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Drudkh - Eternal Turn Of The Wheel
( 7080 letture )
Quando ho scorso per la prima volta la mail in cui Alice mi aggiornava sulle mie assegnazioni sono trasalito. Avevo letto, in mezzo ad altri nomi, sei lettere gravide di significati, D-r-u-d-k-h. La band ucraina che, dalla metà degli anni duemila è apparsa magicamente, come un’entità eterea, sulla scena black.

Un gruppo il quale nella sua decennale carriera ha inciso capolavori indiscutibili, penso ad Autumn Aurora con il suo retrogusto burzumiano, oppure l’evocativo Song Of Grief And Solitude, non un picco della loro creatività, ma decisamente un esperimento dal risultato positivo. Quattro ragazzi che però, due anni orsono, hanno accusato un attimo di mancamento, di deliquio, dando alle stampe il discusso Handful Of Stars, poco compreso, poco valutato, -non a torto-, in quanto segna un periodo controverso del percorso artistico dei conterranei dello scrittore Gogol, addirittura impegnati, pochi mesi dopo, sotto altro vessillo, nel concepire un lavoro, si auspica unico, di conclamato post-rock, quasi avessero smarrito le radici. Faccio riferimento al debole Tales Of Wanderings, cucito addosso agli amanti delle atmosfere sognanti di casa Alcest (non a caso, Neige è stato chiamato a collaborare). Nel complesso, tale levità compositiva, tale atteggiamento trasognato, che han innalzato il francese al successo, suonano grottescamente parodiate, stereotipate, prive di mordente.

Questi plateali passi falsi sembravano assumere le sembianze di prodromi di un declino inarrestabile, di una metamorfosi ineluttabile. Comprendete quindi il mio sconforto.

Ed invece, come accade sovente, il nuovo prodotto di casa Drudkh è un salto nel passato glorioso, lambendo le sponde di un mondo vagamente accennato. E’ tornata la malinconia, quella autentica. Le chitarre hanno occupato nuovamente un posto di rilievo, il gemito delle foreste slave ha ricominciato a stormire in mezzo alle foglie primaverili.. Un lavoro insospettabilmente denso, ricco di sfaccettature, in grado di resistere all’ingiuria del tempo, nel quale l’esperienza con il multiforme universo del post è stata metabolizzata fruttuosamente, conducendo il combo ad attingere sì schemi prelevati dall’esterno, ma a rielaborarli con spirito critico. Rallentamenti, attimi di estasi, arpeggi ornati da un leggera distorsione, sono perfettamente amalgamati con il nucleo centrale composto da materiale tipico del modo di suonare black metal degli ucraini, che comunque non ha mai fatto dell’impatto frontale un punto cardine della sua proposta.

Concentriamoci ora su un particolare: le linee di tastiera. Grande sforzo è stato profuso dai membri della band per convogliare attraverso la musica il sentimento della decadenza, di quella sensazione di straniamento dovuta ad un confronto impietoso fra il proprio ideale e la realtà circostante. Ciò, tuttavia, non poteva risultare efficace senza l’apporto degli ottantotto tasti: essi disegnano, con circospezione e sommo gusto estetico, semplici temi dalle scarse variazioni, i quali potrebbero sembrare un mero sfondo su cui inscenare il dramma degli altri strumenti. Tutto il contrario: eliminate la voce tonante del basso, compagno fidato delle keys, e l’armonioso contrappunto dei tasti bianchi e neri, e l’album vedrà disgregarsi la sua carica emotiva. Di colpo diverrà pallido, smorto. A nulla serviranno i tentativi di rianimazione da parte degli ottimi riff partoriti dal quartetto: la tastiera è Yggdrasil, l’albero della vita. Prendete ad esempio la traccia Farewell To Autumn’s Sorrowful Birds, per constatare quanto teoricamente detto nelle precedenti righe. Un’ulteriore menzione al quattro corde: è alquanto raro scoprire dietro al muro sonoro delle chitarre, un operato del basso svolto con estro. Spesso esso è un elemento di contorno, un “supporto”, ma difficilmente il suo ruolo va oltre ad una ripetizione pedissequa della linea imposta dalla sei corde. Qui invece, connettendosi con una tradizione di dischi di spessore, penso a Bergtatt degli UIver, ad Ashes Against The Grain degli statunitensi Agalloch, - uscendo dalla nicchia di appartenenza sovviene alla mente La Masquerade Infernale (specialmente Painting My Horror) degli Arcturus -, il basso svolge un compito quanto mai fondamentale. Non solo stende un tappetto essenziale per coprire i buchi lasciati dalle chitarre, non solo aiuta nell’arduo compito di scandire il tempo le percussioni, ma si comporta da realtà a sé, da strumento autonomo. Ci vuole una discreta personalità musicale per potersi permettere una soluzione di tal fatta.

Se prendiamo in considerazione gli episodi qui proposti bisogna cogliere immediatamente l’organicità dell’opera, partendo dal delicato intro strumentale, per giungere al ruscello che guida l’ascoltatore all’interno di Breath Of Cold Black Soil, per terminare con il gracchiare di un uccello malaugurante, poco prima di Night Women Of Snow, Winds And Grey-Haired Stars. La figura che rievoca il plot intero è il ciclo delle stagioni, nella sua rigorosa ripetizione, che tanto fiducia dava ai nostri antenati. Successivamente ci si rende consci del significato della ruota presentata nel titolo: l’uomo, nella sua corporeità è destinato a trapassare, nel processo di liberazione, mentre la Natura è schiava di se stessa, della sua bellezza obbligata ogni anno a ripetersi, a morire, a rigenerare, a morire ancora, a fiorire ancora. Un fato intriso di sofferenza, di rassegnazione. Così, in questo contesto, ci si imbatte in accelerazioni rabbiose, incentivate dal furioso doppio pedale, in arpeggi distorti, in cui il volto rigato dalle lacrime delle ninfe primaverili, pianto scaturito dalla vista del mortifero autunno, appare in tutta la sua folgorante drammaticità, momenti di completa immobilità, arricchiti da scarni accordi di tastiera. Importante diventa quindi il luogo dove si assapora Eternal Turn Of The Wheel: le sensazioni scorreranno impetuose se vi premurerete d’essere in contatto diretto con la Natura, con l’ambiente circostante, assolutamente controproducente (e svilente), dedicarsi all’opera rintanati in ufficio o in casa.

