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02/11/24
EREGION
HEADBANGERS PUB, VIA TITO LIVIO 33A - MILANO
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07/03/2017
( 2536 letture )
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Gli entomologi dediti allo studio degli aracnidi avevano lanciato l’avviso, attenzione alle strategie del ragno trappola… nascosto appena sotto la linea del suolo, mimetizzato tra terra e fogliame, con il solo addome intarsiato esposto per attirare le prede di passaggio, al momento opportuno ecco che otto zampe letali balzeranno fuori dalla tana ghermendo l’ignaro malcapitato di passaggio. Questo, nella lotta per la sopravvivenza che regola i destini delle diverse specie in natura, è toccato in sorte agli appartenenti alla famiglia Ctenizidae, ragni che hanno rinunciato alla tessitura delle proverbiali tele puntando su un piano più diabolico, per portare a casa il pasto quotidiano. Una specie di questa famiglia, in particolare, ha affinato nei millenni la tecnica, raggiungendo livelli di sorprendente efficienza nel coniugare allettamenti ed agguati, tanto da risultare metaforicamente esiziale finanche per una categoria insospettabile: il recensore sicuro dei propri metri di giudizio. Può capitare, allora, che una penna si accosti con sufficienza e un discreto senso di altezzosità a un dischetto all’apparenza innocuo e, anzi, destinato a una quasi inevitabile stroncatura, tenuto conto degli elementi formali di contorno. Ma, proprio come per gli insetti nel sottobosco, anche per il “critico” è nel momento di maggiore sicurezza e granitiche certezze che scatta inesorabile la trappola dei Cyclocosmia, con l’unica, parziale attenuante che, per far scattare il tranello perfetto, il ragno del pentagramma ha aggiunto il carico da novanta di un’imprevedibile metamorfosi.
Non più tardi di un anno fa, infatti, il debutto del duo aveva lasciato ben più di una perplessità in termini di resa qualitativa e prospettive, regalando, con Deadwood, una prova poco più che canonicamente organizzata intorno ai cliché di un gusto symphonic metallicamente declinato in varia foggia e forma tra doom e gothic (volendosi iscrivere al partito degli ottimisti), quando non stancamente alla rincorsa di scintille creative in faticosa emersione (per chi, all’opposto, non fosse disposto a concedere attenuanti pur in presenza di un’opera prima). Il problema di quei cinquantacinque minuti, a parere di chi scrive, risiedeva soprattutto nella prova della cantante Lorena Franceschini, protagonista di una traversata anonima tra gorgheggi e velleità operistiche dalla coltivazione eufemisticamente poco esaltante e che hanno finito per penalizzare una scrittura pure a volte tutt’altro che corrosa dal tarlo della mediocrità (sui due piatti di un’ipotetica bilancia, possiamo collocare da un lato la monocorde ordinarietà di Faceless o, soprattutto, di Marionette e dall’altro i tentativi di spiccare il volo di una Little Girl Lost). Ecco allora spiegata la circospezione del recensore di fronte al nuovo album, rilasciato oltretutto in forma di EP e con un minutaggio oltremodo contenuto, ma la realtà è che i nuovi Cyclocosmia sono un’altra band rispetto a quella conosciuta nel debut. La novità risiede soprattutto nella dipartita della Franceschini e nell’approdo al microfono di Aliki Katriou, per un risultato che, lo diciamo in premessa, lascia letteralmente senza parole. Artista a tutto tondo, con un background teatrale e cinematografico da entrambi i lati della telecamera (i due video ufficiali estratti da Deadwood la vedevano già protagonista nelle vesti di direttore artistico), docente di canto in una scuola londinese (le piattaforme web di condivisione video hanno reso celebri i suoi trailer per plasmare le ugole in vista di approdi scream e growl, oltre a diverse succulenti cover), la donzella di chiara origine greca marchia a fuoco questo Immured con un carico di personalità davvero straordinario. Del tutto a proprio agio nei passaggi di canto classico/operistico (con un timbro scuro dai sorprendenti riflessi gospel/soul, se ci si concede un azzardo immaginifico), la Katriou osa sfidare sul terreno dell’abrasività vocale nientemeno che maestà dall’affermato lignaggio del calibro di Angela Gossow e Alissa White-Gluz, eguagliate e superate di slancio non solo perché i motori Arch Enemy girano ultimamente un po’ troppo a vuoto, ma anche grazie a una capacità fuori dal comune di regalare sfumature agli elementi spigolosamente graffianti che sono la base del piatto. E’ evidente, peraltro, che il solo ingresso in line up di una cotale medusa artisticamente sospesa tra eteree dissolvenze e contatti urticanti non avrebbe potuto modificare a fondo la natura stessa della band, ma se a questo aggiungiamo un lavoro altrettanto cristallino dell’altra metà del combo, i livelli qualitativi del platter lievitano definitivamente. A sua volta proveniente da retroterra multicolori, in termini di formazione, James Scott sembra qui liberarsi definitivamente dalla (forse inevitabile) zavorra del debut e si lancia in un’esplorazione coraggiosa nei più disparati territori, mantenendo una mano narrativamente saldissima in tutte le stanze aperte e attraversate.
