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23/03/21
SWANS + NORMAN WESTBERG
ALCATRAZ - MILANO
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20/02/2021
( 623 letture )
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É un universo minimalista buio e disperato quello proposto da Justin Broadrick nel quale la violenza sonora si sposa con la sinteticità glaciale dei testi e la cui esplorazione prolungata non potrà far altro che condurvi all’alienazione, all’annichilimento sensoriale e percettivo. Ogni disco dei Godflesh, difatti, è un’esperienza indimenticabile volta a scandagliare gli abissi dell’inconscio insozzati dal marciume e dal male di vivere, percossi dall’incedere secco e meccanico della drum-machine e infine devastati dall’oscurità dei riff costruiti su accordature basse e asfissianti.
All’alba del 1994 il duo britannico, forte dell’accoglienza positiva dei primi due lavori, era ormai maturo per il cosiddetto salto di qualità che l’approdo alla Columbia Records avrebbe garantito, non qualitativamente ma in termini di visibilità del progetto. Le cose non andarono alla grande e, a fronte di appena 180.000 copie vendute, la major ritenne che non vi fossero i presupposti per una collaborazione continuativa. Poco male, diremo, visto che la ‘’bocciatura’’ non avrebbe frenato il proseguo del percorso di Broadrick né tantomeno soffocato l’ispirazione e la ricerca del compositore inglese, interessato ad esplorare sentieri disparati anche leggermente distanti dal marchio di fabbrica del debut. Tale variazione sul tema è presente, sebbene diluita mediante un dosaggio centellinato e attento in Selfless, definito non a caso da Broadrick come il suo lavoro più “rock ‘n’ roll”.
É bene precisare sin da subito che la pubblicazione con la Columbia e le dichiarazioni di Broadrick sulla natura dell’album non presagiscono una svolta commerciale con relativo ammorbidimento del sound. Se è vero che da una parte le tracce si prestano ad una maggiore accessibilità e che il cantato mira ad offrire soluzioni alternative alle sole harsh vocals, Selfless resta un disco ostico, complesso, in pieno stile Godflesh. Dopotutto basta ascoltare la furia rabbiosa e martellante dell’opener Xnoybis per riconoscere senza problemi la band di Streetcleaner e non v’è nulla che strida o gridi al rinnegamento delle origini, perché gli accorgimenti messi in atto, come detto, sono in piena sintonia con lo spirito dell’esordio. Il nervosismo della successiva Bigot allucina e travolge ricreando un’atmosfera caotica, interrotta dagli interventi al microfono di Broadrick la cui voce giunge distante, velata da una patinatura d’eco, a conferirle un connotato quasi sovrannaturale, in piena linea con il testo che si sofferma sull’ipocrisia della religione e sulle contraddizioni di chi ne persegue ciecamente i dettami. Black Boned Angel è un pezzo sospeso e malinconico con il cantato che manifesta i fantasmi della depressione, avvalendosi di un’inconsueta pacatezza fino all’emissione del sinistro ronzio in chiusura ad opera dei synth. Arrivati a metà disco si ha come l’impressione di essere i passeggeri ignari su un treno sempre in procinto di deragliare verso il baratro, assuefatti dal loop instancabile dell’accoppiata basso/chitarra. La musica dei Godflesh, dopotutto, ha il grande merito di saper annientare i punti di riferimento, intenta com’è a consacrarsi come tramite per la creazione di un nuovo ibrido, fondendo la dimensione umana a quella robotica. Il processo è vivido e pulsante, in costante evoluzione traccia dopo traccia, con la massima naturalezza. Empyreal cadenza i colpi delle percussioni e dosa l’elettricità consumata della chitarra assecondando una suggestione marciante e solenne mentre Crush My Soul sfoggia campionature a intermittenza agganciandole ai riff con incredibile fluidità e svelando potenzialità ritmiche che non ci aspetteremmo. Un approccio quasi groove, peraltro evidente a più riprese in altrettanti episodi sparsi qua e la, contraddistingue la massiccia e rocciosa Toll e la componente metal non risparmia neppure le venature di Heartless, a tratti doom, a tratti noise. La criptica Mantra, in chiusura, attenua la violenza sonora facendo calare il sipario su richiami quasi psichedelici e ipnotizzanti: il rintocco sospeso sui sintetizzatori attorno al minuto 4:00 raggela letteralmente il sangue nelle vene.
