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SLAUGHTER CLUB, VIA A.TAGLIABUE 4 - PADERNO DUGNANO (MI)

Mourning Beloveth - A Disease For The Ages
( 2859 letture )
Mi sento come un medico di fronte ad un paziente in fin di vita: devo metterlo al corrente dell’esito delle analisi perchè inizi al più presto la cura, ma d’altra parte non devo affondargli il morale, per non rischiare di indurlo in uno stato depressivo con ovvi effetti contrari; bisogna che gli parli in modo rapido e risoluto, ma con tatto e delicatezza, senza trasmettere ansia e timore, a lui come alla sua famiglia. Con questo spirito mi accingo all’odierna recensione dato che l’affaire MOURNING BELOVETH diviene, con il nuovo A DISEASE FOR THE AGES, piuttosto delicato, vuoi per l’altisonanza del soggetto in questione che ne rende di pubblico dominio la sorte, vuoi perché i nostri irlandesi hanno sempre goduto di una critica complice che ha preferito sorvolare sui primi sintomi di affezione (considerandoli alla stregua di qualche innocuo malanno stagionale) ignorandone dunque la reale gravità.

Vero è che la qualità assoluta dei tre dischi precedentemente rilasciati non può essere messa in discussione nemmeno da un interlocutore tanto esigente quanto lo può essere il sottoscritto; detto questo devo registrare, soprattutto nel passaggio tra il pregevole THE SULLEN SULCUS ed il meno eclatante A MORDEROUS CIRCUS, un deciso affossamento del coinvolgimento emotivo, che non accenna ad invertire la rotta nemmeno con l’ultimo A DISEASE FOR THE AGES. In discussione non può esserci la comunque efficace capacità compositiva, addirittura accresciutasi con il tempo (prova ne sono i pezzi lunghi e ben articolati che compongono il quarto full-lenght), né la sempre buona tecnica esecutiva che, complice un’architettura coscientemente semplificata rispetto agli esordi, primeggia, ora più che mai, nelle trame della solo-guitar e nello sviluppo ordinato delle percussioni: ciò che proprio non riesco a digerire è la perdita di creatività che lego allo sconsolante abbandono dell’insolita personalità sprigionata fin dell’esordio DUST. I MOURNING BELOVETH, diciamocelo, non sono mai stati smisuratamente melodici nei motivi trainanti, ma nemmeno troppo ostici e claustrofobici nella propria costruzione ritmica; non sono mai stati sfinitamente tristi, ma nemmeno violenti ed incalzanti tanto per esserlo; i MOURNING BELOVETH non sono mai stati semplicemente DOOM (o forse non lo sono più da DUST) o MELODIC DOOM (o forse non lo sono più da THE SULLEN SULCUS), ma nemmeno possono essere considerati DEATH (proprio no, troppo lenti). E allora cosa sono? E soprattutto… cosa sono ora? Volendo per una volta, mio malgrado, prescindere dalle amate etichette potremmo pensare i MOURNING BELOVETH di A DISEASE FOR THE AGES come un eterogeneo cocktail sonoro, alla ricerca di spunti malinconici e struggenti, ma altrettanto disposta a fornire ai più “duri” scariche di adrenalina stimolate da passaggi resi rabbiosi più dalle scelte di studio e dal vigoroso colore interpretativo di riff e cantato che non dall’uso indiscriminato della velocità esecutiva, accantonato a favore di un avanzamento regolarmente a media frequenza.

Ma veniamo all’analisi tecnica. A DISEASE FOR THE AGES si presenta strutturalmente molto simile ad un album GOTHIC DOOM (DRACONIAN et similia, tanto per intenderci), pur tralasciando, o meglio trascurando, i canoni romantici tipici della corrente ed alcune accortezze stilistiche (il cantato femminile affiancato al growling, ad esempio) che francamente iniziano a stancare anche i fans più incalliti. La costruzione del tracciato melodico, cronometricamente molto presente, si fonda infatti sull’estensione, più o meno estremizzata, delle partiture ritmiche che suonano a favorire (armonicamente) lo sviluppo della solista e che, solo raramente, ne intrecciano le linee: quando ciò accade Brian Delaney e Frank Brennan prediligono l’utilizzo dell’arpeggio pizzicato della chitarra d’accompagno (talvolta pulito, talvolta effettato) in luogo del potente ringhio prodotto dal bitonale distorto (presente in tutte le altre fasi), mentre Brendan Roche aggiunge qualche virtuosismo che dimostra altrimenti inavvertibili qualità esecutive: senza potersi ripulire completamente dall’immagine di semplice scudiero al servizio dei cavalieri Delaney & Brennan egli fa in queste situazioni da alter-ego timbrico al motivo trainante aggrappandosi, principalmente nelle note medio/alte, al manico del suo basso elettrico; nota a favore della restituzione del quattro corde impreziosita da un’effettistica vigorosamente compressa che ricorda, in molti contesti, i primi episodi dello SVEDISH DEATH (di classe) che fu. Ad accompagnare, nota su nota, questo ben congegnato complesso strumentale il drumming preciso ed ordinato di Timmy Johnson il cui unico neo è forse quello di cercare qualche inutile virtuosismo di troppo su di un basamento piuttosto lineare; l’uso limitato della doppia cassa favorisce (chissà se coscientemente) sia l’impatto chitarristico, sia la predominanza, logica e pure manifesta, del cantato all’interno del cumulato sonoro. A tal proposito Darren Moore sfodera, come in passato, un growling piuttosto modulato: sia profondo e naturale nei registri bassi, sia sforzato ma tagliente in quelli alti, risulta sempre efficace. Ciò che invece ancora una volta mi delude è l’ostinata comparsa della voce pulita di Frank Brennan: la timbrica POWER, assolutamente inadeguata, rovina tutte le battute in cui è inserita; passi quando è tenuta controllata e sforzatamente “di petto” (come all’inizio di TRACE DECAY), ma quando sale di tonalità è davvero terribile (come alla fine di TRACE DECAY). Scelta reiterata ed incomprensibile che pesa come un macigno sull’aritmetica finale.