Calandoci nel lato pratico del disco, difficilmente si sarà in grado di additare un difetto assoluto. Sia la durata impegnativa delle canzoni, sia alcune scelte stilistiche, che la produzione, “vellutata” come nei primi lavori, presentano dei punti da cui si potrebbe muovere un attacco, senza dubbio, ma questo non troverebbe territorio troppo fertile. E’ palese infatti la crescita interiore del gruppo, capace di porre rimedio ad un suo precedente “errore”, ed inoltre di presentare e difendere la propria via di pensiero portando argomenti validi. Certamente due tracce sfioranti i dieci minuti piazzate in apertura non sono un esordio semplice da gestire o da, magari, giustificare. I Drudkh, al contrario, lo fanno apparire come assolutamente necessario, ineludibile. Senza quel tipo di produzione, molto rotonda, molto piena per quanto riguarda i suoni, il concetto immanente del disco incontrerebbe più d’una difficoltà a trapelare. Lo stile che si avvicina pericolosamente alla scena statunitense è un’ammissione in cui, viene reso un omaggio: gli esempi americani che propongono una visuale affine agli ucraini sono coloro che interpretano meglio quanto desiderano comunicare i nostri.

Come al solito, nulla da eccepire riguardo alla preparazione strumentale dei componenti del gruppo. Dopo dieci anni (almeno) di esperienza, i nostri hanno raggiunto completa padronanza del mezzo espressivo, che oramai assomiglia ad un prolungamento dei loro corpi.

In conclusione, non lasciatevi scoraggiare dal lavoro antecedente: molta strada è passata sotto le suole dei Drudkh, e molto del loro modo di scrivere musica è riemerso prepotentemente dall’istante di black-out mentale. In aggiunta, la band ha saputo, con encomiabile onestà intellettuale, riconsiderare il recente passato, cogliendone i lati, a mio avviso, migliori. Probabilmente se la fuga nella dimensione post-rock non fosse mai avvenuta, Eternal Turn Of The Wheel suonerebbe in modo radicalmente diverso. Riassumendo in breve: il sublime naif degli inizi interpretato dalla maturità del presente.



VOTO RECENSORE
86
VOTO LETTORI
61.32 su 28 voti [ VOTA]
andy usurper
Lunedì 5 Ottobre 2015, 17.32.31
8
Disco meraviglioso ,tornati alle origini,con quella classica malinconia stupenda,impenetrabile e sognante che ha fatto capolavori come Autumn Aurora,stupendo e gli si avvicina molto,pur odiando i numeri,un bel 90 ci sta tutto a questo gioiello!
marco
Martedì 8 Gennaio 2013, 19.08.02
7
Sono molto contento di questo cd secondo me e' tra i piu' belli. Perche' questi sono veri ( metallari ) ..
Bloody Karma
Venerdì 18 Maggio 2012, 10.05.18
6
disco decisamente pessimo...incasinare un po' il suono non vuol dire ritorno alle origini, quando poi manca la materia prima dei brani...si arriva a fine disco se aver in mente un singolo riff o melodia del disco, e per un disco del calibro dei Drudkh è una offesa alla storia della band...flop dell'anno...
Le Marquis de Fremont
Martedì 3 Aprile 2012, 15.58.31
5
Decisamente, fino ad ora, l'album dell'anno, assieme agli Swallow the Sun e ai Lunar Aurora. Un graditissimo ritorno alle origini, nei temi legati alla natura e alle stagioni (come attentamente citato nella recensione) ma sopratutto nel sound. Strepitosi gli ultimi tre pezzi, con Farewell To Autumn’s Sorrowful Birds su tutte. Mi piace molto poi, l'accostamento agli Agalloch (con le dovute distinzioni, eh...) un'altra delle mie band mito. Ottima anche la recensione. Adesso fa un po caldo ma provate a immaginare di camminare su una distesa di neve al crepuscolo...
Kryptos
Lunedì 2 Aprile 2012, 12.40.41
4
A me ha fatto abbastanza pena...
Bloody Karma
Lunedì 2 Aprile 2012, 12.02.51
3
in attesa di poterlo ascoltare...ma mi hanno detto in molti che c'è stato un piccolo ritorno alle origini...staremo a vedere...
ftb
Domenica 1 Aprile 2012, 9.38.50
2
le foto sono fake.
enry
Sabato 31 Marzo 2012, 11.22.38
1
Voto un po' alto ma sono d'accordo, buonissimo disco, decisamente migliore del precedente. Uno dei migliori della loro ormai nutrita discografia.
INFORMAZIONI
2012
Season of Mist
Black
Tracklist
1. Eternal Circle (intro)
2. Breath Of Cold Black Soil
3. When Gods Leave Their Emerald Halls
4. Farewell To Autumn’s Sorrowful Birds
5. Night Women of Snow, Winds And Grey-Haired Stars
Line Up
Krechet (bass, keys)
Vlad (drums, keys)
Roman Saenko (guitars, bass)
Thurios (vocals, keys)
 
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