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Hakanai - Decreation
31/10/2022
( 1594 letture )
Simone Weil once wrote: "the self is only a shadow protected by sin and error"; and her term for curing this spiritual malady was "decreation". This word is a neologism to which she did not give an exact definition nor a consistent spelling. In one notebook, she describes its aim as "an undoing of the creature in us – that creature enclosed in self and defined by self. But to undo self one must move through self to the very inside of its definition". Perhaps that is what the album aims to accomplish – to humble, study and destroy the "self" through creative expression.

Per la mia recensione numero 200 mi sono voluto concedere qualcosa di speciale, un album che ormai stava “decantando” da mesi in attesa di poterne parlare con la giusta cognizione di causa. Perché se è vero che la stessa identica situazione si è presentata con il magniloquente Banefyre dei Crippled Black Phoenix, in questo caso il processo di assimilazione si è rivelato incredibilmente più complesso. Non vuol dire che abbia lasciato passare i mesi per farmi per forza piacere il disco, tutt’altro: i mesi sono stati necessari per riuscire a scandagliarlo in ogni suo dettaglio, provando a cogliere tutto il lavoro che vi è dietro un lavoro imponente e che trasuda passione e visceralità da ogni nota.
Hakanai è un progetto nato nel 2017 dalla mente del polistrumentista newyorkese Matt Lombardi, che negli anni si è fatto accompagnare via via da musicisti diversi per riuscire a dare vita alla sua personale visione artistica, espressasi dapprima tramite un Ep omonimo uscito proprio nel 2017 e poi attraverso un paio di split album e qualche sparuto singolo. Una carriera spesa nell’underground più totale e basta effettuare una semplice ricerca su internet e sui vari social per capire cosa intendo. Eppure proprio lo scorso agosto viene pubblicato il primo full-lenght firmato da Lombardi, il quale ha sviluppato tutta la musica, i testi e il concept nel corso degli ultimi sette anni, scrivendo, componendo e registrando autonomamente fino a raggiungere il risultato che si era prefissato da tanto, troppo tempo. Con il senno di poi, diciamolo subito, un’attesa che – seppure ignari di starla vivendo – è valsa la pena di vivere e che ci consegna una delle opere d’arte più profonde, intime ed evocative dell’anno.

Decreation è il titolo scelto per il disco e il significato del termine va ricercato in un appunto ritrovato su un taccuino della filosofa libertaria Simone Weil, la quale utilizza questo neologismo per indicare l’operazione mentale e sociale da effettuare per distruggere il concetto stesso di “sé”; indagare su questo pensiero filosofico sarebbe lungo e complicato, ma probabilmente il legame è da attribuire alla sfaccettata teoria teologica della stessa Weil, ben indagata da diversi autori italiani anche negli ultimi anni (e riportata brevemente in apertura, estrapolandola dalla pagina Bandcamp del disco). Ad ogni modo Lombardi motiva la scelta di questo concept così particolare affermando che la sua musica si prefigge lo scopo di abbattere le barriere dell’egoismo sociale, mirando direttamente alla più profonda intimità di ciascuno di noi, senza bisogno di elevare il proprio ego al di sopra dell’opera stessa. Lasciando per un attimo da parte la tematica fondamentale del disco – che rimane interessante, ma non fondamentale per godere della musica – spostiamoci subito sulla descrizione del come suona questo album: prima di tutto è necessario sottolineare che ci troviamo di fronte ad un lavoro corposissimo, della durata di un’ora e ventuno minuti, che va assaporato nella sua globalità per poterne comprendere lo spirito e le intenzioni. Operazione tutt’altro che semplice, complici anche le sonorità stesse messe in campo dall’autore, che è proprio qui che manifesta tutta la sua padronanza nel songwriting e nella scelta dei suoni: infatti Decreation è un vero caleidoscopio di influenze e stili, che ha nella fusione tra math-rock e slowcore la sua base fondante, ma riesce ad inglobare con grande maestria suoni propri del post rock tendente all’ambient, costruzioni prog, fragilità acustiche, musica da camera e qualche sporadica esplosione sludge, racchiudendo il tutto all’interno di un’atmosfera che è inequivocabilmente emo. Non è semplice rendere con le parole l’intero universo sonoro che rende speciale questo disco, ma se i generi appena citati vi stimolano o siete instancabili cultori dei crossover stilistici allora non dovreste lasciarvi scappare Decreation. E l’appello è ancora più accorato dal momento che sul web non sono presenti né articoli né recensioni per quest’album, che meriterebbe un riconoscimento adeguato.

