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22/03/25
THE MEFFS
ASTRO CLUB - FONTANAFREDDA (PN)
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The Halo Effect - March of the Unheard
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20/02/2025
( 1444 letture )
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Con il debutto Days of the Lost i The Halo Effect si sono affermati come la “next big thing” del death melodico: grazie ad una line-up da all-star band, un sound accattivante e al supporto della Nuclear Blast, il primo lavoro del combo ha avuto un impatto notevole ed è stato riconosciuto come uno dei migliori esempi di revival della scuola di Gothenburg. Ciononostante non sono mancate discussioni intorno al lavoro dei Nostri: il punto focale della controversia stava spesso nella natura sostanzialmente derivativa della proposta, da alcuni giudicata come pecca di fondo del progetto. Tra chi ha apprezzato maggiormente il disco e nella maggior parte della critica è prevalsa invece l’opinione che l’obiettivo che la band si era prefissata ed aveva raggiunto non fosse quello di produrre un sound innovativo ma semplicemente riproporre dei canoni già rodati e reinterpretarli in maniera convincente.
Nell’analizzare questo nuovo March of the Unheard, che stilisticamente e concettualmente non si discosta molto dal suo predecessore, è sembrato opportuno offrire una prospettiva ancora differente. Negli anni infatti sono state enfatizzate le analogie tra lo stile degli The Halo Effect e quello di In Flames e Dark Tranquillity di inizio secolo, in particolare scomodando dischi del calibro di Clayman e Damage Done. Sulla base dell’assunto di questa analogia scaturiva poi il dibattito tra chi apprezzava comunque la proposta e chi invece malsopportava questo presunto continuo richiamo al passato. Eppure, riascoltando quei dischi ormai nella storia del melodeath, e provando a confrontarli con quest’ultima opera del quintetto di Gothenburg le somiglianze faticano a emergere. March of the Unheard prende più specificatamente la parte più melodica e orecchiabile del genere, adattandola ad una produzione “moderna” e impacchettando il tutto in un quadro di arrangiamenti, riff e composizioni quanto più semplici possibile. Dei fasti, dei riff memorabili e dello spirito autentico dei dischi tanto chiamati in causa, ben poco rimane. Semmai, proprio volendo fare paragoni ed esser cattivi, verrebbero più che altro in mente lavori ben poco riusciti come Siren Heads o Battles, dischi non a caso scritti in gran parte dallo stesso Engelin che oggi è il principale songwriter dei The Halo Effect. Ora, tanto per sgomberare subito il campo da ogni dubbio, chiaramente non ci troviamo di fronte ad un disco deludente come quelli e le composizioni presentano tutt’altro vigore, però è chiaro che la natura estremamente melodica e tutto sommato generica del materiale lo avvicinerebbe più agli ultimi lavori degli In Flames che non ad una fase precedente del genere caratterizzata da formule differenti e qualità indubbiamente superiore. In questo secondo lavoro della band convivono due fattori: il disco, è evidente, è confezionato da musicisti e produttori di nota esperienza e fama e risulta ben suonato e caratterizzato da sonorità tutto sommato piacevoli ed orecchiabili. D’altra parte emergono fin dai primi ascolti gli altrettanto evidenti difetti: tralasciando la produzione, che diamo per assodato sia ormai praticamente uno standard almeno per la Nuclear Blast, per quanto discutibile, il grande neo che affligge il platter è la sostanziale piattezza e inoffensività della proposta. March of the Unheard si protrae per quasi tre quarti d’ora senza particolari scossoni: certo non ci sono momenti particolarmente negativi, ma neanche qualche passaggio memorabile o un brano che spicchi e permetta un salto di qualità. I riff sono marcatamente melodici, tanto che a momenti quasi non sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un disco death non fosse per il growl, risultando spesso orecchiabili ma non memorabili e senza che peraltro gli arrangiamenti diano mai una scossa ai brani, sia sottoforma di un assolo interessante, un break di basso, un breakdown, un blastbeat o qualsivoglia altro stratagemma per movimentare le composizioni. Composizioni che inoltre seguono quasi tutte lo stesso canovaccio: strofa – prechorus – chorus – strofa – prechorus – chorus – break strumentale o assolo – prechorus – chorus. Persino il disco precedente aveva tentato probabilmente qualcosa di più strutturato e coraggioso: pur rimanendo in una sorta di comfort zone la band infatti aveva tentato qualche soluzione più varia ed originale.
