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Bitches Sin - Predator
( 2605 letture )
Protagonisti di una direzione creativa che molti critici definiscono “inconsistente” -e tralasciando per un momento l’impatto di un nome non certo adatto al grande e composto pubblico britannico- i Bitches Sin non sono riusciti a lasciare un segno all’interno della New Wave of British Heavy Metal, tanto che nemmeno Wikipedia li annovera oggi tra le band più influenti del periodo. Il cosiddetto movimento NWOBHM era influenzato dal punk rock e rappresentato da gruppi come Judas PriestIron Maiden e Motörhead, i quali rivitalizzarono l'heavy metal rendendolo più veloce e semplice, e ponendosi al contempo in modo più deciso e minaccioso. Diversi gruppi emersi in questa ondata iniziarono a differenziarsi dai canoni degli anni settanta, spesso abbandonando gli elementi di stampo hard rock e le influenze blues che avevano caratterizzato il genere nel primo periodo: mentre l’heavy delle origini poneva le sue radici nel blues e nel rhythm & blues, a partire dai tardi anni settanta il metal cominciò a venire identificato con uno stile ed un'identità propria, raggiungendo la massima definizione di genere. E’ nel pieno corso di questa evoluzione/trasformazione che i Bitches Sin si formano, nel nord dell’Inghilterra, sulle ceneri di altre band attive nell’underground, concentrandosi da subito su composizione e registrazione, ponendo dunque in secondo piano l’attività live e producendo un demo su cassetta (Twelve Pounds and No Kinks) di sette tracce da sottoporre ad etichette discografiche e radio locali. La strategia si rivela vincente, e mentre la Neat Records dà alle stampe un singolo (contenente Always Ready e Sign of the Times), la Heavy Metal Records inserisce la canzone Strangers on the Shore nella compilation Heavy Metal Heroes, regalando alla band un riconoscimento di pubblico e critica tra i più importanti dell’intera carriera.

Successivi cambi di line-up ad opera dei talentuosi fratelli Toomey ed assestamenti mai del tutto metabolizzati dal resto del gruppo sono le traballanti premesse per l’album oggetto di questa recensione: con natali così travagliati, il povero Predator ricevette critiche in gran parte negative per via della qualità altalenante delle nuove canzoni, unita ad una riproposizione non sempre convincente del vecchio materiale. E dire che l’opener April Fool, piuttosto che un pesce primaverile, è un buon blues roco e cadenzato che risente delle influenze del decennio precedente, carico di fatica rock, di gavetta e di voglia di affermazione, interpretato con tono graffiante e malizioso alla Zodiac Mindwarp, e con solo qualche schitarrata a legittimarne la partenogenesi rock. La canzone propone una ripetitività rassicurante, che trova nell’ascolto su vinile la sua espressione migliore: l’andamento ciclico richiama l’ossessivo movimento del disco, con la testina oscillante su un mare di plastica nera che dal primo solco si accentra, con movimento lento ma inesorabile, verso il vortice centrale del lato A. Dopo il fugace intermezzo di Haneka (un minuto e mezzo di Clash e Sex Pistols traboccante di ritornelli e assoli, dedicato alla presentatrice radiofonica olandese Hanneke Kappen), arriva, come ci si aspetta, Runaway a spingere sull’acceleratore. Nonostante la voce più pulita, il tempo è davvero veloce, su regimi Hawkind/Motörhead, e la canzone suona bella e fragile come un prototipo, tanto semplici e schematiche suonano le parti che la compongono, quasi messe alle strette da una velocità inedita per l’epoca: solo le chitarre fulminanti dei fratelli Toomey paiono a proprio agio, rivelandosi dopo pochi minuti di ascolto come la main attraction di questo circo, totalmente incuranti del tempo sul quale vengono invitate ad esprimersi. Lady Lies, condotta efficacemente dal basso di Martin Orum, ha influenze da grande festival prog rock: più curata ed ariosa nonostante i neanche tre minuti di esecuzione, la canzone è zeppeliniana, partecipata da tutti i musicisti e stratificata nel fondersi delle parti, con un cantato che riesce ad essere espressivo e coerente col tessuto della canzone. Portatrice sana di influenze che spaziano dai Blue Oyster Cult ai Deep Purple, Dirty Woman è l’espressione più riconoscibile della NWOBHM, con un continuo stacco di batteria che si fa, insieme al basso, riff portante di una canzone che comincerebbe a suonare davvero metal se riproposta con sonorità attuali. Questo nuovo modello viene all’epoca considerato heavy metal puro, laddove la purezza sta ad indicare la frequente assenza di contaminazioni derivanti da altri stili di musica, contrariamente alle scelte operate dalle prime band del genere: la chitarra svetta ad ogni occasione, il senso del ritmo è prevalente e si ha l’impressione di una tensione artistica che trascende il contributo del singolo.

