader degli Opeth soprattutto in lavori com Heritage (2011) e Pale Communion (2014). La classe dei musicisti è subito chiara all'ascoltatore, mentre soluzioni mai banali ma dalle strutture musicali, vengono proposte con eleganza. Dopo appena quattro minuti scarsi arriva South East Wind, pezzo che procede sul filone tracciato dal precedente. Gli effetti sonori eterei e dilatati che aprono la composizione ricordano in parte alcune scelte musicali dei Perigeo, tuttavia uno dei primi grandi colpi di tacco del disco arriva sull'attacco della sezione ritmica. In particolar modo il giro di basso brilla e dona alla composizione un fil rouge in grado di portare avanti l'improvvisazione senza mai stancare. Fin dalle prime battute di questo platter risalta la clamorosa bravura di Elio Volpini al basso e contrabbasso, autore di molte parti senza le quali il disco non sarebbe stato lo stesso. La lunga composizione prosegue in una lenta evoluzione che la porta ad un crescendo di tempo progressivamente sempre più avvincente, senza mettere troppa carne al fuoco e spulciando nel dettaglio le buone idee alle sue basi. Across the Indian Ocean inizia con un mood sospeso attraverso numerosi effetti e il clarinetto di Antonio Marangolo, ma non tarda ad arrivare la sezione ritmica, che quando finalmente esplode del tutto ricorda i momenti di acidità e schizofrenia tipiche dei già citati King Crimson. Il brano anche grazie a delle sezioni particolarmente dure e ostiche offre una nota di varietà e si integra bene con il resto della proposta. Tra i vocalizzi e la chitarra acustica di French Picadores i ritmi si placano e l'ambiente diventa decisamente più disteso rispetto a quanto ascoltato precedentemente. La chitarra -che mostra la bravura compositiva di Carlo Pennisi- porta avanti la trama principale del pezzo offrendo un tappeto molto valido ai suoi colleghi: tra i vari innesti degli altri strumenti è solo quando entra la batteria, delicata ed avvolgente, che il brano decolla in un grandissimo momento di lirismo. Golden Idol propone un'apertura sempre condotta dalla sei corde ed arricchita da altre linee musicali successivamente che la rendono più melodica ed armonica, fino alla grande entrata di Agostino Marangolo che offre un pattern ritmico colmo di filler e dettagli. Durante la trama del brano, anche le pelli diventano un elemento musicale al pari degli strumenti e questa è una caratteristica sempre rara e che costituisce un autentico pregio in un brano così longevo. Le numerose sezioni di Golden Idol si estendono per nove minuti tra momenti di leggerezza, ricerca espressiva e rinascite musicali. La ciliegina sulla torta che va a condire la conclusione è il mandolino arricchito da un complesso giro di basso, che riesce a risultare vintage e moderno al tempo stesso. Con Sentimental Lewdness ci avviciniamo al finale senza mollare nulla: l'intro di batteria è fenomenale e rapido, mentre la chitarra si posa su stilemi di natura hard rock di inizio anni settanta (riprendendo le forti influenze di Jimi Hendrix nello stile di Carlo Pennisi). Dopo l'apertura vi è un lungo break in cui il ruolo da protagonista viene preso dal pianoforte di Antonio Marangolo, che propone delle sezioni più lente e riflessive che saranno poi ottima base per un bellissimo assolo di basso prima e di chitarra dopo. Nonostante vi sia qualche sbavatura nella parte solista della sei corde, il momento è complessivamente ben riuscito. Barbarian Serenade conclude il platter con una ricercata e bellissima composizione che fa della musicalità e dell'armonia il suo cavallo di battaglia. Una traccia perfetta tra momenti acustici, mandolino e pianoforte per concludere un disco. È incredibile vedere come anche in questo caso, quando entra la batteria -senza minimamente strafare- vi sia il momento di pathos più alto del brano. La classe che il gruppo possiede nell'attaccare senza colpire con forza, ma lasciando ugualmente il segno, è impagabile.
Ciò che rimane a fine ascolto è un forte senso di stupore per ciò che è stato ascoltato. La tipica produzione del periodo offre una sensazione vintage, emancipata tuttavia dalla modernità delle soluzioni musicali proposte. Queste ultime seppur in alcuni frangenti possano risultare derivative prendendo come riferimento lo scenario internazionale, tuttavia sono sempre eseguite e concepite con eleganza e senso logico. La capacità di scrittura del gruppo nel gestire la longevità dei brani è senz'altro ottima e -al di là della bravura dei fratelli Marangolo- l'elemento che consacra il disco è ovviamente il mastodontico lavoro di Elio Volpini al basso, autore di una performance destinata a rimanere nella storia. Riprendendo il filo con il quale questa disamina si apre, per la comprensione del platter è fondamentale fare riferimento al gioco dei troni delle formazioni che vi furono in quegli anni. Gli Etna sono il romantico risultato di una serie di combinazioni fra tante realtà italiane di spessore e sono una sorta di istantanea di un determinato momento, motivo per il quale il disco è a tutti gli effetti un must nel filone jazz rock italiano d'ispirazione progressive. Ascoltare questo platter è un po' come osservare un'eclissi: si ha la fortuna di osservare delle grandi variabili allinearsi per poco tempo e l'occasione non va persa per nessuna ragione al mondo
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2
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Che disco questo! La batteria di Marangolo è poesia pura e mai troppo riconosciuta. |
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1
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Mito del prog nostrano. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Beneath the Geyser 2. South East Wind 3. Across the Indian Ocean 4. French Picadores 5. Golden Idol 6. Sentimental Lewdness 7. Barbarian Serenade
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Line Up
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Carlo Pennisi (Chitarra, Mandolino) Antonio Marangolo (Tastiere, Clarinetto) Elio Volpini (Basso, Contrabbasso) Agostino Marangolo (Batteria, Percussioni)
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RECENSIONI |
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