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Vagrant God - Vagrant God
( 2595 letture )
Un addio può essere molto doloroso, può portare con sé una seppur fievole speme di ricongiunzione, ma se è eterno non può che essere triste e gelido, non può non impregnarsi di copiose e struggenti lacrime. Abbiamo mai provato ad immaginare come sarà quel giorno, in cui abbandoneremo le spoglie mortali e ci distaccheremo per sempre dagli affetti più cari? Questa è una delle immagini che ci vengono qui proposte, che ci offrono una possibile visione di quello che, volenti o nolenti, prima o poi purtroppo ci aspetterà. Il viaggio si traduce in un lento procedere lungo i viali di un giardino, sotto lo sguardo impietoso di migliaia di tetre statuette. Tutto intorno c’è un gran silenzio, ma non c’è pace. Disperatamente invochiamo lo sguardo e l’attenzione delle persone care, chiediamo se sono in grado di scorgerci dalla soglia di quel mondo che stiamo per abbandonare, ma riusciamo ad udire solo un immenso, crudele silenzio. E’ la fine, giacciamo lungo questo viale indorato d’autunno, le foglie cadenti sembrano lacrime che accompagnano il nostro dolore, ma non c’è consolazione per questo gelido e affranto addio.

E’ passato solo un anno (a pensarci sembra quasi un’eternità) da quando per la prima volta mi imbattei in un simile scenario di desolazione e contrizione, modellato dallo stesso trio norvegese (Langlie - Ottersen - Simonsen) per alimentare un’irrefrenabile fame di tristezza e malinconia (tradotte in versi e note) che inesorabilmente regna dentro alcuni di noi. Badate bene, dallo stesso trio ma non dalla stessa band. C’è chi nella vita, e quindi anche nella musica, decide di indossare una veste in cui in qualche modo riconoscersi ed identificarsi, mantenendo testardamente quello stile nel tempo, perché quello è un marchio di fabbrica, punto e basta. Altri, piuttosto, non temono il cambiamento, né si creano remore nel riplasmare le proprie creature. Come sempre, c’è chi accoglierà il cambiamento con favore elogiando il coraggio ed il potere della sperimentazione, c’è chi non apprezzerà e magari con determinazione sentenzierà che quella band ormai non è più degna di essere seguita o, come si suol dire, è finita o addirittura “morta”.
Il trio sceglie invece di seguire una strada diversa, simile a quella a volte percorsa da altri artisti nel passato, cioè creare più progetti paralleli, ciascuno dei quali abbia una precisa identità, in modo che chi vi si approcci sappia esattamente cosa aspettarsi, ma, nello stesso tempo, in modo che i musicisti abbiano la possibilità di esprimere la loro creatività sotto forme differenti che soddisfino le loro diverse inclinazioni, cosa peraltro abbastanza naturale quando si proviene da una terra così ricca di storia e spunti da cui attingere.
Ciò premesso, l’album uscito l’anno scorso e realizzato dalla stessa line up si chiama Repose, mentre la band era quella degli Omit, dedita ad un melodic doom ritagliato su una cornice prettamente sinfonico/classica. Nel corso di quest’anno, nel frattempo, il duo Langlie - Simonsen, stavolta sotto le spoglie degli Havnatt, ha inciso l’EP Havdong (in realtà in gran parte una rivisitazione di un demo risalente al 2006), totalmente in lingua norvegese e di ispirazione folk.

