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Motorpsycho - Kingdom of Oblivion
24/04/2021
( 2279 letture )
Instancabili. Irrefrenabili. Stakanovisti. Inumani. Questi sono solo alcuni degli aggettivi che si potrebbero affibbiare ai Motorpsycho, dal momento che il trio norvegese ha da sempre la capacità di produrre album intensi e dalla qualità decisamente sopra la media con una velocità ed una prolificità fuori dal comune.
Basti pensare che risale solamente allo scorso anno il penultimo The All Is One, il disco che concludeva la cosiddetta Gullvåg Trilogy, iniziata nel 2017 con The Tower. E se si ha dimestichezza con la discografia dei norvegesi si saprà di certo che a livello compositivo i tre non lasciano nulla al caso e dopo un’opera mastodontica come The All Is One chiunque si sarebbe fermato per un paio di anni almeno, lasciando che l’album sedimentasse nei cuori e nelle orecchie dei fan. Non è questo però il caso di Hans Magnus Ryan e soci, che in meno di un anno hanno confezionato un altro album di settanta minuti che non teme per nulla il confronto con il precedente. Vero è che Kingdom Of Oblivion nasce sulle ceneri delle registrazioni di The All Is One, ma nel complesso si distacca abbastanza agevolmente dalle atmosfere di quel disco per tornare ad un mood più roccioso e viscerale, legato da una parte a stilemi hard rock tendenti allo stoner e dall’altra invece a una psichedelia morbida e confortevole ereditata dagli anni ’60. Sotto certi aspetti Kingdom Of Oblivion si riallaccia alla produzione del gruppo a cavallo del 2000, ma il modo in cui i tre musicisti rivisitano l’hard rock è filtrato da anni di esperienza che fanno sì che non si scada mai nella banalità; ci si chiede poi quale sia la formula segreta con la quale i Motorpsycho riescano a non perdere mai l’ispirazione, che anche in questo caso abbonda durante tutto lo svolgimento della scaletta.
Il disco si presenta fin da subito in maniera diversa dai precedenti, con una copertina sempre visionaria ed astratta, ma al contempo grottesca e brutale nella sua semplicità: non che le opere di Hakon Gullvåg scelte per i tre precedenti album fossero meno inquietanti, ma qui il messaggio dell’immagine è molto più diretto e impattante e vi si potrebbero scorgere un legame con la musica contenuta nell’opera: la testa decapitata potrebbe rappresentare il volto violento e senza compromessi del rock, mentre i funghi si adattano bene nel simboleggiare l’influenza psichedelica insita nei brani. Il colorito sbiadito tra il bianco e il verde poi dona all’artwork un sentore vintage sempre apprezzabile che conquista dalla prima occhiata. Ad ogni modo, congetture a parte, il dipinto realizzato dall’artista norvegese Sverre Malling introduce a dovere la musica del trio.

L’apertura dell’album è affidata a The Waning Pt. 1&2, che si presenta subito con una veste hard rock scintillante sulla quale Bent Sæther e Hans Magnus Ryan incrociano le proprie voci in un’armonia che va a richiamare più o meno velatamente i Pink Floyd di Remember A Day; il brano poi si evolve in un magma psichedelico dominato sempre dalle voci, ma i ritmi si abbassano leggermente per far emergere infine la chitarra sul finale. In meno di sette minuti i norvegesi riescono ad incastrare una serie di influenze notevoli, confezionando un brano ottimo sebbene derivativo, che farebbe gola pure ad un certo Mikael Åkerfeldt.
Il termine “derivativo” è di sicuro forte quando si parla dei Motorpsycho, ma fortunatamente questa sensazione non è quella che risulta dominante tra i solchi del disco, tutt’altro. È palese in ogni caso che i riferimenti stilistici utilizzati per comporre i brani di Kingdom Of Oblivion risultino evidenti, sebbene reinterpretati in maniera personale e intelligente.
