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The Dear Hunter - Antimai
19/09/2022
( 1256 letture )
Antimai dei The Dear Hunter è un disco che vive di lodi sin dalla sua release, crogiolandosi e godendosi in anticipo il gradino più alto del podio dell’anno secondo moltissimi progster in giro per il mondo. Eppure, il nuovo platter del quintetto statunitense, non possiede il carisma che la stessa band ha saputo imprimere col fuoco nel suo noto e imponente lavoro lungo dieci anni e cinque atti.

Antimai propone un concept a dir poco interessante, su questo c’è poco da dissentire. Il disco serve infatti per costruire e descrivere la città in cui è ambientato il mondo fittizio immaginato dalla band e nei cui confronti Antimai rappresenta soltanto il primo passo: “Indigo Child”. Gli otto brani proposti sono un viaggio concettuale tra le classi, nei “gironi sociali” di una distopia perversa dominata dal controllo, nelle strutture più banalmente geografiche e architettoniche del luogo, fungendo insomma da immersione in un mondo narrativo, ancor prima che di pura musica o sensazioni sonore -a riguardo, i musicisti hanno rilasciato anche un cortometraggio sulla rete. È proprio da questa premessa, e da ascolti più attenti, che vengono però a galla i primi problemi, o meglio, le prime imperfezioni e incrinature. Perché in fondo il disco è un lavoro discreto, ma vittima dell’eccessivo entusiasmo dimostrato per del progressive che di carne sul fuoco ne mette meno di quello che si possa pensare. A partire dalle liriche, che finiscono per essere poco accattivanti e superficiali -sia a fronte dei lavori passati che del concept proposto-, passando per la vera e propria musica, questa orbitante intorno a un sound ben lungi dall’essere ammaliante o profetico: realtà altrettanto contemporanee come i Thank You Scientist declinano una cifra similare con dosi ben più sostanziose di originalità. Questa precisa formula dei The Dear Hunter potrebbe essere descritta tanto perfettamente quanto goliardicamente da chi ha usato l’espressione “Crash Bandicoot prog”. Esasperazioni a parte, ci si riferisce a quel tono continuamente gioioso, “vacanziero” e dai sapori hawaiiani che non solo stancherà prima del tempo in quanto musica parossisticamente ottimistica, ma che contrasterà con lo stesso immaginario ideato dalla band in cui l’onnipresenza di tutti questi arcobaleni non pare essere contemplata, tutt’altro.

E di fatto, un concept album, deve avere due cose oltre alla ovvia attenzione strettamente musicale: atmosfera e studio delle liriche/tematiche presentate. Antimai, in quest’ottica, non solo risulterà spoglio ma addirittura stonato. Il world building del disco, in altri termini, non sembra incanalare la propria forza espressiva nel suo stesso pentagramma costitutivo, invero, fa trasparire due idee ben distinte -una musicale e una concettuale- fatte avvicinare a forza come due calamite dello stesso polo.
Parlando invece di nudo e crudo songwriting, l’album si basa sul ballo armonioso tra rock progressivo più classico, soft jazz e ritmiche funk. Pezzi più scarni e semplici, come Ring 3 con il suo giro di tastiera spudoratamente naïf, si alternano a brani più studiati e cadenzati, come Ring 7 o la splendida Ring 5, con la sua variazione dai sapori statunitensi grazie al riff monocorda mutato o le sue virate melodiche. Proprio a riguardo di quest’ultimo aspetto, ossia quello melodico, il lavoro svolto dalla band è indubbiamente di pregio. Tanto nelle strofe quanto nei refrain si toccherà con mano, sin dai primi ascolti, l’acume nel saper scrivere giri vocalici e strumentali sì “facili” e immediati, ma al contempo funzionanti e sfaccettati anche a seguito di ascolti frequenti. Insomma, se di sola musica si parla, di idee ce ne sono eccome. Il risultato complessivo è però compromesso -se una banale caduta di stile si può definire “compromissione”- dal summenzionato sapore di artificioso ottimismo che straripa in buona parte dei riff e dei fraseggi degli otto brani, da quella voglia di colorare con pleonasmi anche i passaggi liricamente più grigi, più “impegnati”, almeno nelle intenzioni. E da qui, da questa menzionata assenza di coerenza tra il sound e il concept, ci si potrebbe anche chiedere se il prog rock, storicamente basato su tonalità e melodismi di questo tipo, possa davvero continuare a essere prodotto (e funzionare, nonostante qui in salsa decisamente moderna) in un periodo storico, sociale e culturale ormai distante anni luce da quello di provenienza del genere. Un ascolto che può aprire dunque a riflessioni che vadano oltre l’oretta del disco, che può far interrogare l’ascoltatore sullo statuto del genere e che può servire come “scusante” per capire dove si possa porre il confine tra passato e presente della musica in questione.

Ma tirando le somme, evitando rischiosi labirinti intellettuali, la sensazione che dà Antimai è allora quella di un di un elegante progressive dai toni tanto fusion quanto propriamente rock, fatto di momenti lodevoli sparsi lungo brani ben calibrati per ritmo e durata, ma sul cui sfondo aleggia un che di anacronistico nonostante la freschezza della superficie. Un’impronta dunque non tanto autoriale, quanto forzatamente legata al passato. Parliamo poi di un progetto dove tutto dovrebbe rispettare e piegarsi nei confronti di un’idea precisa, ancor prima che a uno stile, e qui è innegabile che ciò non accada. Salvo però questo iato tra concept e sonorità, la qualità performativa e realizzativa del lotto presentatoci non è assolutamente di bassa qualità, anzi. Casey Crescenzo al microfono presta con la p maiuscola, sfaccettando la scarna narrazione; Nick Crescenzo e Tousseau propongono ritmiche accattivanti anche quando batteria e percussioni cedono a incarnazioni più prevedibili e radiofoniche, e il basso di Nick Sollecito sa accompagnare con personalità le strofe funky pur senza divenire protagonista assoluto del platter.

Ma da qui, dall’essere dunque un buon disco di progressive fatto con classe ed esperienza, un amalgama di stili e trovate che saliranno ascolto dopo ascolto, a divenire il concept album capolavoro dell’annata, potremmo dire che ne passano di Act V.



VOTO RECENSORE
73
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2022
Cave And Canary Goods
Prog Rock
Tracklist
1. Ring 8 - Poverty
2. Ring 7 - Industry
3. Ring 6 - LoTown
4. Ring 5 - Middle Class
5. Ring 4 - Patrol
6. Ring 3 - Luxury
7. Ring 2 - Nature
8. Ring 1 - Tower
Line Up
Casey Crescenzo (Voce, Chitarra, Organo)
Maxwell Tousseau (Chitarra, Tastiere, Percussioni, Cori)
Robert Parr (Chitarra, Tastiere, Cori)
Nick Sollecito (Basso)
Nick Crescenzo (Batteria, Percussioni, Cori)
 
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