I cinque brani facenti parte di A DISEASE FOR THE AGES sono, come da tradizione, molto prossimi ai dieci minuti di run l’uno e si sviluppano senza consuetudine nell’alternanza metrica di strofe, ganci, ritornelli, ecc…
THE SICKNESS è un bella apertura: tempi rilassati e belle melodie che sfociano nelle struggenti linee chitarristiche a cavallo tra il quinto ed il settimo minuto: decelerazione finale dal carattere molto DOOM, sapientemente cucita al “nuovo”, possente riff dall’indicibile lamento di un Moore in mid-growling; parte finale che, senza accrescere la frequenza dei battiti, si incupisce divenendo perfino impetuosa. Per comprendere le reali motivazioni del disappunto espresso nel precedente capoverso vi invito a fare attenzione all’ugola clean posizionata nella prima metà di sviluppo: mi saprete dire. Nonostante questo piccolo inciampo, THE SICKNESS è senza dubbio la migliore traccia di A DISEASE FOR THE AGES.
Da subito più ritmata e grezza, TRACE DECAY stenta a decollare per la quasi totale assenza di una linea trainante. Il motivo mediano è al più carino ed il doppio intervento delle clean vocals, a monte ed a valle, può impreziosirne unicamente la critica. Riempitiva.
PRIMEVAL RUSH è invece ossigeno per i polmoni; ben costruita rivive a tratti i fasti del passato senza rinnegare la forma-canzone scelta per l’occasione, ricca di stoppati e momenti metallici. La partenza sa emozionare, facendo sperare in un deciso cambio di rotta che, per l’appunto, non avviene; un po’ prolissa, stanca solo verso la fine dove ci si aspetterebbe un riallaccio al motivo iniziale invece ignorato. Udite udite, nessun gemito di Brennan.
Mi duole registrare ulteriore noia tanto in THE BURNING MAN, quanto nella finale POISON BEYOND ALL in cui fatico a fornirvi spunti degni di nota.

I MOURNING BELOVETH di A DISEASE FOR THE AGES si rivelano dunque tecnicamente validi, ma tutto sommato banali e poco coinvolgenti; di certo pagano la magnificenza della loro gemma THE SULLEN SULCUS a cui ingenerosamente è volto il confronto: a mente fredda non si può bocciare in toto l’album, che comunque dimostra una buona fattura in ambito DEATH/DOOM (dovevo dirlo, perdonatemi), anche se dagli esaminandi ci si aspetterebbe ben altro.
La malattia che affligge artisti del calibro di DRACONIAN, OFFICIUM TRISTE e NOVEMBERS DOOM (per citare solo i casi più eclatanti) è dunque contagiosa.
La medicina io ce l’avrei: si chiama estremizzazione.
Ma non sono un dottore. Quindi niente ricetta.



VOTO RECENSORE
65
VOTO LETTORI
46.25 su 28 voti [ VOTA]
taipan
Martedì 7 Ottobre 2008, 1.55.29
2
Dottore, devo dirle che la sua diagnosi è perfetta e che pure ha addolcito la pillola.
Andrea
Domenica 11 Maggio 2008, 9.47.05
1
a me sono sempre sembrati un clone dei my dying bride, con più chitarra e un po' meno atmosfera. Non un cattivo gruppo,ma un gruppo abbastanza prescindibile. Me li nominò un irlandese, descrivendoli come un incrocio tra primi my dying bride e novembre...mah...
INFORMAZIONI
2008
Prophecy Productions
Doom
Tracklist
1 - The Sickness
2 - Trace Decay
3 - Primeval Rush
4 - The Burning Man
5 - Poison Beyond All
Line Up
Darren Moore - Vocals
Frank Brennan – Guitar, Clean Vocals
Brian Delaney – Guitar
Brendan Roche - Bass
Timmy Johnson – Drums
 
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