Ma parliamo finalmente dei Vagrant God. Il nome dice niente? Qualcuno di buona memoria forse ricorderà che questo era il titolo della quinta traccia di un memorabile disco gothic doom, ossia From These Wounds dei Funeral. Non credo sia un caso, dato che a comporre quella traccia fu proprio lui, Kjetil Ottersen, poli-strumentista e compositore di tutti i testi del disco qui in esame. Lei è Cecilie Langlie, anche nota come vocalist degli Skumring (gruppo melodic doom cui da qualche anno si è unito anche l’altro, Tom Simonsen). Vagrant God fu il primo project messo in piedi da Cecilie e Kjetil dopo la dipartita di quest’ultimo dai Funeral (e dal loro side-project Fallen), e l’album omonimo qui presentato fu il primo lavoro partorito dal trio. Direte voi: ma come il primo? Non aveva premesso che questo album esce un anno dopo Repose? In effetti è vero, ma bisogna tener conto del fatto che Vagrant God era stato inizialmente concepito e registrato a partire dal 2007; avrebbe dovuto essere pubblicato a suo tempo, ma la casa discografica che lo aveva in qualche modo commissionato pare non sia stata in grado di mantenere gli accordi. Col senno di poi, credo che fu questo uno dei principali motivi che spinsero i due a fondare una casa discografica (di cui sono ad oggi co-proprietari insieme a Tom), vale a dire la Secret Quarters. Del resto questo ha permesso di incidere finalmente il lavoro a suo tempo svolto per Vagrant God (oltre che di finalizzare anche quello del progetto Havnatt).
L’album omonimo dei Vagrant God, uscito nel 2012, è il frutto di una rimasterizzazione, di alcuni tagli e cambi nella track list, ma fondamentalmente è stato concepito già cinque anni prima; un ritardo che, ad ogni modo, per fortuna non è stato di entità tale da aver reso anacronistica la proposta.

Di che si tratta, nello specifico?
Per lo stile che lo caratterizza, l’album è per lo più inquadrabile in ambito gothic, con un ritmo ed un riffing in genere abbastanza dinamici, le tastiere che fanno da cornice viva e fluente, la voce di Cecilie Langlie che di solito conduce con energia e candore, mentre quella di Tom Simonsen fa da sporadico controcanto. Ovunque riecheggiano influenze spiccatamente doom ed è straordinario come la voce di Cecilie riesca a donare chiarore, brillantezza e fascino ad una cornice costruita su arrangiamenti classici e pregevoli finiture al synth, fustigate da tonanti heavy riff in primo piano o, piuttosto, dagli echi degli stessi in lontananza.
Un elemento di interesse, che contribuisce a rendere particolarmente vivo e dinamico l’approccio, è costituito dall’alternanza tra sezioni eteree, liquide, affidate ai vocalizzi o ai sussurri di Cecilie, a tenui arpeggi acustici o a veli al synth, e sezioni più energiche caratterizzate da sprazzi di riff distorti particolarmente incalzanti e dagli harsh vocal su toni medi di Tom, il tutto dal retrogusto vagamente nu-metal.
In alcuni brani (come ad esempio Ocean Bed) la voce di Tom è del tutto assente e onestamente non se ne sente particolarmente la mancanza, dato che Cecilie riesce perfettamente ad accompagnare i momenti di maggiore intensità con esternazioni più veementi ed un cantato quasi spiritato ma sempre ricercatamente aggraziato. Del resto, rispetto ad Omit, qui lo schema è meno rigido e Cecilie ha la libertà di spaziare maggiormente da un’impostazione classica ad un più sciolta, naturale ed a momenti perfino relativamente più aggressiva. Nei dialoghi domina indubbiamente la voce di lei, mentre quella di lui non entusiasma particolarmente e la sua impostazione a volte sembra francamente fuori dal contesto (chissà quale sarebbe stato il risultato se, invece, Kjetil avesse rispolverato l’intenso strumento baritonale che la natura gli ha donato…). E’ innegabile, tuttavia, che in alcuni momenti e, ad esempio, in brani come The Pathos Weavers (che si fa ad un certo punto ripetitivo mantenendosi per di più anche mesto e poco incisivo), la sferzata groove di Tom è assolutamente necessaria e quanto mai azzeccata.

Se è vero che gran parte del disco si potrebbe inquadrare in ambito gothic con echi doom e brevi sprazzi nu-metal (o alternative metal), è altrettanto vero che i punti di maggiore interesse, almeno per il sottoscritto, sono quelli che si avvicinano maggiormente ai classici tratti melodic doom di Repose, seppur con una sostanziale differenza, vale a dire il fatto che in questo caso i brani sono moderatamente più veloci (in quel caso i tempi erano molto dilatati) e decisamente più brevi. Così, nella parte centrale dell’album sono raggruppate alcune tracce che probabilmente gettarono il seme per il successivo progetto Omit, in particolare In My Failings e soprattutto la splendida To The Garden, da cui, tra l’altro, è estratto il tema di apertura della recensione. Qui sono particolarmente ampi i momenti in cui i tempi si dilatano, doom riff rimbombano dallo sfondo accompagnando linee melodiche decadenti e crepuscolari in primo piano, ma, soprattutto, l’interpretazione del mezzo soprano Cecilie si fa più aulica e trascendente, si carica di immensa desolazione e glaciale sensualità. Apro e chiudo immediatamente una parentesi per affermare, con una certa sicurezza, che ci troviamo qui di fronte ad una delle voci più emozionanti del genere, forse ancora non conosciuta come altre illustri vocalist conterranee che l’hanno preceduta (Kari Rueslåtten, per fare un esempio), ma certamente degna di ereditare e dar lustro ad una così ricca tradizione.

