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19/02/21
THE DEAD DAISIES
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The Flower Kings - Islands
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24/11/2020
( 702 letture )
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Come faccia Roine Stolt a pubblicare a getto continuo nuova musica rimane ancora oggi un mistero. Il frontman dei The Flower Kings sembra essere immune alla sindrome da pagina bianca e, a circa ad un anno esatto dal precedente Waiting For Miracles, torniamo a parlare di lui, nuovamente protagonista con il quattordicesimo album, Islands. È davvero arduo seguire il corso delle uscite del gruppo svedese che instancabilmente scrive, produce e pubblica lavori dando sì e no il tempo ai propri fan di assimilare l’uscita immediatamente precedente. I Flower Kings sembrano criceti che per noia si accoppiano compulsivamente partorendo prole senza sosta. Pensandoci bene il paragone calza, soprattutto considerando che Islands, esattamente come il predecessore, è l’ennesimo doppio album di una carriera che già ne conta svariati. Il rischio più grande in cui si possa incappare quando ci si approccia ai TFK è pertanto quello di ritrovarsi di fronte ad una prolificità che fa rima con prolissità.
Volendo spezzare una lancia a favore di Roine Stolt e compagni però bisogna ammettere che ultimamente l’ensemble scandinavo ha puntato su pezzi più brevi, asciugando il più possibile il proprio songwriting e andando così in contro tendenza rispetto alle lunghissime suite a cui ci ha abituato nel tempo. Ne deriva un ascolto snello e composto da tanti quadretti sonori differenti connotati da una familiare atmosfera giocosa che ha reso riconoscibile la musica degli svedesi. Le novità stilistiche comunque si fermano qui. I The Flower Kings rimangono fedeli alla linea: ci troviamo di nuovo di fronte a ventuno brani profondamente radicati alla tradizione progressive rock revivalista. Siete pertanto avvertiti e quindi, a meno che non facciate colazione quotidianamente con i Genesis del primo periodo, pranzo con i Jethro Tull e cena con gli Yes, inaffiando il tutto da abbondanti dosi di Pink Floyd, Beatles e soprattutto in questo album i sempiterni Kansas, state alla larga da Islands. Se al contrario non sentiste il bisogno di ascoltare qualcosa di innovativo, avrete in questo caso la certezza di un album vecchio stampo dallo spirito fiabesco e tutto sommato divertente, tanto ammirevole in termini di coerenza stilistica quanto irrimediabilmente simile a tutto ciò che è stato prodotto in precedenza. Ciò detto, è sempre un bel sentire e scorrendo la tracklist ci si immerge sempre più profondamente in una placida e calda marea prog ricca di sfumature e spunti interessanti sapientemente distillati nel corso delle ventuno canzoni.
Islands è in un certo senso diviso da due anime. Il primo disco è infatti legato ad un progressive ampiamente incentrato su un impiego massiccio delle tastiere, dei sintetizzatori e dalle atmosfere più o meno allegre costruite dai tappeti dei tasti d’avorio. È evidente come sia stato dato ampio spazio a Zach Kamins, libero di riempire le composizioni con mille espedienti sonori diversi, confezionando così un lavoro gradevole, anche se privo di veri picchi di genio. Tra i brani migliori della prima frazione segnaliamo a campione la placida From The Ground, la sbarazzina Black Swan e il break strumentale di Broken palesemente rubato ai Dream Theater di Images & Words. E ovviamente va citata anche la mini suite e lectio magistralis prog rock Solaris. Il resto pur attestandosi su livelli più che buoni non fa strappare i capelli sia nel senso negativo che positivo del termine. Il secondo disco invece è complessivamente più ispirato e più guitar oriented e presenta finalmente le sei corde libere di sciorinare lunghi assoli dall’atmosfera sospesa che richiamano alla mente il miglior David Gilmour, alternati ad altri passaggi leggermente più votati allo shredding senza però esagerare nell’autocompiacimento. In questo secondo lotto di brani menzioniamo l’opener All I Need Is Love, i ritmi guizzanti e gli interventi solisti del sax di Sepentine, le melodie melanconiche di chitarra di Looking for Answers e la conclusiva titletrack Islands.