Provando ad addentrarci nella scaletta del disco notiamo subito una grande varietà per ciò che riguarda il minutaggio, con quattro brani che sfiorano di poco il minuto di durata, un paio che invece si attestano sui quattordici minuti e i rimanenti che variano dai tre minuti e mezzo fino ai nove minuti. La stessa varietà che si ritrova poi nelle sonorità, che già nei primi venti minuti si rivelano molteplici: ammaliante l’avvio strumentale affidato a Senza Uscita, che ci accoglie con la sola chitarra acustica accompagnata da flebili sussurri ambient; è un arpeggio continuo quello che Lombardi mette in scena e che fa cogliere immediatamente quella che è la costante dell’intera opera, ovvero una profondità emozionale che mozza il respiro e fa rimanere in apnea durante lo svolgimento del brano per evitare di emettere rumori che farebbero svanire la magia costruita dalle note della chitarra. Il nome di riferimento qui (e non solo) è quello di Mike Kinsella e dei suoi Owen, anche se siamo lontani da una scrittura folk/pop e ci muoviamo in territori più genuinamente “post”, ma è solo l’inizio. Ecco quindi che si cambia registro con l’entrata di basso e batteria dal sapore post punk e poi un carillon di arpeggi stavolta eseguiti con la chitarra elettrica. Devotion è la prima suite del disco ed è anche il brano più lungo in scaletta, diviso in quattro parti intitolate rispettivamente Blind in the Silence, A Priestess Out of Tune, Heaven Fluorescent e The Redwoods: qui si può parlare di emocore, anche se inserito in un contesto che si rivelerà più prog del previsto, tra tempi dispari, incisi metal e variazioni armoniche talvolta destabilizzanti. La protagonista indiscussa rimane sempre la chitarra, anche se la voce di Lombardi – pur non risultando particolarmente calorosa – contribuisce a settare ulteriormente un mood che rimane costantemente malinconico e “piacevolmente depresso”. La batteria è suonata da Peter Appleton e Tyler Gilbert ed anche se non ci è dato sapere chi ha suonato cosa si può individuare un approccio decisamente più heavy in certi passaggi ed un altro al limite del jazz (con anche un momento bossa nova) nelle strofe e negli intermezzi strumentali. Di gran pregio anche gli interventi al vibrafono e alla fisarmonica di Jacob Farber, che riempie i silenzi lasciati dalla chitarra con pennellate di colore non invasive, ma fondamentali. I minuti sono tanti, ma scorrono in fretta, lasciando che la mente navighi tra ricordi ed emozioni seguendo un testo particolarmente verboso e pregno di immagini legate ad una relazione amorosa terminata nel peggiore dei modi.

I'm gently learning to internalize my faults.
But please understand, I won’t wait around for you.
I will never forgive you, but I’ll let the sun rise on my back.


