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Mark Knopfler - Sailing to Philadelphia
23/06/2020
( 1729 letture )
Tutti sappiamo la storia di Mark Knopfler e dei suoi Dire Straits. Dopo essere saliti alla ribalta con l’omonimo debutto nel ’78, consegnano alla storia tre album importantissimi, per poi abbracciare un maggior range di pubblico con l’album Brothers In Arms. E la dimostrazione di ciò deriva dal fatto che se passasse per radio una Walk of Life o una Sultans of Swing anche chi non si è mai impegnato ad approfondire il genere le riconoscerebbe subito; non saprebbe il nome degli autori, ma questa è un’altra storia. Con tutta probabilità sono un insieme di fattori che portano alla successiva diaspora tra Mark Knopfler e la sua band madre. Un po’ la volontà di una svolta stilistica, un po’ forse la dimensione gigantesca che aveva la band, con annessi tour lunghissimi e conseguente popolarità, in netto contrasto con l’attitudine riservata del chitarrista, tant'è che preferirà proseguire un progetto meno imponente ma comunque più intimo e personale.
Si porta dietro Guy Fletcher, e dopo arruolato un Chad Cromwell alla batteria, il pianista Jim Cox, il bassista Glenn Wolf ed avvalendosi di Richard Bennet come chitarra supplementare è pronto ad avviare il nuovo progetto. Il debutto Golden Heart esce nel 1996, album che a certi fan dei Dire Straits aveva fatto storcere il naso, ma che aveva trovato parecchi riscontri positivi tra i sostenitori di Mark Knopfler, contenti di sentire nuovamente un lavoro fonte d’ispirazione per gli innamorati della sei corde. Quattro anni dopo esce il suo successore, e come vedremo rispecchia il precedente nei pregi e nei difetti.

Sailing to Philadelphia è un album che dal punto di vista musicale si incentra totalmente sulla tradizione americana, poiché il chitarrista andando a ritroso scava a piene mani dalle radici del rock e facendole riaffiorare in tutte le sue varianti, dal blues al country. Un’ora abbondante di musica, per la verità non sempre scorrevolissima, ma che in linea di massima si rivela appetibile e valida. In primo piano come sempre la chitarra di Mark Knopfler, e lo fa ben intendere già dal primo secondo, quando iniziano le plettrate di What It Is, canzone dove il chitarrista si destreggia incalzato dalla sezione ritmica e da rivestimenti simil country, per quattro minuti di divertimento e serenità. Tra l’altro l’unico brano in cui si ricorderà molto i Dire Straits, per poi prenderne le distanze e proseguire autonomamente lungo il resto della tracklist. Con la title track si manifesta il retaggio USA nelle liriche di cui si parlava prima, poiché prende spunto dal romanzo Mason and Dixon che segnerà una svolta nella letteratura postmoderna americana. In veste di cantante arriva come ospite James Taylor, portando la sua ugola e dando così respiro a quella del Knopfler, che può permettersi quindi di svagarsi con la sei corde, specialmente durante la parte finale. Dopo una Who’s Your Baby Now che ad essere sinceri non mi entusiasma particolarmente, arriva quella che è una delle migliori ballad del disco, vale a dire Baloney Again. A renderla tra gli episodi migliori è probabilmente l’essere riuscito a collegare il country imbevuto di southern rock con degli aspetti che vengono utilizzati nelle derive orecchiabili del genere, passando da Blake Shelton per arrivare fino agli Eagles o addirittura a brevi parentesi folk degli America. In The Last Laugh è il turno del secondo ospite, Van Morrison, che aggiunge la sua voce a quella del chitarrista, e con il suo timbro punta molto su un’interpretazione struggente e malinconica. Si riscalda subito la sei corde nei primi secondi di Silvertown Blues, anche se ci vorrà un minuto abbondante per dare giri al motore del brano, ma una volta arrivato in quota riuscirà ad essere trascinante, ricordando per certi versi il Boss Bruce Springsteen. In El Macho invece si abbandonano per un attimo gli Stati Uniti facendo una capatina in Messico, tant’è che viene questa volta lasciato il ruolo principale alla sezione ritmica, con una batteria schematica ma solida, e il country lascia spazio a sonorità più latine e spagnoleggianti. Se Prairie Wedding riesce ad intrattenere non tanto per la forma canzone in sé, ma per la breve parentesi chitarristica in cui si districa il britannico, è con Wanderlust prima e con Speedway at Nazareth che si mette a segno un colpo decisivo. Soprattutto al termine della seconda è fin troppo semplice immaginarsi la figura del chitarrista che si esibisce in un’incursione funambolica sotto il rosso tramonto del deserto. Rimanendo sempre in tema di guitar Hero, sono le influenze di Jimi Hendrix e Django Reinhart a manifestarsi come un fulmine a ciel sereno nei primi secondi di Junkie Doll, traccia dove le radici del blues e del rock raggiungono la loro massima trasposizione. Mentre Sands of Nevada scorre lenta ma inesorabile, come le sabbie a cui il titolo fa riferimento, la chiusura è affidata alla ballad One More Matinee, dove tutti gli strumenti lentamente si aggregano alla canzone uno alla volta, dal piano alla batteria fino ovviamente alla chitarra, per poi concludere in un leggero crescendo armonico e lasciare al pianoforte le note finali.

