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Bleakheart - Dream Griever
29/11/2020
( 704 letture )
Evocare emozioni creando musica è un talento che in pochi hanno davvero. Eppure, l’idea di base della musica e dell’Arte in generale è quello: che sia un tentativo puramente interiore, necessario a chi scrive e suona, che non necessariamente abbisogna dell’approvazione altrui e tanto meno della condivisione, oppure che l’intento sia esattamente quello di suscitare nell’ascoltatore le stesse emozioni provate da chi compone o, ancora, che il tentativo sia quello di trasferire nella musica un’ideale di emozione, non necessariamente provata da chi la crea, il tentativo è di difficilissima riuscita. Per questo chi ci riesce merita il titolo di Artista e per questo ci si affeziona a chi, raro tra i pochi, è capace non solo di evocare emozione in chi ascolta, ma lo fa in una maniera tale da far risonare quell’emozione all’interno del parco emotivo personale, facendo sentire un qualcosa che neanche l’ascoltatore sa nominare e a cui non era mai riuscito a dare una forma compiuta; per arrivare al punto in cui, poche pochissime volte nella vita, si arriva a sentire che quella canzone, quel brano, quella frase, sembrano scritte esattamente per noi. Che Arte è quella, che meravigliosa e stupenda Arte.
Ecco, quindi, che chiunque ami la musica per questo e decida di farne un mestiere o anche solo lo sfogo delle proprie personali aspirazioni e desideri, non può non volere, anche in una recondita e perduta ansa del proprio essere, di essere capace di dare vita a delle emozioni. Altrimenti, quello che si fa è solo mettere in fila delle note, più o meno bene, senza alcun calore e colore. Che spreco di talento e furore creativo, che grande peccato è quello. Eppure, se fosse facile, se fosse una cosa alla portata di tutti, non sarebbe più così preziosa e, chissà, forse questa continua iperstimolazione emotiva non sarebbe più così piacevole e necessaria. Soprattutto, non potrebbe più permetterci di identificare un Artista, qualunque cosa questo significhi per chi sta ascoltando in quel momento.

Arriviamo al debutto dei Bleakheart, band statunitense nata dalla volontà di JP Damron (Vermin Womb, In the Company of Snakes) e della cantante Kelly Schilling, già all’opera con i Dreadnought. I due realizzano un demo e a stretto giro si mettono all’opera per la stesura di questo Dream Griever, avendo ben chiaro cosa intendono creare e come farlo. Reclutati i due compagni di strada, con una formazione abbastanza curiosa che vede all’opera due chitarre e nessun basso (ma non sono i primi a farlo, anche in ambito doom e simili), i Bleakheart escono quindi con il debutto, come autoprodotto, pubblicato dalla Sailor Records unicamente nel firmato vinile. Si tratta anche in questo caso di una scelta curiosa, ma sensata, che punta al mercato dei collezionisti e, per il resto, sceglie la via del web e semmai del passaparola, essendo prevista anche la vendita diretta da parte della band dei formati CD e audiocassetta.