Selfless è un disco imprescindibile per chiunque abbia interesse ad approfondire la discografia dei Godflesh poiché funge da anello di congiunzione fra gli esordi e i successivi album della compagine albionica. Gli elementi di interesse sono disparati a partire dall’arricchimento del sound che trae linfa da un insieme di influenze facenti parte del bagaglio musicale di Broadrick (ascoltatore ‘’onnivoro’’ in fatto di generi che spaziano dall’heavy classico britannico, all’alternativa, o al post-metal) qui perfettamente adoperate in funzione dell’idea artistica di base, mai attutita o sconfessata ma anzi rafforzata. La lettura dei testi, infine, posti in funzione della musica con la quale entrano spesso e volentieri in simbiosi, offre uno spaccato sulle immense doti cantautorali di Justin Broadrick la cui penna ha la straordinaria capacità di esprimere in pochi versi ermetici stati d’animo universali, sintetizzandone il contenuto ma non la potenza espressiva, rimasta tutt’oggi immutata a distanza di 27 anni. Con buona pace della Columbia. Disco da avere nella propria collezione.
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8
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c a p o l a v o r o .... cupo, freddo, opprimente, grasso, monolitico, alienante, primigenio, dispotico, primordiale e futuristico insieme.
da 27 anni alcuni riffs mi rimbombano nella testa, tutti i giorni, inconsciamente... come inconsciamente respiro. |
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7
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Ho solo i primi due. Prima o poi dovrò recuperarlo. |
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6
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Uno dei miei primi cd, acquistato dai Magazzini Nannucci a 1950 lire!!! All'epoca non capii che musica era: non c'era youtube, c'era per me solo Metal Shock, e di tanti gruppi conoscevo solo l'esistenza e il nome. Ho parcheggiato il cd per un bel pò di anni, e nel frattempo mi appassionavo alla musica tout court e non solo al metal. Oggi sono felice di poter apprezzare capolavori del genere. Broadrick dove mette mano tira fuori sempre cose eccezzionali, in particolare nell' elettronica, vedi i progetti JK Flesh o Techno Animal. Un disappunto per la recensione: come non citare la bonus Go Spread Your Wings? 23 minuti di viaggio ambient industrial, forse una delle composizioni più belle della band.
@Duke: beh, è come paragonare Sting con gli Iron Maiden, totalmente differenti, per quanto apprezzi alcune cose degli Aborym.
Ps: booklet che comunque da ragazzino mi fece trasalire, con immagini di La Machera del Demonio di Bava e Meshes of the Afternoon di Maya Deren. Il cinema sperimentale ha sempre fatto parte della poetica di Broadrick, basta vedere alcune copertine dei Godflesh. |
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5
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"Anything Is Mine" è uno dei pezzi più potenti che abbia mai ascoltato e me lo sono sparato anche stamattina dopo aver letto questa recensione. Nel complesso non è il mio disco preferito dei Godflesh, ma oggettivamente parliamo di un disco gigantesco. Ottimo articolo Alessandro! |
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4
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Broadrick è un genio assoluto,spazia dal metal estremo, al rock shoegaze,all'elettronica pura,sempre sfornando dischi eccellenti. I Godflesh sono tutt'ora una grande band sia su disco che live. |
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3
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Industrial allo stato puro...posso solo definirli cosi'...ottima band...assieme a loro proporrei anche i primi 2 albums dei pitchshifter e gli albums dei fudge tunnel...se si vuole parlare di industrial fatto come si deve. |
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2
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...ottimo come tutti quelli che hanno prodotto....grande industrial...altro che gli aborym.... |
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1
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Album immenso che mette in luce aspetti di Broadrick che poi confluiranno nel corso della sua carriera. Io ad esempio ci ho sentito già i germi del progetto Jesu in alcuni punti.
Un genio, voto 90. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Xnoybis 2. Bigot 3. Black Boned Angel 4. Anything Is Mine 5. Empyreal 6. Crush My Soul 7. Body Dome Light 8. Toll 9. Heartless 10. Mantra 11. Go Spread Your Wings (bonus track)
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Line Up
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Justin Broadrick (Voce, Chitarra) G.C. Green (Basso, Sintetizzatore)
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