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19/04/24
GOATBURNER + ACROSS THE SWARM
BAHNHOF LIVE, VIA SANT\'ANTONIO ABATE 34 - MONTAGNANA (PD)
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26/06/2021
( 1949 letture )
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Stormwatch, va detto sin da subito, non è di certo un must nella discografia davvero eccezionale dei Jethro Tull. In particolare, non si può dire che sia una perla se confrontata con le opere precedenti -i nomi dei cult li conosciamo tutti- della formazione canonica. Stormwatch è infatti l’ultimo a vedere Barlow, un mostro alle pelli, che anche in questo platter crea magie più di ogni altro strumento, John Evan, Dee Palmer e, purtroppo, anche il compianto John Glascock che morì prematuramente. Insomma, come lascito dei Jethro Tull non è stato il loro capolavoro più alto, ma ci troviamo dinanzi a un disco molto interessante capace di mostrarci ancora tantissime idee e performance di un songwriting intelligente come pochi e di seguito ne analizzeremo i punti cardine.
A voler essere brevi -per evitare inutili apologie della band e dei lavori antecedenti- quello che ci si trova tra le mani è un album che nel suo insieme appare sì con sbavature, frangenti particolarmente prevedibili e pochi spunti eccentrici di basso nonostante i musicisti coinvolti alle quattro corde, ma che comunque riesce a funzionare alla grande. L’apertura è affidata a una traccia già gettata nel concept ideologico dell’opera, quella insomma di una grande critica ambientalistica mirato ovviamente al settore petrolifero (ricordiamo gli anni in cui veniva pubblicato, al chiudersi dei ’70). Il pezzo in sé è invero piuttosto gioioso, con il flauto traverso di Ian che subito ci getta nel clima Jethro Tull e del loro sound personalissimo. Il bello però non arriva né con il dinamismo di Orion, con i suoi bei violini e variazioni caotiche, né con Home che invece è ben più sentimentalistica ma meno sbalorditiva nella proposta di songwriting, bensì con Dark Ages, una vera e propria perla con le sue mille facce lucenti. Il suo clima ansiogeno di chitarra che si fa forte con l’apparire di rapidi e lapidari accordi di piano in un tempo calcolato con nevrotica classe, oppure il supporto di organo che richiama verso di sé il ritorno del leitmotiv, tutto qui è presente per stregarci. L’esplosione è poi un’acme, divertente, variopinta e intricata, primo momento di pathos in questa suite di nove minuti divisa in stanze completamente uniche e differenti l’una dall’altra, seppur ovviamente il fil rouge ci sia, ciò è lapalissiano per una suite dei Tull. Il riff monocorde deciso della seconda sezione si apre in un’atmosfera incredibile, sommiamoci poi il flauto senza alcun difetto e chiudiamo un’offerta che non smette di stupire. E se il titolo già non richiamava per bene il pessimismo del concept, ecco l’evoluzione strumentale che ci accompagna nell’ultima sezione del pezzo, in un clima più rock e aggressivo, ribelle insomma. Ciò che qui emerge ma che in realtà troveremo ovunque, sono però i fill geniali e il groove pazzesco di Barlow, davvero un maestro alla batteria che non si smentisce nemmeno nelle canzoni più sottotono.
Il secondo brano più dinamico, alterna strofe decisamente pacate di chitarra acustica e bei violini, con variazioni più caotiche e movimentate. Ciò che un orecchio attento subito percepisce è l’incredibile utilizzo di fill batteristici già menzionati, così come intere frasi di batteria e percussioni, soprattutto nel corpus di metà brano in cui i tom vengono alternati con maestria. Si conclude con un climax emotivo e si passa alla terza, un pezzo molto leggero in apertura. Questa poi si evolve in note di chitarra romantiche, con sentimentalismi forse un po’ banalotti, e un 4/4 di batteria piuttosto prevedibile e anch’esso stereotipato.
Darlings are you ready for the long winter's fall? Said the lady in her parlor Said the butler in the hall
Il quinto brano è di tutt’altro sapore, uno strumentale folkloristico interessante, imprevedibile ma anche salubre con il sound più vitalistico. Siete ascoltatori dediti all’oscurità? Non è il brano che fa per voi. Something’s on the Move è di nuovo una traccia classica invece, che si evolve come tale e apre il lato B del vinile che fu, attraverso un richiamo all’inverno di Dark Ages che qui giunge faccia a faccia con l’uomo e le sue colpe -qui è bene ricordare che non si parlava di riscaldamento globale bensì di raffreddamento, all’epoca era diffusa la teoria di una possibile nuova glaciazione. Ciò che permane insomma è la consapevolezza che l’uomo agiva negligentemente verso l’ecosistema, che sia verso un senso o verso un altro. L’assolo, comunque, è aperto con genio, provare per credere, e finisce sfumando via con grande gentilezza.
