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21/03/24
KRASUE + ANTARES + WAH ‘77
FREAKOUT CLUB, VIA EMILIO ZAGO 7C - BOLOGNA
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26/10/2021
( 2468 letture )
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Per mezzo secolo gli Yes sono stati tra i nomi più rappresentativi del progressive rock, contribuendo con il loro stile intellettuale, barocco e iper tecnico a tracciare le coordinate fondanti del genere intero. Alfieri di questo stile, nella sua concezione più barocca e fondata sul virtuosismo in parte influenzato dalla musica classica, essi si sono distinti rispetto ai più sperimentali King Crimson, ai folli esploratori dei più disparati generi Gentle Giant, al rigoroso jazz dei Soft Machine e via dicendo, elaborando uno stile tanto pionieristico e talvolta cerebrale quanto riconoscibile. A oggi sono centinaia, se non migliaia, le band che vantano l’influenza di Steve Howe e compagni. Ciò nonostante, l’ultimo lustro è stato particolarmente difficile da affrontare per il gruppo inglese, che nel 2015 si è ritrovato orfano del bassista storico Chris Squire, venuto a mancare dopo la sua battaglia contro la leucemia. Fare i conti con la perdita di un musicista di tale calibro, nonché di un amico e collega di lunghissima data, dev’essere stato un affare tutt’altro che semplice, eppure gli Yes sono riusciti a mettere una pezza sulla voragine apertasi dopo la scomparsa del bassista consegnando la sua eredità a Billy Sherwood, che oltre ad aver sostituito Squire nel tour precedente, è riuscito ad adattarsi perfettamente nell’organico della band poiché dotato di un modo di suonare simile al suo predecessore. L’organico si completa, oltre a Sherwood e Howe, con Alan White dietro le pelli, Jay Schellen alle percussioni, Geoff Downes alle tastiere e Jon Davison nel doppio ruolo di cantante e chitarrista acustico.
Ci piace pensare che, non avendo più nulla da dimostrare dopo una carriera piena di soddisfazioni, gli Yes abbiano voluto scrivere un disco di inediti solo perché amano fare musica dopo tutti questi anni e perché in qualche modo traggano piacere a condividerla col resto del mondo. A differenza di molti album usciti in questo ultimo anno e mezzo, The Quest non è un cosiddetto lavoro “da quarantena”, dal momento che è stato composto nel 2019. Esso, pur non essendo un concept album, invita a riflettere su un unico tema comune. Secondo Jon Davison, The Quest sarebbe: “a strong album with a common theme: posing the great questions of life and finding that we have our destiny within our own hands”.
Giustamente, come era lecito aspettarsi, non ci sono stravolgimenti stilistici. Gli Yes non osano e preferiscono un approccio orientato ad un progressive alquanto conservatore e di maniera, affatto evoluto e aggiornato ai giorni nostri. Un po’ come gli ultimi Kansas, siamo di fronte ad uno stile consolidato nel tempo, che però, per quanto piacevole, non convince a dovere arenandosi a tratti tra episodi poco riusciti -tutto il secondo CD è skippabile a piè pari- e altri di puro mestiere e caratterizzati da un’atmosfera per lo più distesa, carezzevole, quasi sonnacchiosa. È un progressive abbastanza soft, che pur presentando momenti di estro strumentale interessante, preferisce strutture in parte ripulite dalla pomposità classicheggiante degli esordi. In tutto questo convincono pienamente i seguenti tre brani: Ice Bridge è un episodio tutto sommato dinamico se si tiene conto dell’andamento generale dei pezzi e vede gli Yes rifarsi vagamente a Roundabout, per via del basso pulsante in evidenza e l’onnipresenza di mellotron, tastiere e chitarre che rielaborano costantemente la melodia del riff portante, un po’ ripetitiva con lo scorrere dei minuti. Leave Well Alone stende un tappeto funkeggiante, decisamente ottantiano nell’incipit, per poi inerpicarsi in una sghemba struttura stop n’ go sulla strofa e infine concedere lo spazio a Howe, libero di sciorinare un gustoso ed elaborato assolo che copre tutta la seconda metà del pezzo. A Living Island si fa ricordare ed apprezzare per il crescendo e l’atmosfera fiabesca e sicuramente conciliante in cui Jon Davison si dà il suo bel da fare per non far rimpiangere Anderson. Minus the Man, The Western Edge, Damaged World o la beatlesiana Mystery Tour sono invece dei discreti, ma tutt’altro che imprescindibili, quadretti sonori soft-prog che ora strizzano l’occhio al passato più catchy e radiofonico degli Yes d’inizio anni ottanta, ora si prodigano in espliciti tributi alle proprie influenze musicali, mancando clamorosamente il bersaglio. Infine pezzi come Future Memories e Sister Sleeping Soul si addentrano fiaccamente tra sonorità acustiche ed elettro-acustiche quasi folkeggianti, da brughiera inglese dagli arrangiamenti asciutti ed essenziali all’interno dei quali Davison ha modo d’interpretare il ruolo di menestrello un po’ sognante. Sono brani né carne né pesce che onestamente, a parte allungare il minutaggio, affossano l’attenzione dell’uditore, per fortuna risollevata dai colpi da maestro inseriti all’inizio, come quarto brano e alla fine del disco.