Le danze, capovolto idealmente il vinile, riprendono con una Fallen Star nella quale si avvertono grinta, gusto per la ricerca del riff e della sonorità tipica di ogni strumento che ancora definiscono la musica di oggi. La sensazione è quella di una vitalità artistica straordinaria, di una presenza scenica sicura e dirompente all’interno dei programmi musicali della TV inglese, ideali Discoring d’Oltremanica dove una musica del genere era davvero in grado di far strabuzzare qualche composto sguardo abituato alla programmazione istituzionale della BBC. Proprio questo progressivo distacco dall'hard rock, oltre a delineare una nuova forma di heavy metal classico, permetterà lo sviluppo di nuovi derivati dallo stile ancora più estremo: gli anni ottanta infatti segneranno il periodo in cui la musica heavy metal comincerà a diramarsi, e da questo momento si avvertirà l’esigenza di utilizzare l'espressione "classic" o "traditional heavy metal" per distinguere lo stile originario dai nuovi sottogeneri (pop/lite metal e lo speed/thrash metal) da esso derivati. Il tapping iniziale di Strangers on the Shore, il mini assolo iniziale di chitarra ed il ritornello servito dopo poche battute ci parlano di una band interessata all’impatto veloce, alla prima impressione per la quale non c’è mai una seconda occasione piuttosto che all’elaborazione eccessiva, decisa a recidere i legami con certe derive intellettual/sperimentali del decennio precedente e desiderosa di passare al sodo, con attitudine pratica ed in un certo senso commerciale. In anni di accessori magici e jeans attillati, di Margaret Thatcher “lady di ferro” al suo primo mandato e di sanguinosa guerra alle Falklands, il tempo comincia a scorrere più velocemente con Internet di lì a poco ed una quantità annichilente di nuove tecnologie dietro l’angolo. I Bitches Sin sembrano avvertire per primi questo cambio di passo con una musica che -spesso nell’arco inferiore ai tre minuti- cerca di non farsi mancare nulla, di proporre brani completi, incisivi, auto concludenti: a testimonianza di una progressione maturata nel corso della tracklist, Riding High raggiunge un ottimo equilibrio tra le immagini cinematografiche evocate, strofe di facile presa (I need you, I need what you do to me), ed un fresco incedere da jukebox per il quale la canzone è un continuo rincorrersi di parti cantabili, assoli coinvolgenti, stacchi di batteria e ritornello riproposto fino al punto da diventare forzatamente assimilato e cantabile. La conclusiva Aardschok -terremoto, dal nome del programma radiofonico olandese- conferma il trend positivo chiudendo l’album all’insegna di una velocità nella quale la band riesce finalmente a tessere trame più elaborate, alternando intelligentemente parti più tirate a bridge a tempo raddoppiato durante i quali introdurre la sfumatura, la complessità minima, la pressione compensata, secondo un primordiale concetto di varietà del quale solo in futuro, all’aumentare spropositato dell’offerta, si sarebbe avvertita così forte l’esigenza.

Predator, al di là delle vicissitudini che ne hanno tormentato la genesi e della valutazione finale sulla qualità delle singole tracce, è un album capace di rendere con efficacia lo spirito del suo tempo: è un disco nel quale la voglia di fare ed arrivare è travolgente, feroce, sfidante. L’alta velocità alla quale viaggiano alcune delle canzoni più significative è allo stesso tempo limite e vocazione, autoconsacrazione e castrazione, fatta apposta per esaltare le doti tecniche dei fratelli Toomey ed affossare le velleità degli altri componenti della band: Predator è un insieme di pulsioni, un’ingenuità grintosa, un concentrato di energia e di coraggio ed un continuo viaggiare oltre le proprie possibilità, che trova nella sua palese incompiutezza l’espressione più incontaminata e compiuta del vivere heavy metal.



VOTO RECENSORE
73
VOTO LETTORI
33.31 su 19 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
1982
Heavy Metal Records
NWOBHM
Tracklist
1. April Fool
2. Haneka
3. Runaway
4. Lady Lies
5. Dirty Woman
6. Fallen Star
7. Strangers on the Shore
8. Looser
9. Riding High
10. Aardschok
Line Up
Antony Tomkinson (Voce)
Ian Toomey (Chitarra)
Peter Toomey (Chitarra)
Martin Orum (Basso)
Mark Biddiscombe (Batteria)
 
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