In dodici brani e in settanta minuti di musica poi è importante saper dosare bene le dinamiche e le pause e in questo Kingdom Of Oblivion non fallisce affatto, mostrando anzi nella sua perfetta organizzazione strutturale il suo punto di forza maggiore. Sono infatti numerosi i momenti acustici e pacati che puntellano qui e lì il disco inframezzandosi agli episodi più rumorosi, ma questi non risultano meri riempitivi ed anzi funzionano a dovere anche estratti dal contesto: Lady May 1 è esemplificativo da questo punto di vista, dal momento che è un brano folk sorretto dagli arpeggi di chitarra acustica sui quali la voce si appoggia con grazia, senza mai trovare un vero e proprio baricentro, ma finendo per essere una sorta di mantra avvolgente e assolutamente azzeccato.
La prima vera suite dell’album è The United Debased, una sorta di lunga cavalcata stoner/funk ancora una volta legatissima a certi stilemi anni ’70 – voce filtrata e organo elettrico onnipresente – e irresistibile nelle sue movenze ballabili e sinuose. La dimensione prog rock emerge dopo quasi cinque minuti con un riff stoner che cambia radicalmente l’atmosfera per condurre il brano verso territori più irti e spinosi, ma senza mai perdere un briciolo di groove. L’assolo sul finale si porta via nella maniera più schizoide possibile i nove minuti precedenti, talmente gustosi da volare via in un soffio.
È ancora un momento di pausa, particolarissimo, quello che segue, nello specifico una cover: The Watcher (Featuring The Crimson Eye) è una versione oscura e malsana del brano dal titolo omonimo (ma senza parentesi) contenuto in Doremi Fasol Latido degli Hawkwind, che già era un esempio di psichedelia spaziale e inquieta, ma che in questo caso viene estremizzata fino all’osso riducendosi in cinque minuti di musica ambient che disorientano e intimoriscono l’ascoltatore, al contempo facendo aumentare la curiosità di scoprire cosa cela il resto della scaletta. Tra l’altro la scelta del brano è significativa, poiché The Watcher è il primo e unico pezzo composto interamente da Lemmy Kilmister dopo il suo ingresso negli Hawkwind e perciò si potrebbe pensare che sia stato scelto per tributare il mai troppo compianto leader dei Motörhead.
Si prosegue su livelli eccellenti con l’esplosione ipnotica di Dreamkiller, dove viene sprigionata tutta la carica psichedelica preparata nel brano precedente in un vortice di melodie senza soluzione di continuità, che sfociano in una chiusura talmente densa di strumenti e suggestioni differenti fra loro da lasciare senza fiato.
L’attenzione rimane sempre altissima anche in un momento più sospeso come At Empire’s End, che si candida come miglior brano dell’album: la struttura rimane quella di una ballata acustica impreziosita dalle tastiere che strizza l’occhio a certe sonorità proprie dei Porcupine Tree, ma non perde mai di vista i propri riferimenti anni ’70, e si evolve con linearità senza troppi capogiri, mantenendo intatto il proprio crescendo emozionale come solo musicisti dotati di grande personalità sanno fare. È la semplicità che trionfa in questo caso, ma dietro un brano apparentemente facile e diretto si nasconde un arrangiamento ricercato e sopraffino, soprattutto a livello vocale. Prosegue su coordinate simili anche The Hunt, che sembra distorcere la visione bucolica dei primi Jethro Tull inserendola in un contesto freak dall’andamento sghembo, con un dolcissimo mellotron a settare il mood nella prima parte e il violino invece a segnare l’esito della seconda, che sfocia in un tribalismo sfrenato per poi richiudersi nella catarsi del ritornello.