Difficile pensare che nel 2021 ci sia ancora qualcuno interessato alla musica degli Yes e che sia al tempo stesso totalmente a digiuno della musica degli inglesi. The Quest, per quanto piacevole a tratti, è un lavoro infatti per lo più accessorio e naturalmente lontanissimo dai fasti di Close to the Edge, Fragile o al bestseller radiofonico 90125. C’è olezzo di mestiere da parte di Steve Howe che trasuda in The Quest e che unito all’andamento placido e, appunto, sonnacchioso dominante del disco, rende difficile l’ascolto dell’album persino ai fedelissimi fan del gruppo. Tuttavia bocciare il disco sarebbe ingiusto perché gli Yes sanno ancora scrivere grande musica quando vogliono: i brani 1, 4 e 8 del primo dischetto sono lì a dimostrarlo. Motivo per cui il voto finale è una media tra le tre canzoni migliori e tutto il resto.
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7
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Complessivamente il disco potrà non colpire molti, ma come già scritto da McCallon e JC vi sono pezzi che possono non colpire al primo ascolto ma che poi ci si ritrova a canticchiare in loop sotto la doccia, oppure, nel caso di The Ice Bridge, as avere in loop per mesi su ogni supporto a disposizione, tanto è bella. The Ice Bridge mi ga lo stesso effetto che mi fece Prime Time degli Alan Parsons Project tanti anni fa. Entrata in testa e mai uscita, compagna fedele di ogni viaggio a finestrini abbassati. |
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6
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È veramente un bel disco. Poi, cosa che vale per tutti i dischi degli Yes, è un po' come mangiare una torta con la panna. Alla lunga, stucchevole. In ogni caso The Ice Bridge sta con le migliori canzoni del gruppo, il che, visto il gruppo di cui stiamo parlando, è tanta roba. |
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5
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OTTIMO ALBUM PER DORMIRE, SE A CASA HAI FINITO LA CAMMOMILLA? |
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4
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Devo dire che, dopo aver ascoltato i singoli, ero decisamente fiducioso riguardo questo nuovo lavoro targato Yes. Le aspettative sono andate parzialmente deluse, visto che alla fine i pezzi di cui sopra mi sembrano i migliori della tracklist (The Ice Bridge specialmente). Non che gli altri siano brutti eh (a parte quelli del secondo cd), semplicemente mi hanno colpito meno, nonostante sprazzi di classe e raffinatezza negli arrangiamenti siano presenti costantemente. Ma questa non è una novità da parte loro. Lo trovo comunque migliore del precedente Heaven And Heart (molto noioso) sebbene anche questa volta un paio di sbadigli mi tocca reprimerli. Voto 74 |
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3
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Dare una valutazione ad un nuovo disco di una band che si chiama Yes, non è molto semplice. Ma qui, mi sembra che la recensione abbia colto molto bene, cosa significa ascoltare, nel 2021, un disco di una formazione che si, si chiama ancora Yes ma che ha i soli Howe e White di quella che aveva fatto Fragile, Close to the Edge, Relayer e Going for the One. Nessun dubbio che sono grandissimi musicisti e virtuosi (hanno anche i loro anni...) e che Jon Davison somiglia a Jon Anderson dando quindi un certo mood ai pezzi. Ma manca quel qualcosa (ispirazione, ricerca, stile?) che ci si aspetta quando si apre un disco con la copertina di Roger Dean. Onestamente, parlando di monumenti del Progressive, mi piace di più l'ultimo di Hackett. Però, (mi scuso nel caso) ripeto quanto scritto dal recensore, perché è anche il mio pensiero: "bocciare il disco sarebbe ingiusto perché gli Yes sanno ancora scrivere grande musica quando vogliono". Appunto, quando vogliono. Jusqu'à la prochaine fois. |
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2
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69 mi sembra un po' bassino... |
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1
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A me è piaciuto. Specifico che, visto che il CD2 è costituito da bonus track, nel mio giudizio complessivo ha preponderanza il CD1, vedendo le altre tre tracce come qualcosa di contorno, come del resto considero ogni bonus track, bella o brutta che sia (di tal CD2 apprezzo davvero solo Mystery Tour). Delle otto tracce che compongono il disco, almeno quattro sono di buon livello: mi riferisco in particolare ai brani che aprono e chiudono il disco (con A Living Island forse miglior pezzo del lotto) e a Western Edge e Future Memories. Anche Dare to Know e Minus the Man passano forse un po' in sordina al primo ascolto, ma hanno i loro spunti. In definitiva, do un onesto 75 che potrebbe crescere con gli ascolti. Non è il disco dell'anno nè sarà un classico degli Yes, ma questa nuova formazione si difende bene. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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CD 1 1. The Ice Bridge 2. Dare To Know 3. Minus The Man 4. Leave Well Alone 5. The Western Edge 6. Future Memories 7. Music To My Ears 8. A Living Island
CD 2 1. Sister Sleeping Soul 2. Mystery Tour 3. Damaged World
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Line Up
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Jon Davison (Voce, Chitarra acustica) Steve Howe (Chitarra, Voce) Geoff Downes (Tastiere, Mellotron, Organo Hammond) Billy Sherwood (Basso, Voce) Jay Schellen (Percussioni) Alan White (Batteria)
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