Nutro un moderato disappunto, di contro, per l’approccio scelto in Birds of Leaving, che è più solare, vivace, buona per spezzare certi impulsi malinconici, ma costruita su un suono più aperto, melodie più catchy, su un cantato più leggero e meno impegnato, tutti aspetti che spingono il brano su rive pop rock solo lontanamente “gothicheggianti”. Fortunatamente il compito di seguire e chiudere il platter è affidato a Mentor che, con il suo incedere risoluto e regale, con i suoi gradevoli arrangiamenti ad archi, riporta il tutto su binari più consoni.

Per concludere direi che il suono è ben definito e la produzione è notevole (sarebbe interessante fare il confronto con le versioni originali, da cui potrebbe anche emergere un lavoro di re-editing non indifferente). La qualità del songwriting è buona, si avvicina all’ottimo ma a mio avviso richiede qualche revisione, ad esempio nello stile di canto maschile o nel ricorso a soluzioni più scontate (come in Birds of Leaving, per intenderci). Dietro a tutti gli strumenti c’è un immenso lavoro da parte di Kjetil Ottersen, cui va certamente riconosciuta una grande cura degli arrangiamenti e perfino un’accurata programmazione della drum-machine. Se Vagrant God fu l’inizio del sodalizio tra Kjetil e Cecilie, se Repose ne rappresentò lo straordinario sviluppo in ambito melodic doom, tracciando una retta che passa per questi due punti l’andamento qualitativo non può che essere lievemente crescente. Attendiamo quindi di conoscere ulteriori sviluppi, fiduciosi che il trend positivo possa proseguire nel tempo.
Nel frattempo, non posso che consigliarvi il gradevole ascolto di questo album. In alternativa, sappiate che, tanto per ricordarci che in realtà Vagrant God, Omit ed Havnatt sono facce della stessa medaglia, è in uscita un album triplo contenente i loro lavori insieme. Chi non avesse ancora avuto modo di ascoltare Repose degli Omit si precipiti all’acquisto di questa edizione, lo consiglio vivamente. E’ un’esperienza in cui bisogna immergersi almeno una volta, un ascolto certamente impegnativo all’inizio, ma che acquisterà valore nel tempo e scoprirete che, in certi momenti, ne sentirete davvero il bisogno, parola del sottoscritto!



VOTO RECENSORE
74
VOTO LETTORI
87.66 su 3 voti [ VOTA]
Undercover
Lunedì 17 Settembre 2012, 15.43.52
1
Gran bel disco, a me onestamente l'episodio più scanzonatello è piaciuto, l'avessero fatto quei segoni dei Lacuna Coil un album così sarei stato l'uomo più felice del mondo, invece la differenza di cifra artistica fra questi tre e i nostrani è gigantesca in tutti i sensi iniziando dalla voce, Cecilie come dici giustamente nella recensione è una delle migliori cantanti che ci siano odiernamente all'interno di questo mondo. Sul voto mi tengo 5 punti più alto attendendo un secondo capitolo che farò mio di certo.
INFORMAZIONI
2012
Secret Quarters
Gothic
Tracklist
1. Perfect Innocence
2. Stigma
3. Ocean Bed
4. To the Garden
5. In My Failings
6. The Pathos Weavers
7. Insignia
8. Birds of Leaving
9. Mentor
Line Up
Cecilie Langlie (Vocals)
Tom Simonsen (Vocals)
Kjetil Ottersen (Guitars, Keyboards/Synth, Drum Programming, Backing Vocals)
 
RECENSIONI
 
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