Con questo secondo disco invece il focus si è spostato totalmente su melodie accattivanti e strutture semplici, in cui manca quasi sempre un elemento di oscurità e cattiveria che compensi e il risultato ispira emozioni contrastanti. A partire dall’opener Conspire to Deceive, emblema dell’intero disco: un brano “facile”, dal riffing semplice, memorizzabile ma in fondo inoffensivo, così come Detonate, tanto impropriamente affiancata ad una Pinball Map con cui francamente si fatica a trovare le somiglianze. Our Channel to the Darkness è invece uno dei pezzi che più prova a smuovere un po’ le acque: intro acustico riuscito, strofa veloce ed aggressiva, chorus quel tanto ruffiano quanto basta. Nota negativa però per l’assolo, poco emozionante tanto melodicamente quanto tecnicamente. Con Cruel Perception si torna invece a riff da singolo e infatti si tratta di uno dei quattro brani per cui è stato realizzato un videoclip, nel caso in questione ambientato proprio a Gothenburg; la melodia portante del brano non sembra però del tutto convincente. Un videoclip è dedicato anche alla successiva What We Become, mid-tempo orecchiabile ma abbastanza movimentato, dal riffing riuscito e che regala un assolo stavolta quantomeno degno di nota. Il gradevole intermezzo strumentale This Curse of Silence introduce alla title-track, altro brano che scorre abbastanza piacevolmente ma la cui componente eccessivamente melodica alla lunga non appaga del tutto. Duettano in maniera interessante le due asce nell’incipit di Forever Astray, prima della strofa veloce e convincente e dell’ingresso della voce pulita. Between Directions tenta un approccio malevolo ed epico al contempo, ma presto il brano cede il passo a passaggi più melodici e ancora una volta alle voci pulite, mentre gli archi inspessiscono e arricchiscono la texture sonora. A Death That Becomes Us sembra promettere bene con un approccio iniziale aggressivo ma finisce per sprecarsi in un ritornello tutto sommato trascurabile. Chiusura affidata alla buona The Burning Point e all’ottimo outro Coda, dall’animo quasi prog, in cui chitarre acustiche, violino e violoncello si intrecciano in melodie pittoresche ed emozionanti.
March of the Undead è dunque un album difficile da giudicare in maniera univoca: il disco in fondo scorre e riserva anche dei momenti interessanti, ma è indubbio che nel complesso manchi un po’ di mordente, di quella voglia di superarsi artisticamente per creare un prodotto eccellente. Un disco che non è necessariamente derivativo, ma che rischia troppo spesso di suonare generico o innocuo. Certamente non ci troviamo davanti a un flop totale ma ci si poteva aspettare comunque di meglio dal combo svedese, anche mettendo a confronto quest’ultima fatica con lavori un po’ meno preconfezionati e più riusciti come l’ultimo Dark Tranquillity, tanto per non andare molto lontani. Indubbiamente si tratta di un disco che potrà piacere tanto a nuovi fan che si avvicinano al genere quanto a molti ascoltatori di vecchia data, ma che in generale lascia anche un po’ l’amaro in bocca e la sensazione che la band abbia semmai fatto un passo indietro rispetto a quanto mostrato nel debutto.