La suite finale è imponente fin dal titolo – The Transmutation Of Cosmoctopus Lurker – e contiene al suo interno buona parte di ciò che la band ha mostrato lungo la corposa scaletta del disco; la base di partenza è ancora una volta lo stoner rock, con un riff portante grasso e potentissimo, ma interpretato in maniera unica (un marchio di fabbrica questo, chiedete ai Verdena di Requiem), però il brano è squisitamente prog nel suo svolgimento e attraversa una sezione centrale dove le armonie diventano intricate e il labirinto di note prodotte dalla chitarra e dalle tastiere diventa veramente impenetrabile. Su tutto questo poi si stagliano le solite indovinatissime armonizzazioni vocali che rendono il pezzo anche potenzialmente cantabile. L’unico paragone che è possibile fare in questo caso è quello con i King Crimson, ma non si deve pensare ad un calco di influenze, semmai il riferimento può essere utile per comprendere in che modo i Motopsycho manipolano a proprio piacimento la materia sonora che trattano. È qualcosa di incredibilmente personale e inimitabile, ma di certo questa dote non la scopriamo con Kingdom Of Oblivion.

Ed ecco che arrivati in fondo a questo turbinio di hard rock psichedelico, dopo aver attraversato paesaggi stoner, folk e ambient, possiamo solamente inchinarci di fronte all’ennesimo disco grandioso del trio norvegese. L’unica critica che è possibile muovere alla band è quella di essere fin troppo veloce nel produrre opere d’arte degne di note, non dando forse il giusto tempo per assimilare i dischi, ma bombardando l’ascoltatore di stimoli sempre nuovi ed interessanti. Punti di vista ad ogni modo, perché è indubbio che quando ci si trova di fronte ad album come questo o The All Is One, ma anche a pietre miliari come Demon Box o Timothy’s Monster, non si può far altro che esserne rapiti e questo facilmente crea dipendenza.
Kingdom Of Oblivion non fa altro che riconfermare la grandezza dei Motorpsycho e contribuisce ad arricchire una discografia vastissima e praticamente senza punti deboli. Limitiamoci ad ascoltare e godere, finché questi tre pazzi continueranno a donarci la loro arte noi saremo sempre qui ad accoglierli a braccia aperte.



VOTO RECENSORE
84
VOTO LETTORI
87.19 su 26 voti [ VOTA]
mauroe20
Mercoledì 9 Giugno 2021, 9.12.44
4
ottimo lavoro per una band che non delude mail, tra le migliori uscite di questo 2021.
SkullBeneathTheSkin
Mercoledì 19 Maggio 2021, 17.11.48
3
L'album contiene un due/tre pezzi veramente ben riusciti di stoner marcio il giusto, ma francamente non lo trovo a livello di The All Is One. La coesione del precedente album ed il senso di compiutezza ricavabile dall'ascolto delle tracce una dietro l'altra, qui viene meno. Certamente il livello si mantiene molto alto, anche in questo disco... ma per un'ipotetica playlist, best of, what the fuck, o come volessimo mai chiamarla, da qui non prenderei più di due tracce. Roba buona, per carità, ma che affonda nell'eccessiva lunghezza dell'album che in linea di massima ho trovato un po' noioso.
Adrian Smith
Sabato 8 Maggio 2021, 7.14.27
2
Altro grande disco, 85. Migliori eaponenti di prog rock scandinavo.
Capitan loockeed
Lunedì 26 Aprile 2021, 16.34.40
1
Ottima recensione,per quello che mi riguarda il disco top dell'anno fino ad ora: voto 90.
INFORMAZIONI
2021
Stickman Records
Prog Rock
Tracklist
1. The Waning Pt. 1&2
2. Kingdom Of Oblivion
3. Lady May 1
4. The United Debased
5. The Watcher
6. Dreamkiller
7. Atet
8. At Empire’s End
9. The Hunt
10. After The Fair
11. The Transmutation Of Cosmoctopus Lurker
12. Cormorant
Line Up
Hans Magnus Ryan (Voce, Chitarra, Basso, Tastiere, Mandolino, Violino)
Bent Sæther (Voce, Chitarra, Basso, Tastiere, Batteria)
Tomas Järmyr (Batteria)
 
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