Da questo punto di vista, risulta davvero riduttiva la definizione di “symphonic doom” a cui fa ricorso in verità lo stesso duo per sintetizzare la propria collocazione nelle mappe metal; certo, non mancano le aperture sinfoniche e gli stilemi doom di classica derivazione scandinava, ma il bagaglio si arricchisce in fretta con cavalcate melodic death e splendide incastonature prog e il tutto finisce per trascendere i rigidi confini imposti dall’ansia di catalogazione. A costo di rasentare l’eresia (e chissà, magari di incappare anche nell’ira funesta della band), ci sentiamo piuttosto di individuare nella componente “avantgarde” il tratto distintivo complessivamente più indicato per abbozzare una classificazione, sulla scia di un paio di illustri precedenti come i Vulture Industries di The Tower e i Queensryche di Promised Land, due lavori che hanno raggiunto vette sorprendenti in termini di teatralità dell’impianto. Un palco, un fondale, un manipolo di attori e il golfo mistico in cui collocare l’orchestra magistralmente guidata da Scott, tutto, in questo Immured, si fa rappresentazione, delineando veri e propri atti che si susseguono esaltando la dimensione del concept già evidentissima nel piano di volo complessivo. Si tratta, infatti, della storia di una sacerdotessa di Vesta murata viva nell’antica Roma per aver violato il voto di castità, venendo così meno ai doveri connessi a una posizione che, se da un lato concedeva onori e considerazione sociale, dall’altro comportava dolorose rinunce sul piano della realizzazione personale nel nome di una fedeltà al sacro fuoco di cui erano custodi (senza contare che si “accedeva” al sacerdozio non per libera scelta ma a seguito di un sorteggio tra candidate bambine). Quattro episodi strettamente legati ma ciascuno con tratti spiccatamente caratteristici, Immured si avvia in un’atmosfera rarefatta per metà liturgica e per metà “darioargentiana”, perfettamente funzionale a riprodurre visivamente un’ambientazione sacra e temporalmente mitica in cui prende progressivamente piede un alito horror. Da questo momento in poi i Cyclocosmia danno fuoco alle polveri, a cominciare da un secondo passaggio dove il melodic death piomba sulla scena a turbare un tono intriso di solennità, terreno di incontro ideale per l’intreccio degli scream dei due singer prima che Scott incendi letteralmente l’etere con un assolo magistrale. Un cambio di registro anima la terza parte, segnata da robuste iniezioni prog che rimandano ripetutamente a soluzioni opethiane, mentre Aliki Katriou trova il tempo di esaltarsi tra angeliche astrazioni sinfoniche e lampi luciferini che rendono la tempesta ancora più psichedelicamente abbagliante. Afferrata la barra prog, i Nostri la tengono stretta anche nell’episodio conclusivo, anche se stavolta l’orizzonte (dopo una breve ma squisita divagazione desert) è piuttosto quello dei Dream Theater di una In the Presence of Enemies Pt. 2, ovviamente al netto della genetica propensione alla suite che anima LaBrie e soci e che qui è solo timidamente abbozzata. Un finale solcato da echi acustici, una ripresa del tema principale in chiave melodica, la promessa di ulteriori combinazioni caleidoscopiche, peccato che la clessidra abbia già esaurito i diciassette minuti e, controvoglia (molto, molto, molto controvoglia) si debba scendere... in pieno volo.
Ribadito in premessa che personalmente continuo a ritenere poco opportuno sbilanciarsi in valutazioni (a maggior ragione se impegnative) in presenza di lavori dal minutaggio complessivo poco significativo, credo per una volta di potermi affidare alla magnanimità della corte della coerenza invocando la classica eccezione che conferma la regola. Due grandi artisti, un’emozionante cavalcata tra i generi, una resa multimediale da far invidia a molti professionisti della comunicazione, Immured è un album che lascia il segno e che come tale merita un riconoscimento… a patto e condizione che i Cyclocosmia promettano di tornare a breve, per completare il lavoro che qui hanno così magnificamente messo in cantiere.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Immured, Pt. I 2. Immured, Pt. II 3. Immured, Pt. III 4. Immured, Pt. IV
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Line Up
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Aliki Katriou (Voce) James Scott (Voce, Tutti gli strumenti)
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RECENSIONI |
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