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Foot - The Balance of Nature Shifted
23/09/2020
( 1103 letture )
L’Australia è stata terra natale nonché una prolifica fucina di importanti musicisti più o meno in ogni ambito del rock e del metal. Senza cercare di elencarli tutti (basti pensare solo ad AC/DC, Rose Tattoo, INXS, Nick Cave e Rick Sringfield) questi artisti hanno scritto pagine fondamentali della musica e tuttora ispirano con il loro lavoro nuove generazioni di talenti ad intraprendere questa dura strada. Tra questi generi non potevano mancare lo stoner e il desert rock, contando che l’isola offre non pochi paesaggi suggestivi, con i suoi sterminati deserti flagellati dal sole.
Proprio tra queste coordinate, stilistiche e geografiche, i Foot di Melbourne rappresentano una delle nuove realtà più prolifiche ed interessanti. Dopo l’omonimo esordito discografico nel 2016 e Buffalo nel 2018, i Foot pubblicano ora il loro terzo album The Balance of Nature Shifted. Dietro a una copertina minimalista che ritrae un’onda verde, la natura, che travolge una città, simbolo del degrado umano, si cela un album sfaccettato e complesso capace di coniugare diversi generi che vanno dallo stoner, passando per il desert rock, l’alternative per approdare al doom.
Mastermind del progetto è il front man Paul Holden, sicuramente un valore aggiunto rispetto ad altre bands che suonano generi affini, sia per quanto riguarda la maturità compositiva che per il timbro vocale, che ricorda in alcuni frangenti il compianto Layne Staley.

Le canzoni stesse si diversificano e attingono a un po’ tutti i generi sopraccitati, ma senza essere un mero copia e incolla, al contrario sono rielaborate e amalgamate in una soluzione filtrata dalla mente e dalla sensibilità di chi compone. Così se la prima traccia Despair on Hope Street fa sue le sonorità del rock post grunge, già E-Sports rientra più nelle corde di band come Deftones e compagnia bella. Green Embers, uno dei momenti più alti dell’album, ha un incipit arpeggiato di scuola doom a cui seguono riff massicci di Pemberton che farebbero felici i Candlemass e i loro epigoni. Ride It Out coniuga stoner e psichedelia dove la lunga ombra dei Kyuss ammanta la canzone di ipnotico misticismo, un plauso al lavoro della batteria di Jack Eddie puntuale nei cambi di tempo, potente e delicata a seconda del mood del brano. Investment possiede armonie corali da far invidia ai Jefferson Airplane, in netto contrasto con il fraseggio delle chitarre ultra distorte in un gioco di chiaroscuri che calma ed inquieta allo stesso tempo. Break the Altar (Light/Shade) e Neighbours segnano uno spartiacque dove i suoni più pesanti e distorti della prima metà lasciano spazio a una seconda tornata di canzoni nelle quali il desert rock e sfumature di progressive la fanno da padrone. Si affievoliscono le distorsioni e le componenti strumentali virano verso arpeggi ed assoli, mentre il cantato, i cori e le seconde voci diventano assoluti protagonisti. Infatti, la stessa Manic Progression, penultima traccia del disco, per buona parte della sua lunghezza non presenta distorsioni e accompagna chi ascolta in un viaggio in deserti sospesi tra sogno e realtà, tra echi di Queens of the Stone Age ed Alice in Chains. High chiude l’album e il giovane Holden sceglie come incipit del brano la strada della psichedelia, dei suoni soffusi per poi gradualmente spingere sull’acceleratore e permettere ai riffs di esplodere con forza nel finale, riallacciandosi concettualmente alla prima canzone dell’album e generando un loop circolare che non può che invogliare a riascoltarlo tutto daccapo.

The Balance of Nature Shifted, rispetto al suo buon predecessore Buffalo, rappresenta un salto di qualità notevole. La produzione miscela l’effetto vintage con echi e riverberi tipici dei generi proposti, ma si mantiene sufficientemente limpida, ogni strumento è armoniosamente bilanciato e la splendida voce di Holden ha la giusta potenza per colpire ed ammaliare. La prima parte dell’album rappresenta forse la musica più dura mai composta dai Foot, avvicinandosi a soluzioni affini al doom; sarà interessante vedere se i lavori successivi della band proseguiranno lungo questa direttrice. Le idee, parecchie, sono più chiare, o per lo meno si ha l’impressione che siano state trasposte con maggior efficacia in musica. I maestri del genere sono individuabili con la loro confortante presenza, ma non sono mai ostentati in prima fila, non incombono ingombranti, al contrario si accontentano di rimanere nelle retrovie ad osservare gli allievi farsi largo con inventiva e determinazione.
Resta un unico rimpianto: musicisti di questo calibro meriterebbero tutt’altro proscenio e un’etichetta più potente in grado di consentire una diffusione molto più ampia a questa piccola opera d’arte.



VOTO RECENSORE
82
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2020
Copper Feast Records
Stoner/Doom
Tracklist
1. Despair on Hope Street
2. E-Sports
3. Green Embers
4. Ride it Out
5. Investment
6. Break the Altar (Light/Shade)
7. Neighbours
8. Manic Progression
9. High
Line Up
Paul Holden (Voce, Chitarra)
Dave Pemberton (Chitarra)
Shaun Stolk (Basso)
Jack Eddie (Batteria)
 
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