Il connubio tra rock, country e blues certamente paga, se non già in partenza quantomeno sul lungo percorso, permettendo di identificarsi meglio con il procedere degli ascolti. Dal punto di vista dell’esecuzione chitarristica il lavoro risulta come sempre ineccepibile, si potrebbe parlare di tecnica, dei pedali steel, dell’uso di scale diminuite, legati e del finger picking, ma ci vorrebbe una recensione a sé stante. Un album di transizione forse, tra quello che è il Mark Knopfler del periodo immediatamente post Dire Straits e quello che verrà in seguito, sebbene per molti il problema del chitarrista sarà quello di rimanere in una continua stagnazione durante gli ultimi vent’anni. Eppure il buon Mark non pone mai la propria sei corde in primo piano privilegiando il virtuosismo, preferendo concentrarsi proprio sulla realizzazione della canzone in sé. Sailing to Philadelphia tuttavia, pur dimostrando un ampliamento dal punto di vista della versatilità compositiva, non riesce a staccarsi dalle fiammate della Gibson o dalla Fender per riuscire a far decollare la canzone. Risulta comunque, anche se per forza di cose inferiore ai capolavori realizzati con i Dire Straits, uno dei migliori album della sua carriera solista, rientrando sicuramente tra i primi tre. Consigliato a chi intende approfondire la discografia del chitarrista britannico.



VOTO RECENSORE
73
VOTO LETTORI
67.5 su 4 voti [ VOTA]
Le Marquis de Fremont
Giovedì 2 Luglio 2020, 13.40.27
2
Niente di speciale, come per Golden Heart. Si lascia ascoltare e qualcosa è interessante. Ma i Dire Straits erano tutta un'altra cosa. Au revoir.
McCallon
Martedì 23 Giugno 2020, 16.46.15
1
Bella recensione, devo dire che di quest'album non ascoltai nulla se non Silvertown Blues, che mi piacque, ma che rimase lì, senza spingermi ad approfondire il resto dell'album (ho sempre avuto maggiore interesse per i lavori di Knopfler con i Dire Straits che per la sua carriera solista). Forse è ora che lo riscopra anche io.
INFORMAZIONI
2000
Warner
Rock
Tracklist
1. What It Is
2. Sailing to Philadelphia (feat. James Taylor)
3. Who's your Baby now
4. Baloney Again
5. The Last Laugh (feat. Van Morrison)
6. Silvertown Blues
7. El Macho
8. Prairie Wedding
9. Wanderlust
10. Speedway at Nazareth
11. Junkie Doll
12. Sands of Nevada
13. One more Matinee
Line Up
Mark Knopfler (Voce, Chitarra)
Richard Bennet (Chitarra)
Guy Fletcher (Tastiera)
Jim Cox (Pianoforte)
Glenn Wolf (Basso)
Chad Cromwell (Batteria)
 
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