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29/03/24
500 HORSE POWER + GAIN OVER
BORN TO BE WILD MC PADOVA, VIA GUIDO NATTA 14 - RUBANO (PD)
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The Alligator Wine - Demons of the Mind
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08/06/2020
( 1035 letture )
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È con grande piacere che sto notando, in questi ultimi mesi, una sempre più nutrita presenza di artisti che scelgono di ispirarsi a quella enorme fucina di idee e ispirazioni che sono stati gli anni ’60 e ‘70. In pressoché tutti gli stili musicali, quei due decenni hanno rappresentato lo zenit in ambito compositivo e, soprattutto, di innovazione; ma in particolare nel genere da noi amato, ossia il rock in tutte le sue multiformi espressioni, questi venti anni restano tuttora un punto di riferimento imprescindibile e spesso irraggiungibile per i nuovi adepti. Non stupisce quindi che non siano solo i grandi nomi ad essere oggetto di ammirazione e di ispirazione: anche artisti che all’epoca non raggiunsero grandi platee o vendite milionarie, ma che tuttavia hanno saputo ritagliarsi uno spazio adeguato come originalità e modo di proporsi, oggi sono riscoperti e, a loro modo, tributati da nuove leve rimaste affascinate da quanto di geniale si ebbe il coraggio di creare, e di proporre, in quell’epoca per certi versi così remota.
Il caso qui presente è emblematico: il duo tedesco denominatosi The Alligator Wine, qui al debutto discografico, ha lo sguardo decisamente puntato sui decenni passati. Eppure, se cercate tracce tipiche di grandi nomi dell’epoca quali Led Zeppelin, Black Sabbath o Queen, in prima battuta potreste rimanere delusi, e, soprattutto, spiazzati. Sono infatti altre le fonti di ispirazione scelte: primo fra tutte, il rock psichedelico e lisergico particolarmente in voga negli ultimi anni dei sixties sia in Inghilterra sia negli USA; seconda, e non meno importante, musa ispiratrice è la produzione, molto particolare e “di nicchia” già all’epoca, di gruppi quali Crazy World Of Arthur Brown o Atomic Rooster, caratterizzati da un suono particolare ed oscuro e, soprattutto, dalla predominanza sonora delle tastiere rispetto alle chitarre. La particolarità primaria del The Alligator Wine è infatti proprio questa: non ci sono chitarre. Tutto il muro di suono, tutt’altro che sottile o debole, è infatti creato dalle tastiere del leader Rob Vitacca, grazie ad un organo Hammond monumentale, potente, “grasso” e adeguatamente distorto, che non fa rimpiangere le chitarre, e a sintetizzatori che fanno le veci del basso e danno un tocco di elettronica mai invadente. A lui si aggiungono le percussioni di Thomas Teufel, coinvolgenti e decisive per il groove complessivo dei pezzi, costantemente in bilico fra reminiscenze passate e brevi tocchi di modernità. Rock ’60 e ‘70, ripieno di influenze psichedeliche, eppure nel contempo molto energetico, a volte travolgente e molto stimolante, oltre che sorprendentemente coinvolgente ed accattivante! Ed ecco che, di traverso, riappaiono anche i grandi nomi del periodo. Shotgun apre aggressiva: si sentono i Deep Purple per i riff di organo, ma anche le quadrate ritmiche alla AC/DC, con l’Hammond che riesce a supplire completamente all’assenza dello strumento rock per eccellenza, le chitarre; la chitarra non c’è, ma emerge una voce calda e sospesa tra il rock e il dark, mentre il brano incalza prorompente. Più tranquilla Crocodile Inn, una specie di ballata dark e malinconica capace di non lasciare indifferente. Scatenata e pulsante Voodoo, uno dei pezzi migliori, mentre è più legata al progressive Ten Million Slaves, uno dei brani più elaborati dell’album. The Flying Carousel è adrenalina pura, perfetta per scatenarsi in pista da ballo. Cambia tutto invece Lorane, canzone oscura, lenta, lunga ed intima, con un uso molto azzeccato dell’elettronica. Insinuante e quasi provocatoria Dream Eyed Little Girl, dominata dalle percussioni quasi ipnotiche e da una voce alla Depeche Mode; rock diretto e potentissimo con Mamae, letteralmente squassata da un Hammond monumentale, prima della romantica e conclusiva Sweetheart On Fire, dominata da un piano elettrico delicato e dalla voce suadente prima che l’organo torni a farla da padrone nel riuscito e potente finale. Un disco particolare, sorprendente e piacevolissimo; un riuscitissimo “prodotto da studio” dove i due protagonisti, malgrado l’esiguità della formazione e l’assenza degli strumenti tradizionali del rock, hanno saputo creare un lavoro assolutamente valido, coinvolgente, in grado di rivaleggiare senza problemi per potenza ed impatto con i lavori “canonici” dominati da chitarre e basso, e di superare molti di questi per freschezza di ispirazione e brillantezza compositiva.
Personalmente sono dubbioso sulla possibilità di replicare tale prestazione anche in sede live, e vedo i The Alligator Wine più come un prodotto puramente da studio che non una band da concerti; ma spero vivamente di essere smentito e di poterli in futuro ammirare anche dal vivo. Se anche così non fosse, tutti gli amanti del rock anni’60 e ’70 non se li lascino scappare: dategli un ascolto e potreste trovare qui una delle più liete e insperate sorprese di questo 2020.
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3
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Curioso di ascoltarlo, nel 1969 i Quatermass sfornarono un mezzo capolavoro con l'album omonimo e anche allora non c'era alcuna traccia di chitarra 😏 |
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2
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...bah...l'assenza di un chitarrista e un bassista non mi piace...e poi perché cercare questi dischi quando c'e' tutto un mondo di artisti di quegli anni da riscoprire....questi progetti retro' finiranno presto nel dimenticatoio.... |
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1
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L'ho ascoltato un paio di volte, con tutto quello che c'è in giro, ed effettivamente è un buonissimo disco. Certo, la mancanza della chitarra mi lascia qualche dubbio ma il muro sonoro fatto con le tastiere è notevole e quasi non si sente la mancanza dell'elettricità. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. The Flying Carousel 2. Dream Eyed Little Girl 3. Shotgun 4. Crocodile Inn 5. Voodoo 6. Ten Million Slaves 7. Lorane 8. Mamãe 9. Sweetheart On Fire
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Line Up
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Thomas Teufel (Batteria, Percussioni, Voce) Rob Vitacca (Voce, Organo, Sintetizzatori)
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RECENSIONI |
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