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19/09/24
GIANCANE
ARCI BELLEZZA - MILANO
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24/08/2024
( 730 letture )
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Passati clamorosamente sotto silenzio in Italia fino a oggi, gli Abrams sono in realtà una delle più interessanti band provenienti dagli Stati Uniti. Non certo dei debuttanti, dato che il loro EP d’esordio February risale al 2013 e nel frattempo i quattro di Denver hanno pubblicato quattro dischi, ma è vero che per loro la strada della gavetta è particolarmente lunga e i Nostri stanno cercando di conquistarsi uscita dopo uscita la meritata attenzione. Blue City finisce così per costituire uno snodo abbastanza importante della loro carriera, dopo che il precedente In the Dark era riuscito ad attirare l’attenzione generale, portando alla firma con la Blues Funeral Recordings e alla quinta uscita sulla lunga distanza.
Accostabili in maniera abbastanza “larga” ad altri recenti campioni come i Torche e i Cave-In, gli Abrams sono una band piuttosto irrequieta, che ha variato costantemente la propria formula, incamerando influenze dallo sludge, allo stoner, alla psichedelia, per poi virare abbastanza repentinamente verso post rock, grunge, noise e shoegaze, condite da tonnellate di malinconia e patina emotiva, che potrebbero ricordare anche Hum e Quicksand, nelle stratificazioni di suono e vocali. Come anticipato, il precedente album In the Dark aveva acceso su di loro le luci della ribalta, mostrando una band capace di scrivere delle belle canzoni, con un ampio spettro compositivo e influenze diverse, legate appunto da una costante vena malinconica e grunge, che in più di qualche caso ricordava i primi Foo Fighters, salvo poi andare a toccare anche altre corde, con perizia e qualità. Al di là delle definizioni di genere, quello che colpiva erano appunto brani tutto sommato variegati e semplici, anche se ricercati, che avevano il pregio di restare, di colpire a fondo. Un approccio che Blue City conferma appieno, con una formula che, ancora una volta, muta appena. E’ evidente sin dalla fredda copertina, infatti, che stavolta la coloritura di fondo dei brani è differente e la produzione riflette appieno questa atmosfera più rarefatta e algida. Per converso, il disco è più aggressivo e potente del precedente, con brani più veloci e ritmati, uno strato di chitarre sferraglianti e vicine al noise, che quasi annegano le voci di Amster e Iversen, spesso sovrapposte e la melodia, così presente nel disco precedente, che fatica a uscire, sepolta appunto dai suoni freddi e taglienti delle ritmiche. Peraltro, non mancano le incursioni soliste, anzi di pregevole fattura, che costellano brani che non potrebbero essere più “americani”, rivelando come ormai l’alternative novantiano abbia saputo innestarsi sulla tradizione rock statunitense, diventandone una colonna e contribuendo a svecchiarlo e rinvigorirlo, più che a sostituirlo. I brani sono piuttosto diversificati tra loro e se ad esempio colpiscono i richiami alle sonorità stoner di un pezzone come Fire Waltz e di Wasting Time, comunque grondanti liriche e atmosfere grunge, tracce come la noisy e strepitosa Etherol, la notturna Lungfish, la bellissima Death Om e la spettacolare Turn It Off, dall’irresistibile ritornello, sono dei manifesti alternative imperdibili. Tutta particolare invece l’apertura di Tomorrow, con un brano tiratissimo e che nella sovrapposizione delle voci, nella centralità del basso e nel solismo sfrenato di Zander, potrebbe richiamare addirittura i Jane’s Addiction. Bellissima la struggente Narc, dolente e arpeggiata, con un finale solistico esasperato, che avremmo detto “rovente” non fosse appunto per la patina quasi ghiacciata data dalla produzione e dal mixaggio. Crack Aunt sarebbe un mezzo capolavoro, grazie all’insistito e rumoristico finale strumentale decisamente noise, non fosse per la fin troppo evidente citazione del riff portante che, diciamoci la verità, i Depeche Mode potrebbero trovare appena troppo similare a quello di un loro famosissimo e iconico brano. Blue City cita apertamente quello che è il motivo lirico dell’intero disco, ovverosia il trovarsi in una condizione di fredda e metaforica prigionia emotiva e psicologica che, per incapacità e paura di cambiare finiamo per accettare, trovando un assurdo e paradossale comfort in una situazione che in realtà ci fa stare male. Il brano è la summa del disco, come prevedibile e unisce in maniera perfetta le due anime grunge e post rock/noise della band, chiudendo l’album con una nota dolente che si fa strada nell’ascoltatore, spingendolo a ripartire da capo.
Se il precedente In the Dark era riuscito mirabilmente a risultare ruffiano e al tempo stesso sufficientemente profondo e sincero da colpire e lasciare un segno, Blue City tenta la strada difficile di andare ancora oltre. Più duro, ritmato, spigoloso e tagliente, con la consueta melodia grungy che cerca di imporsi su una base strumentale messa in evidenza dalla produzione e dal mixaggio, il quinto uscito in casa Abrams è in realtà un album che richiede di essere ascoltato e riascoltato, penetrato e capito, concedendo via via sempre più soddisfazione all’ascoltatore, fino a rapirlo del tutto e finendo quindi per sembrare quasi troppo breve nei suoi quarantadue minuti. Non è da tutti alzare la posta quando si cominciano a vedere i frutti del proprio lavoro, senza accontentarsi di una formula che aveva finalmente avuto un minimo quanto vitale successo. Gli Abrams sono una di quelle band e visto che l’azzardo è decisamente riuscito, consegnandoci un nuovo gran bel disco, fatto di dieci gran belle canzoni, tutte diverse l’una dall’altra e tutte meritevoli, non resta che premiare il gruppo e invocare a gran voce l’attenzione generale su di loro. Bravi davvero.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Tomorrow 2. Fire Waltz 3. Etherol 4. Lungfish 5. Wasting Time 6. Death OM 7. Turn It Off 8. Narc 9. Crack Aunt 10. Blue City
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Line Up
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Zachary Amster (Voce, Chitarra) Graham Zander (Chitarra) Taylor Iversen (Basso, Voce) Ryan DeWitt (Batteria)
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RECENSIONI |
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