Il più grande limite dei TFK rimane comunque l’enorme mole di canzoni che riescono a comporre a ogni uscita. Un po’ con il mestiere, un po’ con doti tecniche innate riescono comunque a portare a casa risultati pregevoli e senza cadute di stile, ma di veri capolavori non vi è traccia. Viene da chiedersi come Roine Stolt riesca a mantenere la propria vena creativa sempre florida e quanto la cosa possa durare nel tempo senza stancare, considerando non solo la grande mole di lavoro a cui si sottopone, ma anche alle numerose collaborazioni (Transatlantic su tutte, ma avremo modo di farci un’idea più chiara il prossimo anno col nuovo disco del supergruppo). Per chi scrive comunque è difficile pensare cosa ne sarà di Islands in prospettiva, in termini di ricezione da parte del pubblico, così come è difficile trarre un bilancio in vista di lavori futuri.
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5
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Commento avulso dalla recensione dell'opera in sè: la brevissima ma simpatica Hidden Angles mi ha ricordato qualcosa uscito da un gioco di Super Mario. Non è necessariamente una brutta cosa  |
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4
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@ Maurizio sono assolutamente d'accordo, negli ultimi anni ho un po' accantonato il Prog per l'Heavy Metal proprio per i minutaggi sempre più estremi dei dischi (The Astonishing dei Dream Theater è da penale). Si pensava che con il ritorno del vinile si potesse tornare ad album più concisi e invece no, io sono contrario agli ascolti superficiali con Spotify e simili ma chi ha più il tempo o la voglia di ascoltare di fila un disco di un'ora e mezza/due ore? |
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3
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I TFK sono stati gli eroi di un certo periodo della mia vita, ormai ampiamente trascorso, dove avevo tempo di perdermi nella loro musica alluvionale, fatta di doppi dischi, minutaggi dilatati, atmosfere affascinanti anche se (a volte) un po' avvitate su sé stesse. Ora non ho più tempo, concentrazione, voglia. Ho ascoltato il disco su Spotify una volta soltanto e ho deciso che mi bastava così. Grazie lo stesso ma vado su altro, di questo piatto ormai sono sazio per i prossimi dieci anni. |
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2
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Le recensioni dell'ultimo periodo mi ricordano pressantemente che ho qualche uscita prog da recuperare quest'anno. Per quanto riguarda la natura di doppio album e la quantità di pezzi contenuti nel disco avevo già espresso una mia leggera perplessità al momento dell'annuncio della tracklist; devo dire che, per quanto la recensione evidenzi un certo rischio di prolissità, il fatto che i due dischi raggruppino ciascuno dal punto di vista stilistico i pezzi mi fa ben sperare per l'ascolto. Non mi resta che tornare dopo aver recuperato il disco e averlo ascoltato un numero adeguato di volte, dal momento che immagino non sia un disco assimilabile con un paio di ascolti; da questo punto di vista capisco bene il commento di @maurizio qua sotto. |
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1
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BASTA.... mi sono rotto le .... di ascoltare tutti questi dischi così lunghi dei FK.....mi piacevano i primi dischi ma poi con tutte le uscite....e difficile mettersi la e digerire una mole così vasta di canzoni seppur alcune belle ...il disco cmq è un po piatto mancano le canzoni che ti fanno dire woahhh mancano insomma dei capolavori...ma è da un po di tempo che è così....questi dischi vanno ascoltati molte volte e la lunghezza è un handicap....mi piacerebbe che roine stolt faccia un disco da 40-45 minuti con 5-7 canzoni ma veramente forti...sennò non vedo un futuro per loro la gente si stanca alla fine ciao |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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CD 1: 1. Racing With Blinders On 2. From the Ground 3. Black Swan 4. Morning News 5. Broken 6. Goodbye Outrage 7. Journey Man 8. Tangerine 9. Solaris 10. Heart of the Valley 11. Man in a Two Piece Suit
CD 2: 12. All I Need Is Love 13. A New Species 14. Northen Lights 15. Hidden Angles 16. Serpentine 17. Looking for Answers 18. Telescope 19. Fool’s Gold 20. Between Hope & Fear 21. Islands
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Line Up
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Roine Stolt (Voce, Chitarra, Ukuele, Tastiere) Hasse Froberg (Voce, Chitarra acustica) Zach Kamins (Pianoforte, Organo, Tastiere, Mellotron) Jonas Reingold (Basso, Chitarra acustica) Mirko DeMaio (Batteria)
Musicisti Ospiti:
Rob Townsend (Sassofono)
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RECENSIONI |
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