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17
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La voce pulita sempre uguale, sempre stesse linee vocali, ha stancato. Inoltre pur non avendo il tastierista in formazione ci propibano anche qualche scarto dei nuovi dark tranquillity. Vabbè... poi mi sono riascoltato Whoracle e ho rifatto pace col mondo |
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16
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Chi ha dato un voto di questo tipo non ha ascoltato a fondo il disco che è impressionante per qualità e valore musica da 10 e lode non c’è nessuno in ambito melodic/death che sa esprimersi a questi valori io sono andati a Monaco di Baviera a vederli concerto fantastico e gente assolutamente coinvolta come mi et successo a pochi concerti voto 95 |
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15
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In effetti è inferiore al precedente, soprattutto come songwriting. I pezzi sono meno efficaci. E chiaro che un supergruppo come questo non può fare una ciofeca ma in ogni caso suonano quello che ha composto Engelin e non è il massimo. Forever Astray, per me, il brano più interessante. Ma non perdo molto tempo. Saor e Avatarium girano di più sui miei device e soprattutto Atra Vetosus e Order of Nosferat di fine 2024. Au revoir. |
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14
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Ascoltato. Album ben suonato, ben prodotto, che si rifà a sonorità che mi garbano. Ma già dopo il primo ascolto mi è tornata voglia di andarmi a rimettere sù per la milionesims volta Whoracle, The Jester Race, The Gallery. Al cuor non si comanda. |
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13
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Il disco è molto bello, almeno al livello del precedente. Voto troppo basso. |
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12
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X me rimane un bel album da 7,5 suonato bene ,lo ascolto sempre volentieri |
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11
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@idn arriva anche quella, al momento siamo un po\'...sottodimensionati  |
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10
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Idn si vabbè aspetta e spera... ormai l\'unica webzine che recensisce puntualmente tutti gli album e report dei concerti è rimasta Metalitalia |
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9
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Io aspetto ancora la recensione dell\'ultimo degli \"Ulcerate\", a mio parere miglior uscita (assieme ai Blood Incantation) Death del 24. |
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8
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Album Godibile...alcune sembrano canzoni degli ultimi Dark Tranquillity più che dei vecchi In Flames, in ogni caso almeno un 75 ci sta, io l\'ho comprato perchè suonato bene e mi piace. |
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7
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Album Godibile...alcune sembrano canzoni degli ultimi Dark Tranquillity più che dei vecchi In Flames, in ogni caso almeno un 75 ci sta, io l\'ho comprato perchè suonato bene e mi piace. |
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6
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@Typhoon: non ti addosso colpe, sia chiaro, colgo semplicemente l\'occasione per sollevare il tema o più semplicemente dire come la penso in merito al concetto di \"derivativo\"... i motivi per cui non ho apprezzato molto la tua recensione, comunque ben scritta, sono altri e potrebbero giustamente non interessare a nessun altro utente
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5
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@skull colpa mia se non l\'ho chiarito abbastanza nella recensione, ma mi pareva di aver specificato che non lo trovo un disco così derivativo e che anche se lo fosse *non* è quello il difetto che ho riscontrato. |
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4
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Concordo con @d.r.i. si prosegue sulla falsariga del primo album ed il valore è simile: di certo valido, poi può piacere di più o di meno a seconda dei propri gusti. Sebbene non mi sia piaciuta la recensione di @Typhoon, mi trova concorde quando afferma che qua e là ci siano dei sentori dei lavori più recenti (e meno riusciti) di IF e DT e che il mordente non è altissimo. Il dissenso invece è tutto per l\'abuso della parola \"derivativo\", non per forza in questo caso specifico anzi più in generale, perchè possiamo fare uno snap della homepage in qualunque momento e constatare che più di tre quarti degli album è appunto roba \"derivativa\".
Anche basta, volendo. |
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3
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Nulla più che carino. Ho preferito il primo, già con questo hanno ampiamente stufato, complice la sovraesposizione di Stanne. |
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2
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Dimenticavo fosse uscito, lo recuperero´di sicuro, perché solo vedere quella line up mi scalda sempre il cuore.. |
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1
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Io lo trovo in linea con il precedente quindi sul 75. In questi anni onestamente non trovo nessun disco del genere meglio di questo. Forse il melodic Death può aver detto tutto ma se voglio ascoltare qualcosa di appena uscito vado su questo. Scomodare i capisaldi non conviene mai |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Conspire to Deceive 2. Detonate 3. Our Channel to the Darkness 4. Cruel Perception 5. What We Become 6. This Curse of Silence 7. March of the Unheard 8. Forever Astray 9. Between Directions 10. A Death That Becomes Us 11. The Burning Point 12. Coda
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Line Up
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Mikael Stanne (Voce) Niclas Engelin (Chitarra) Jesper Strömblad (Chitarra) Peter Iwers (Basso) Daniel Svensson (Batteria)
Musicisti ospiti
Julia Norman (Voce secondaria) (tracce 7, 12) Örjan Örnkloo (Tastiera) Johannes Bergion (Violoncello) Erika Almström (Violino)
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RECENSIONI |
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