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Laetitia In Holocaust - Rotten Light
( 2875 letture )
STRANIANTE. La resurrezione posteriore allo smarrimento negli abissi di Rotten Light, secondo full-lenght rilasciato dai nostrani Laetitia In Holocaust, non è impresa facile…anzi, sarebbe bene non contare a priori su alcuna garanzia di sorta relativa ad una possibile riemersione.
DISSONANTE. Per dirla con Quasimodo: […] Io non cerco/ che dissonanze, Alfeo/ qualcosa più della perfezione./ Potessi dirottare ora da Olimpia,/ dall’intreccio di pini, ancora forme/ respinte dalla morte, oltrepassare/ l’arco chiuso che conosco…[…].
TORMENTATO. Passeggereste mai lungo i tortuosi sentieri che costeggiano lo Stige? Vi arrischiereste mai ad un quieto bagno nelle infuocate acque del Flegetonte? Sprofondereste mai nel baratro del vostro più inconfessabile inconscio?
OSTICO. Il prezzo da pagare per addentrarsi sulle vie della conoscenza, piacevoli o avvilenti che siano. Chi beve alla coppa del sapiente è, non di rado, destinato ad un amaro epilogo…ma quanto più amara è la scelta di un’inconsapevole inettitudine…
AGGHIACCIANTE. Come lo spietato urlo del silenzio, come la tediosa mestizia della solitudine, come l’imbarazzante abiezione della deformità, come la sfiancante lentezza del decadimento: una sola, unica, immediata caduta verso le voragini del nulla.

Appare, quindi, evidente la natura criptica di tale Rotten Light, un disco tutt’altro che di immediata comprensione. Posto dai primi ascolti quasi al limite del disastroso, solo la costanza nel dedicarsi ad esso può, alfine, premiare il fruitore con quella che ben potremmo definire un’inaspettata catarsi: qualcosa muta ed irrimediabilmente trascina il vortice dei pensieri in quell’oscuro baratro abilmente architettato dai Laetitia In Holocaust. La base di partenza dei nostri, infatti, altro non è se non il black classico di stampo norvegese, dal quale, però (scordatevi distorsioni primitive e sfuriate di blast-beat), si leva l’ancora per un viaggio talmente soggettivo e personale che, come tutti gli itinerari di una certa complessità, rivela paesaggi amplificati di luci ed ombre, la cui multiforme natura non può certamente essere ridotta alle rigide briglie di un contesto di genere. Di cosa parliamo allora? Qual è il “retroterra musicale” di riferimento? Black, darkwave, ethereal, neofolk, avantgarde? Inutile inseguire una risposta che non sia semplicemente racchiusa nelle due uniche considerazioni possibili: mi piace/non mi piace.

Iniziamo, dunque, dall’atmosferica e logorante Dialogue With The Sun (White Lions Rising) : una violenta sovrapposizione di funesti ruggiti di sottofondo rende il vuoto contesto dell’aere circostante colmo di un’atavica ferocia, prima di subito spezzata dall’alienante introduzione di chitarre dal suono discordante opportunamente supportate da una ritmica spossante e cadenzata. Lo screaming roco e massiccio si alterna ai terrificanti biascichi sospirati, dando vita alla penosa narrazione di un sole in decadenza, la cui luminosa superficie non può altrimenti dirsi se non cibo per le locuste (si confronti, a tal proposito, l’inquietante soggetto dell’art-work di copertina). Segue Black Ashen Aurora, traccia ancora una volta impostata su un caotico guazzabuglio sonoro che, da principio privo di senso, coniuga, invece, una serie di toni in discrepanza, il cui indubitabilmente faticoso approccio psichico non manca di fiaccare a dovere ogni aspettativa di una qualche, seppur minima, linearità. Le Perdu Du Novembre è un brano strumentale in cui la sezione ritmica si fa sempre più assillante: l’incalzante girandola dello squilibrio non fa che avvolgere ogni cosa sino all’avvento di un dolce e anelato oblio, gentile dono dei commoventi arpeggi finali. Ma l’iniziazione continua ed ecco appressarsi le note di Ascension To Cursed Waters, composta ballata dagli accenti visionari prima, intricato viluppo di maglie acustiche poi. Sulla Soglia Dell’Eternità tesse le trame di un cupo racconto di tenebra: ogni partitura è poco più che impenetrabilmente suggerita, ogni parola è poco più che tetramente sussurrata. Ed è la volta del gorgo turbinante di Sons Of Ice che, pezzo tratto dal debutto Blood On Humanity (2002), appare qui, per l’occasione, nuovamente arrangiato e registrato. Chiude l’opus l’introspettiva The Inaccessibile Door: lì dove gli evanescenti mormorii di un’esangue percezione ancora si trascinano nel tiepido crepuscolo dell’anima, prima dell’ultima, ferale cavalcata finale.

Ricapitolando: a farla da padrone è il suono pulito delle chitarre che, profondamente malinconiche e riverberate, stagliano i loro echi su una serie di ritmiche variegate che, tra il furioso e il rallentato, creano i presupposti di un clima ora ipnotico, ora martellante, ora oppressivo. La reale presenza della batteria e delle percussioni ha permesso al suono definitivo di guadagnare il calore di quell’imperfezione che, tipicamente umana, si distacca dai tocchi freddi e monotoni della drum machine, il cui impiego è chiaramente riscontrabile sino al precedente The Tortoise Boat. Penetranti i suoni di basso, tutti ben racchiusi in infiniti giri dal mood magnetico. E, infine, qua e là, una voce che, tra robusto scream e miserabile bisbiglio, canta prostrata di rabbia e di annichilimento. Su tutto, un sobrio uso, a sprazzi, dei synth e una produzione che, pur non eccessivamente curata e a tratti sottotono, non si può dire che non sia maturata rispetto alle sonorità esperite nell’ambito degli scorsi lavori. La parola d’ordine rimane comunque: acustiche discordanti e in apparente squilibrio.

Eccezion fatta, quindi, per una certa uniformità nell’utilizzo di taluni suoni nonché per la presenza di atmosfere, a volte, eccessivamente appesantite, i Laetitia In Holocaust non deludono le attese: già sospesi tra genio stralunato e lucida estraneità, quel che, forse, potrebbe ancor meglio evidenziarne le potenzialità, sarebbe una più decisa trascendenza dei loro stessi cliché, in altre parole, un consapevole superamento dei propri limiti al fine di sfiorare l’infinito.

Chiude il booklet la splendida immagine della caduta di Lucifero realizzata dal celebre illustratore francese G. Doré per il Paradise Lost di J. Milton: e come non considerare tale visione un chiaro monito a chi voglia spingersi nei foschi meandri tracciati dai nostri? Quasi a dire: non s’inoltri chi non sia disposto, con il rischio di perdere se stesso, ad abbattersi, schiantandosi miseramente…



VOTO RECENSORE
75
VOTO LETTORI
61.07 su 39 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2011
Autoprodotto
Black
Tracklist
1. Dialogue With The Sun (White Lions Rising)
2. Black Ashen Aurora
3. Le Perdu Du Novembre
4. Ascension To Cursed Waters
5. Sulla Soglia Dell’Eternità
6. Sons Of Ice
7. The Inaccessibile Door
Line Up
S – Vocals, guitars, noises
N – Guitars, Bass
O – Drums and percussions
D – Guest on synthesizer
 
RECENSIONI
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