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02/12/23
TAILOR\'S WAVE
CIRCUS ROCK CLUB, VIA DELLA TRECCIA 35/3 - FIRENZE
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14/12/2019
( 1440 letture )
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Ritenete che i Sunn O))) siano la band più sopravvalutata della storia del metal? Siete tra coloro che pensano che i Godspeed You! Black Emperor non avrebbero dovuto mai prendere in mano gli strumenti? O, più semplicemente, sentire le parole "post", "drone" e "noise" vi fa venire la gastrite? Sappiate che esiste qualcosa di ancora più estenuante, più soffocante, più inarrestabile dei lavori delle band sopracitate. Ma andiamo con ordine.
I Boris si formano nel 1992 con quattro componenti, che diventeranno tre dopo un paio di demo e prima della release del debutto Absolutego (1996), monolite monotraccia di un'ora esatta di puro drone doom contaminato da sludge e noise. Passano due anni, ed è il turno di Amplifier Worship, costituito da cinque tracce in cui i giapponesi sperimentano con hardcore e stoner, senza allontanarsi troppo dallo stile del debutto (emblematica in questo senso la traccia conclusiva VomitSelf).
E poi, nel 2000, arriva Flood. L'anno in cui esce il capolavoro Lift Yr. Skinny Fists Like Anthennas to Heaven dei GY!BE, album destinato a cambiare per sempre il post rock, corrisponde anche ai primi passi mossi in questo genere da parte dei tre giapponesi, senza però lasciare da parte il drone doom, fondamento dei due dischi precedenti. Flood è composto da un'unica, interminabile traccia di circa settanta minuti, suddivisa però in quattro movimenti ciascuno con caratteristiche ben distinte. L'album si vuole imporre come l'essenza stessa del minimalismo più esasperato, riuscendo al contempo a far convivere pace e caos: il primo movimento di questa sinfonia -se così possiamo chiamarla- dipinge molto chiaramente tutto ciò, partendo dal riff di chitarra acustica incerto e zoppicante che ci accoglie non appena premuto play e che proseguirà imperterrito per svariati minuti, almeno finché non si inizieranno a sentire i tuoni in lontananza. Questi ultimi, ricreati in maniera efficace dalle percussioni sempre più caotiche, si faranno via via protagonisti fino a coprire del tutto qualsiasi altro strumento: ma, proprio all'apice del climax, il rumore si dissolve improvvisamente e ritorna la quiete. Siamo arrivati all'inizio del secondo movimento: post rock e jazz sono le prime influenze che vengono in mente, pensando al lento incedere delle percussioni e alla chitarra elettrica che, timidamente, fa capolino. Gli stralci di assoli delicati e struggenti fanno volare la mente cullata dalle percussioni, la tempesta sembra essere solo un lontano ricordo e la luce del sole torna a filtrare tra le nuvole. Entriamo quindi nel terzo movimento di quest'opera mastodontica ed è la chitarra acustica a tornare in prima linea accompagnata dai synth ma senza percussioni, conducendoci al primo accenno di vocals, distanti e a malapena udibili, come a voler essere solo uno strumento aggiuntivo e non il centro attorno al quale deve ruotare tutto il resto. Ma dopo circa cinque minuti, iniziano ad imporsi delle chitarre ronzanti che ci fanno capire che non è ancora finita: veniamo travolti dalla gigantesca onda creata dai riff lenti e inesorabili, che ricordano vagamente lo stile degli Isis che sforneranno i loro capolavori di lì a breve. Riappaiono le vocals, questa volta sì protagoniste, atte ad abbattere il muro impenetrabile eretto da chitarre e percussioni, in un esplosione repentina che si spegnerà su sé stessa altrettanto rapidamente. Rimaniamo quindi alla mercé dei riff schiaccianti che ci sballottano da una parte all'altra mentre la tempesta infuria attorno a noi: senza dubbio il punto più alto dell'album, sia qualitativamente che emotivamente, una vetta che molte band post rock potranno solo sognarsi di raggiungere. Pian piano la tempesta, questa volta definitivamente, si dissolve lentamente e ci avviamo verso l'ultimo movimento, che però sarà anche -per certi versi- la nota dolente di un album che si è rivelato fin qui molto coinvolgente ed eccellente sotto ogni aspetto: veniamo accolti dallo stesso ipnotico riff che abbiamo appena lasciato, questa volta però interpretato in maniera differente con l'uso dei synth. Riff che tenderà a dilatarsi sempre più fino a spegnersi, per poi lasciare il campo a dieci minuti di puro noise/ambient.
Flood è senza dubbio un disco impegnativo. I Boris non hanno mai nascosto la loro voglia di lanciare sfide sempre più ardue agli ascoltatori, e questa mega-traccia da settanta minuti ne è forse l'esempio più lampante. Bisogna però anche pensare a quanto un'esperienza simile sia piacevole per l'ascoltatore, stando attenti a non lasciare troppo spazio al proprio ego: in questo senso, la parte finale risulta troppo pesante, indigesta e rischia di dissolvere il vortice di emozioni che si é venuto a creare fino a quel momento. Insomma, l'elemento stonato che fa la differenza tra uno dei potenziali migliori dischi post rock di tutti i tempi e un "semplice" capolavoro. In ogni caso, se lo ascolterete con la dovuta pazienza e accortezza, posso garantirvi che ve ne innamorerete e non tornerete più indietro.
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Forse questo disco rimane "oggettivamente" il loro apice e mi piace moltissimo, ma per me il loro capolavoro rimane Dear, che paradossalmente è uno degli ultimissimi lavori. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Flood I 2. Flood II 3. Flood III 4. Flood IV
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Line Up
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Takeshi Ohtani (Voce, Chitarra, Basso) Wata (Voce, Chitarra) Atsuo Mitzuno (Voce, Batteria)
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RECENSIONI |
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