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30/01/25
BERNTH, CHARLES BERTHOUD E OLA ENGLUND
SANTERIA TOSCANA 31, VIALE TOSCANA 31 - MILANO
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08/01/2025
( 690 letture )
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The revolution we’re talking about on this record is not a political revolution, [and] it is certainly not a militaristic one, which I've never supported. It's a revolution for love. It's a revolution to love your enemies.
1 COR 13:13. Un versetto della prima lettera di Paolo ai Corinzi (riconoscibile nell’angolo destro della bandiera sventolata in copertina) funge da motto per la rivoluzione avviata dagli Skillet, paladini del rock/metal cristiano impegnati in una dura lotta sul fronte etico-sociale contro i nemici della religione. John Cooper, leader e portavoce del gruppo, ha infatti deciso di suonare l’allarme nei confronti delle ideologie legate alla cultura woke e al movimento LGBT, a suo giudizio colpevoli di minare i valori fondamentali del cristianesimo e più in generale delle tradizioni culturali americane. Come devoto padre di famiglia, conservatore e patriota, il vocalist ritiene obbligatoria una battaglia spirituale “per l’anima degli Stati Uniti”, assediati da queste nuove e temibili correnti di pensiero da rigettare non con la violenza ma tramite la fede, la speranza e l’amore, i tre ingredienti principali di una controffensiva ormai non più rinviabile.
Oltre alle parole scritte (il libro Wimpy, Weak & Woke: How Truth Can Save America from Utopian Destruction) John, in veste di “capo dei ribelli”, veicola le proprie idee rivoluzionarie (?) anche nel dodicesimo album della band, il primo uscito per l’indipendente Hear It Loud dopo una lunga militanza nel roaster dell’Atlantic. Forse troppo assorti da questa caccia alle streghe, gli Skillet non hanno riservato la medesima cura ai brani e alla produzione di Revolution, dove a risaltare in negativo è lo stesso J. Cooper, non molto ispirato nel comparto melodico (uno degli abituali punti di forza oltre alla sinergia vocale con Jen Ledger) e al limite dell’ascoltabile nel -per fortuna- ridotto uso dello scream, affannoso e strascicato come mai prima.
A differenza delle precedenti opener (Surviving the Game, Feel Invincible, Rise, Hero…), il rock di Showtime non riesce a pungere né a creare il sentore anthemico desiderato finendo per assomigliare ad una versione indebolita di Legendary. Il modern hard rock del singolone Unpopular colma in fretta tale lacuna e, nel gridare al mondo la sua voglia di non essere più una celebrità (I think today’s a good day to be unpopular), un infastidito e piccatissimo John torna su livelli canori adeguati senza dimenticare il “whatever” e l’immagine del video in cui fa spallucce, riutilizzabile a piacere nell’ambito dei meme o delle GIF. Il mid-tempo con pulsazioni elettroniche di All That Matters declama i tre cardini di una vita basata sul cristianesimo militante (faith, family, freedom) e non avrà difficoltà nel suscitare nuove polemiche, Not Afraid invece recupera il tradizionale modus operandi symphonic/alternative metal che tanta gloria diede negli anni Duemila (da Comatose in avanti) proprio come il metal cristiano dell’ardente Fire Inside of Me, entrambe basate sugli arrangiamenti d’archi di Korey Cooper e sui botta e risposta nei ritornelli tra il singer e la melodiosa Jen.
Le note positive malauguratamente finiscono qui dato che l’omonima Revolution, macchiata da beat e inflessioni rap, è il secondo inno a vuoto designato per i live, il pop rock leggerino di Ash in the Wind (autodefinito un incrocio tra i vecchi Skillet e i Linkin Park) non ricorda né l’uno né l’altro e non si migliora certo nella tripletta conclusiva, aperta dal christian rock della sbiadita Defector e dalla zuccherosa acustica di Happy Wedding Day (Alex’s Song) ma portata a termine dalla quantomeno valida Death Defier, sorta di country rock vitaminizzato inusuale eppure gradevole.
No, brani di questo calibro non alimenteranno la rivoluzione auspicata e saranno pochi i seguaci reclutabili: lontano dal frizzante Dominion e imparagonabile agli album storici, Revolution denuncia un calo vistoso nelle quotazioni degli Skillet, incapaci di sfornare i consueti ritornelli killer, gli anthem da stadio ultra-pompati e ballad degni di tale nome. Criminale si rivela poi il sotto-utilizzo al microfono di Jen Ledger, la cui voce avrebbe dovuto accompagnare (o in alcuni frangenti sostituire…) quella di un John a corto di fiato nel registro harsh e tutt’altro che incisivo in quello melodico. Il numero dodici non porta quindi bene alla “dottrina Cooper”, opinabile e mal trasposta in un deludente full-length di rock semi-alternativo con giusto una manciata di canzoni da inserire nella playlist di turno (Unpopular, Not Afraid, Fire Inside of Me, Death Defier); il resto, condensabile in una risicata sufficienza, verrà dimenticato a favore delle sparate del cantante, non idoneo al ruolo di guida morale nella società odierna.
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2
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Band ormai finita da un pezzo. |
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1
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disco un po\' sospeso tra il rock-country (?) delle ballate e il classico stile skillet.
Rispetto a dominion ho gradito molto la produzione piu´ \"naturale\" (nel precedente l\'effetto \"plastica/finto\" era a mio gusto esagerato).
Non saprei dare un voto complessivo a questo giro; anche se not afraid e fire inside per me sono giá classici |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Showtime 2. Unpopular 3. All That Matters 4. Not Afraid 5. Revolution 6. Ash in the Wind 7. Fire Inside of Me 8. Defector 9. Happy Wedding Day (Alex’s Song) 10. Death Defier
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Line Up
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John Cooper (Voce, Basso, Chitarra Acustica) Korey Cooper (Chitarra, Tastiere, Programming, Arrangiamento d’archi, Sintetizzatori, Chitarra Acustica) Seth Morrison (Chitarra) Jen Ledger (Batteria, Cori)
Musicisti ospiti:
Chris Marvin (Cori su tracce 1, 5, 6, 10) Brian Howes (Cori su tracce 3-4, 7) Youthyear (Tastiere, Programming su traccia 5) Carlo Colasacco (Tastiere, Programming su traccia 5) Cara Fox (Violoncello su traccia 9) Eleanore Denis (Violino su traccia 9)
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RECENSIONI |
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