Non servono altre parole, questo è uno di quei casi in cui l’ascolto è il solo modo per capire di cosa si stia parlando. Fatto sta che negli ultimi anni è capitato raramente di ascoltare musica così potente a livello emotivo e se a questo si somma una capacità di scrittura e composizione di altissimo livello ed una produzione che tutto lascia pensare tranne di essere quasi totalmente casalinga, allora si può affermare di essere al cospetto di qualcosa di grande e prezioso. E la sensazione non termina mai nemmeno con i brani seguenti, nei quali Matt Lombardi e i cinque musicisti che lo accompagnano sembra non vogliano mai smettere di sorprendere. Ogni brano in scaletta meriterebbe un’analisi a sé, ma non volendo svelare troppo riguardo un disco che ha proprio nel progressivo coinvolgimento e nell’effetto sorpresa due dei suoi punti di forza, cercherò di trattenermi sperando di stimolare la curiosità di chi legge. Astræa / Innocence è uno snodo cruciale che divide in due il disco: musicalmente si può parlare sempre di emo, complice anche l’utilizzo degli strumenti a fiato suonati da Zachary Cadman, già da tempo collaboratore di Lombardi. Sebbene l’atmosfera rimanga desolante e carica di pathos, il brano presenta un paio di incisi puramente ska che spiazzano e sembrano essere totalmente fuori tema, eppure sono proprio quei momenti che donano al brano un’aura inspiegabilmente intrigante. L’assolo finale di chitarra sposta ancora gli equilibri prima di lasciare spazio all’ennesimo delicato arpeggio in chiusura. Radicale il passaggio alla violenta We Will Dismantle Death, che parte come un pezzo dei Mastodon per poi sciogliersi verso sonorità doom-gaze inedite fino a questo punto del disco. Anche dal punto di vista lirico il brano si muove all’unisono con le distorsioni delle chitarre, grazie a un testo minimale che sembra descrivere un parto e al contempo una lotta contro un male incurabile. Sembra impossibile, ma siamo già nei pressi della conclusione dell’album e gli Hakanai decidono di calare il secondo asso nella manica con la seconda suite Carousels, divisa ancora in quattro parti (The Integrity of Incoherence, Genuflect / Recompense, Pyramid e The Winds of Change). Anche in questo caso lo sfoggio di classe è annichilente, in senso buono: il brano è più omogeneo e meno vario rispetto a Devotion, ma in un certo senso ne è anche lo specchio e questo è confermato da almeno due motivi ritmico-melodici che sono in comune tra le due suite e fungono da leitmotiv, oltre che da un testo ancora una volta sofferto e che tratta della fine di una relazione. Sostanzialmente il pezzo sceglie un approccio slowcore sinuoso, con i consueti incastri math-rock tra le chitarre e la voce nel mezzo del mix, trascinata e al limite dell’apatia; seppur con qualche variazione è solo negli ultimi quattro minuti che il brano si evolve spingendosi su binari post metal, ma guardandosi bene dall’esplodere del tutto. Nel songwriting di Lombardi in effetti ogni soluzione è minuziosamente controllata e non vi è mai spazio per cascate di accordi liberatori o ritornelli ariosi, quando sembra che arrivino momenti simili tutto viene o interrotto o dirottato su nuove progressioni armoniche. È una caratteristica che potrebbe far innervosire qualcuno, ma una volta entrati nel mondo del polistrumentista di New York si può iniziare a comprendere che è anche in queste scelte che sta il fascino della propria musica. Alla fine è un gioco di incastri e di cerchi che si chiudono così come testimonia la conclusiva Senza Angoscia, che non condivide con il primo brano dell’album solo il titolo in italiano, ma anche l’intelaiatura armonica, affidata sempre ad una solitaria chitarra acustica suonata con eleganza e trasporto. Se leggendo i nomi dei brani vi è venuto un dubbio sulla presenza di The Amphitheater (Alternate Take, Instrumental) sappiate che questa non è una bonus track e non è nemmeno una versione strumentale della canzone omonima posizionata al terzo posto in scaletta, ma è quasi totalmente una reinterpretazione del pezzo che, se già funzionava nella sua versione “standard”, qui mostra un volto se possibile ancora più affascinante fatto di sonorità dilatate ed arpeggi distesi sempre a cavallo tra emo, mathcore e post rock.