E’ chiaro fin dalle prime note di Ash Bearer che l’intento dei Bleakheart è appunto quello di scavare a fondo nelle emozioni dell’ascoltatore e portare a galla sentimenti contrastati e contrastanti, avvolti da malinconia, ma anche da rabbia, perdita, smarrimento, fino al dolore e alla tristezza. La scelta è di farlo con una musica che si ammanta di doom, ma predilige riferimenti anche esterni al metal, come lo shoegaze, il gothic, la darkwave, fino anche al pop e al jazz. Il tutto con una coerenza stilistica estremamente ricercata e di grande finezza, che riesce quindi ad amalgamare le diverse influenze in maniera molto forte e perfino stringente, tanto che dall’inizio alla fine Dream Griever mantiene una impronta comune molto marcata, fin troppo. L’atmosfera dell’album è plumbea, grigia e soffocante, non tanto e non solo quando ad emergere sono i cadenzati riff delle chitarre, ma in generale, anche quando la musica è minimale, resa più dalle tastiere e dagli arpeggi continui che dall’elettricità delle chitarre. In tal senso, il ricorso alla distorsione metal non è assolutamente indispensabile né indice di maggior “pesantezza” rispetto al resto dell’album, che non presenta un solo spiraglio di luce, nella sua durata. Ovvio che in tutto questo, il lavoro delle due chitarre, come della batteria, sia a dir poco fondamentale, nel rendere le coloriture e la sempre lentissima cadenza dei brani. Si noterà peraltro la tutt’altro che ridotta durata dei cinque brani, che si aggirano tutti sugli otto minuti, con la titletrack che sfiora invece i dodici. In questo quadro, troviamo infine la stupenda voce di Kelly Schilling, all’opera anche con le tastiere, che può essere definita senza dubbio la chiave di volta di tutto il disco. La Schilling presenta chiaramente un background che ha ben poco di metal e che giustifica le influenze prima citate, dal pop, al jazz, alla darkwave, al gothic: un bagaglio che prestato a un contesto come quello creato dai compagni di band, avrebbe tutta la potenzialità di creare un contrasto spettacolare e foriero di profondi sconquassi emotivi. Un risultato alla portata dei Bleakheart e che viene, in parte, raggiunto.
Cominciamo col dire che ad esempio una canzone come Ash Bearer è un vero balsamo per chi cerca dalla musica qualcosa di più che un semplice intrattenimento: il contrasto tra la voce e lo stile della Schilling e l’esplosione della distorsione chitarrista fa venire i brividi, almeno quanto la sua suadente e carezzevole interpretazione nei primi minuti del brano. Niente è fuori posto, almeno fino al quinto minuto. Peccato che poi la traccia ne duri altri tre nei quali si ripete quanto già esposto, senza aggiungere altro, col risultato di arrivare in fondo un po’ appesantiti. Ma l’inizio è comunque molto buono e la successiva Heed the Haunt riesce nell’intento di innalzare ancora di più l’asticella: sostanzialmente lo schema si ripete, ma stavolta, pur con una melodia meno forte, la costruzione del brano è decisamente più interessante, con quella dolente melodia della solista che rimanda diretto al gothic/doom novantiano dei maestri inglesi e completa lo schema "pulito/distorto" dandogli un equilibrio e un potere evocativo davvero interessante. Purtroppo, a questo punto la band tira fuori una traccia come The Visitor che sostanzialmente si regge sugli stessi identici assunti delle altre due, con la stessa alternanza tra pulito e distorto a creare il climax, che stavolta arriva più tardi, attorno al quinto minuto. Probabilmente, il risultato sarebbe stato comunque deludente, dato che lo schema si ripete per la terza volta, ma certo a questo punto più che togliere qualcosa, sarebbe stato opportuno aggiungerlo. Non necessaria anche stavolta una chitarra elettrica, si poteva ricorrere anche a uno strumento ad arco o perfino a fiato, come un corno da caccia, a un organo o a qualunque altra cosa che potesse donare all’arrangiamento un qualcosa che lo distinguesse da quello degli altri, sfruttando il sottofondo marciante ed epico offerto dalla batteria. Otto minuti di "pesantezza" vera, che certo suonano dannatamente doom, visto il finale quasi noise che non fa che aumentare la claustrofobia del pezzo e che di per sé sarebbero assolutamente apprezzabili, non fossero appunto seguenti ad altri due brani costruiti nello stesso modo. Ma la band non sembra voler in alcun modo muoversi da questo schema e così la successiva The Dead Moon si rifà esattamente agli stessi arpeggi, alla solita interpretazione perfetta della Schilling che comunque non si muove dalle stesse coordinate impostate fin da subito, senza introdurre alcuna variazione melodica, con le solite note di piano a fare da tocco chic al cantato e una distorsione ancora meno accennata che in precedenza. Ancora una volta, brano di per sé incantevole, per quanto fin troppo dilatato e praticamente privo di una qualunque variazione dinamica, che nel contesto di un disco tutto uguale, finisce però per risultare tedioso, anche quando, sul finale, sono nuovamente i riff distorti a prendere il sopravvento; in realtà in maniera piuttosto sterile, mancando del tutto una melodia, anche minima. Arriviamo così alla titletrack ma, purtroppo, nulla da fare. Ancora una volta, si ripete in tutto e per tutto il cerimoniale già sentito, con la sola eccezione che stavolta a seguire l’irruzione delle chitarre è anche la batteria -e meno male-, che introduce per la prima volta la sensazione che la musica vada "avanti". Va bene l’oppressione del doom, ma qui davvero si esagera e ben venga la divagazione strumentale d’atmosfera jazzata a metà brano, che perlomeno spezza la dinamica e introduce qualche elemento diverso, prima dell’ennesimo "finalone", pesante quanto inutile.

Evocare emozioni, dicevamo, è un talento che in pochi hanno davvero. I più si limitano a riproporre la fortunata formula di qualcun altro, più o meno bene. I Bleakheart avrebbero tutto il potenziale per essere tra coloro che riescono, pur senza inventare niente, a creare della musica emotivamente forte. La voce e l’interpretazione di Kelly Schilling, come anche i contrasti tra le varie influenze del sound utilizzati, sanno blandire e circuire l’ascoltatore proiettandolo nel brumoso e soffocante mondo dell’album. Un disco che evoca immagini diverse, sfuggenti come appunto i sogni solo sanno essere e che pur non essendo definibile come propriamente doom, sa essere pesante e senza speranza. Eppure, tutto questo non è sufficiente per superare quarantaquattro minuti di ascolto di cinque tracce costruite tutte nello stesso modo, prima di essere assaliti dalla noia e dalle lungaggini espressive di un disco tutto uguale, perfino nella ritmica. C’è tanto talento e questo va riconosciuto, come anche il fatto che presi a se stanti tutti i brani sono interessanti e validi, pur con i limiti già evidenziati. Non dimentichiamo, comunque, che Dream Griever è un debutto autoprodotto, seppur proveniente da musicisti già esperti e prodotto da Pete DeBoer (Blood Incantation, Dreadnought) e che è lecito attendersi evoluzioni anche sorprendenti ancorché auspicabili. In conclusione, per arrivare a toccare l’anima delle persone, non si può premere cinquanta volte lo stesso tasto e pretendere, con questo, di aver esaurito il proprio compito. Speriamo che i Bleakheart lo capiscano presto.



VOTO RECENSORE
68
VOTO LETTORI
71 su 3 voti [ VOTA]
Black Me Out
Domenica 29 Novembre 2020, 23.26.36
1
Alla fine ho voluto riascoltarlo per confermare quello che pensavo e la recensione esprime più che chiaramente il mio pensiero: ci sono ottimi spunti in questo album, ma vengono tutti affossati da una ripetitività estrema che rende i pezzi dei veri mattoni da digerire. Se ad ogni brano fosse stato accorciato di almeno un paio di minuti forse ne staremo parlando in modo diverso, ma per adesso i Bleakheart non hanno centrato appieno l'obiettivo. The Visitor comunque presa a sé stante è un brano che mi piace molto.
INFORMAZIONI
2020
Autoprodotto
Gothic / Doom
Tracklist
1. Ash Bearer
2. Heed the Haunt
3. The Visitor
4. The Dead Moon
5. Dream Griever
Line Up
Kelly Schilling (Voce, Tastiera)
JP Damron (Chitarra)
Mark Chronister (Chitarra)
Josh Kauffman (Batteria)
 
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