Oh, sunshine, take me now away from here I'm a needle on a spiral in a groove And the turntable spins As the last waltz begins And the weather-man says Something's on the move
Old ghosts è invece un pezzo più corale, come fosse un pezzo piratesco però down-tempo e reso più orchestrale. Non a caso torna il tema marittimo della tempesta, continuando in un clima decisamente più colorato dal punto di vista dei supporti sinfonici. Ancora una volta sono le tante scelte ritmiche a donar un quid di tutto spessore all’offerta, seppur non sempre permeato di un songwriting originalissimo o con brani da mani nei capelli dalla gioia. Tirando le somme, fa il suo lavoro e lo fa bene, confermando che in questo disco ci sono alti degni di essere chiamati tali, ma bassi davvero poco bassi. Le successive due tracce sono la prima un’acustica con linee vocali ben realizzate nella loro scarsa aggressività, continuando sulla scia del clima marittimo ormai ufficializzato dal sound, la seconda invece un concept sull’olandese volante che “minaccia” lo spettatore senza se e senza ma:
So come all you lovers of the good life Look around you, can you see? Staring ghostly in the mirror It’s the Dutchman you will be Floating slowly out to sea In a misty misery.
Il flauto interrotto con un riff di chitarra intermittente inaspettato e stonato generano un’intro sussultante e per niente confortevole, a differenza di altri passaggi del disco. Qui si manifesta la preoccupazione, l’ansiogena e tangibile minaccia che si avvicina repentinamente a causa della disattenzione umana verso la natura. Ma è la lineare Elegy a chiudere il lotto, con delle trovate semplici ma melodicamente memorabili.
Insomma, non perdiamoci in chiacchiere, le imperfezioni ci sono, le ho sottolineate e se sembrano poche… è perché di fatto sono poco impattanti sulla qualità generale dell’opera. Il protagonista è il flauto di Ian, insieme a pari merito con la sezione ritmica. La chitarra e le linee vocali sono funzionali al sound, quando insomma devono esserci ci sono, e fanno il loro lavoro nel migliore dei modi. Peccato per una produzione che forse non ha valorizzato fino in fondo il lavoro di basso di Glascock, e per alcune orchestrazioni un po’ piatte. L’offerta però è di una qualità indiscutibile e non fa altro che mostrarsi nella sua intelligenza lungo tutta la durata dell’album. In altri termini, se avete spolpato a sufficienza i capisaldi della discografia della band, conoscerete sicuramente già questo ottimo disco; nel caso in cui foste dei novizi, potrebbe essere un bel modo di approcciarsi alla band, ma non per rimanerne folgorati.
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9
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Il disco voto corrisponde al valore dell'album, che è più che buono. Tra l'altro nell'edizione rimasterizzata c'è Kelpie che è strepitosa (riportata anche in 20 years of JT). Pensare che era uno scarto... Atri tempi |
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8
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C'è stato un periodo, non moltissimi anni fa, in cui ascoltavo molto spesso la sola Old Ghosts; non ricordo il perchè avessi estratto quella canzone in particolare da questo album, o chi o cosa me l'avesse fatta scoprire, ma ci sono rimasto affezionato. |
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7
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Giustissimo...a livello dei due precedenti! |
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6
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Molto bello, adoro questo periodo dei JT e adoro la trilogia Heavy horses, Songs from the wood e Stormwatch |
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5
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Non sono più quei Jethro Tull di prima. |
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4
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"...uno strumentale folkloristico interessante, imprevedibile ma anche salubre con il sound più vitalistico." |
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3
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Come per altri album dei Jethro Tull si può fare lo stesso discorso. Si piazza abbastanza inequivocabilmente sotto a quelli che sono i loro vertici assoluti, ma rimane comunque un album molto bello. Già solo per Dark Ages varrebbe la pena ascoltarlo, ma anche il resto merita. Voto 80 |
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2
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No, non penso che sia il loro "canto del cigno" anche se, devo dire che tutti gli album prima di questo li ricordo benissimo, quelli dopo di questo, non proprio tanto... Vero che i Jethro Tull hanno passato anni non ottimali dopo questo album e forse hanno sperimentato e provato altre cose. Stormwatch è un album che mi è piaciuto molto, con le orchestrazioni di Palmer che non trovo così "piatte" e con il solito mix tra ottimo songwriting e musicisti eccellenti. Va molto vicino ad un quasi-capolavoro. Jusqu'à la prochaine fois. |
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1
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Forse il loro canto del cigno... |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. North Sea Oil 2. Orion 3. Home 4. Dark Ages 5. Warm Sporran 6. Something’s on the Move 7. Old Ghosts 8. Dun Ringill 9. Flying Dutchman 10. Elegy
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Line Up
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Ian Anderson (Voce, Flauto, Chitarra acustica e Basso) Martin Barre (Chitarra elettrica, Chitarra classica e Mandolino) John Glascock (Basso nelle tracce 2, 9, 10) John Evan (Piano e Organo) Dee Palmer (Sintetizzatori, Organetto e orchestrazioni) Barrie Barlow (Batteria e Percussioni)
Musicisti ospiti Francis Wilson (Voce narrante nelle tracce 1 e 8)
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