Decreation finisce così, con la stessa chitarra che ha spadroneggiato lungo tutto il corso dell’album, e la voglia di riascoltare tutto da capo non è immediata, è da ammettere. Il fatto è che un’opera di questo tipo è capace di scavare davvero tanto nel profondo se si entra in sintonia con i suoni proposti e l’intimità che si crea con la musica può essere veramente stretta. Matt Lombardi sarà sicuramente fiero del suo lavoro, così come lo saranno i musicisti che lo hanno accompagnato e che hanno contribuito a rendere il disco un piccolo capolavoro. La produzione lascia sconcertati: basta leggere la mole di strumenti impiegati per capire che questo non è stato un lavoro semplice da registrare, eppure il solito Lombardi ha fatto tutto da solo facendosi aiutare dal collaboratore Charles Iwuc solo in fase di master finale. Il risultato è davvero strabiliante nella sua vividezza e, solo rimanendo in campo slowcore (e derivati) non risulta difficile trovare dischi usciti quest’anno per etichette importanti che suonano peggio di questo. E allora, per concludere, per quale motivo i forum, i siti specializzati e i social non hanno minimamente considerato l’uscita e il valore di Decreation? Anche la pagina Bandcamp dell’album è terribilmente desolata e senza commenti; è inspiegabile. Questa recensione dunque, prima di voler dare giudizi sulla musica e sull’artista, vuole essere un tramite attraverso il quale venire alla scoperta di un’opera d’arte preziosa ed estremamente valida, che parla sì ad una precisa nicchia di ascoltatori, ma potrebbe attrarne molti altri spinti dalla voglia di scoprire nuovi suoni ed incroci stilistici. D’altronde aveva funzionato quasi due anni fa per gli israeliani Mazeppa, confido che il mio intento possa andare a buon fine anche questa volta. Termino definitivamente dicendo che sono molti gli aspetti di Decreation che non ho sviscerato e che aspettano di essere ascoltati ed amati, eventualmente anche criticati. Non lasciate che questo disco scompaia nell’oblio, sarebbe un vero peccato. Scopritelo, ascoltatelo e lasciatevi sedurre: l’esperienza non vi lascerà indifferenti, ve lo prometto.

Stars aligned in syzygy.
Their colors faded, their details crude.
This tide of songs and bones will endure the storm;
a lunate moon diverging.



VOTO RECENSORE
86
VOTO LETTORI
0 su 0 voti [ VOTA]
DEEP BLUE
Domenica 9 Luglio 2023, 15.57.32
4
Un disco Post Rock, non fosse che si sono anche le chitarre, le atmosfere sono quelle.
LUCIO 77
Venerdì 2 Dicembre 2022, 17.30.48
3
Ciao Black Me Out, ho ascoltato alcune volte l'Album ed effettivamente è un'esperienza impegnativa se non si ha la mente libera durante l'ascolto.. C'è un po' di Nick Drake e momenti Indie Rock.. O meglio: Io sento queste influenze.. Cosa molto positiva, vista anche la durata del Lavoro, è che la Musica proposta non mi ha annoiato.. Buon segno.. Alla prossima!
Black Me Out
Martedì 8 Novembre 2022, 18.21.09
2
Ciao @Skydancer Mi fa piacere leggerti sotto questa recensione! Gurda, se esistesse la versione in cd l'avrei già comprata da tempo, ma sembra proprio che sia la band che l'etichetta abbiano voluto stampare solo il vinile... Un gran peccato, almeno per me che non "venero" il vinile.
Skydancer
Martedì 8 Novembre 2022, 14.56.04
1
Ho letto la recensione al day1, ma viste le premesse ho voluto aspettare di avere un po' di tempo libero per poterlo ascoltare come si deve. E per fortuna, visto che è una delle migliori cose (se non LA migliore) ascoltate quest'anno in ambito extra-metal. @Alex che tu sappia esiste la versione in CD? Su Bandcamp vedo solo il vinile...
INFORMAZIONI
2022
Tower to the Sea Records
Inclassificabile
Tracklist
1. Senza Uscita
2. Devotion
3. The Amphitheater
4. Hallowed and Harrowed
5. Abendrot
6. Étude #1 (Mer)
7. Astræa / Innocence
8. Étude #2 (Nuit)
9. We Will Dismantle Death
10. Winter Light
11. Gulistān (The Rose Garden)
12. Carousels
13. Senza Angoscia
14. The Amphitheater (Alternate Take, Instrumental)
Line Up
Matt Lombardi (Voce, Chitarra, Basso, Pianoforte, Synth, Dulcimer, Violino, Violoncello, Glockenspiel, Percussioni, Field Recordings)

Musicisti Ospiti:
Jacob Farber (Pianoforte su tracce 2, 6, 7, 8, 11, Synth, Piano Elettrico su traccia 5, Organo, Fisarmonica, Vibrafono su traccia 2)
Zachary Cadman (Cornetta, Eufonio su tracce 6, 7, 8)
Peter Appleton (Batteria su tracce 2, 5, 6, 7, 12, 14)
Tyler Gilbert (Batteria su tracce 2, 9, 10, 11)
Sander Bryce (Batteria su traccia 3)
 
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