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22/03/25
THE MEFFS
ASTRO CLUB - FONTANAFREDDA (PN)
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25/02/2025
( 1284 letture )
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L’antitesi è il mantra, il dissidio la parola d’ordine, la quotidianità il terreno di battaglia.
Come in un western, tra macchie di sangue e proiettili, nidifica il duello imbastito dai Jinjer, allegoria di una sfida a viso aperto contro le manovre guerrafondaie della politica, le storture della giustizia e l’infida pressione esercitata dai vizi e i demoni interiori. Sviluppato con una volontà di perfezionismo al limite del “maniacale” (demo più volte ri-registrate, introdotta la pre-produzione vocale) e obbligatoriamente influenzato dal conflitto russo/ucraino, Duél si nutre di un livore e di un istinto ribelle feroce quanto nervoso ed è proprio questa animosità a differenziare il quinto album dall’antecedente diretto, quel Wallfowers incentrato fin dal titolo su una dimensione privata caratteristica delle persone timide o comunque riservate.
Avendo deciso di troncare ogni possibile divagazione stilistica (jazz, reggae ecc.), la band punta tutto su un iper-consolidamento del marchio di fabbrica progressive groove, nella circostanza incrementato da venature djent, raffiche di blast-beat e polverizzanti breakdown sinora mai tanto espliciti. Nonostante il minutaggio contenuto, i brani appaiono densi e in certi episodi quasi a rischio saturazione, a dir poco soffocanti nell’apprestare un reticolo strumentale dove tecnica e aggressività comunicano un linguaggio che potrebbe alla lunga risultare monolitico quando non addirittura sfibrante. All’interno di tale gabbia, solo l’armoniosa voce di Tatiana riesce ad allentare le strette maglie intessute dalla chitarra e dalla sezione ritmica, ma laddove in Wallflowers la cantante aveva stupito per la varietà dei registri impiegati, nel nuovo disco il timbro pulito fatica non di rado a controbilanciare la spietata offensiva gutturale, talmente autoritaria da macchiare d’ombra le pur eleganti cesellature melodiche.
Se l’onda anomala provocata da Tantrum (una sorta di Colossus 2.0) defluisce verso lidi più quieti raggiungendo un equilibrio ottimale fra le parti, le finezze vocali declamate sui massicci ritmi cadenzati di Hedonist soccombono ad un growl ostile e perentorio, necessario a fustigare l’animo corrotto degli uomini assuefatti ai piaceri materiali. Il breakdown spezza-clavicola sul finale è il giusto preludio a Rogue, technical groove metalcore dal pietroso e acuminato spessore meshugghiano dove le frequenze harsh dominano incontrastate all’interno di uno stritolante groviglio poliritmico. La drammatica cornice di Tumbleweed, pur riproponendo spiragli di levigata melodia, non offre la benché minima salvezza in quanto l’acre tono gutturale (coadiuvato da un imponente rallentamento groove) diviene il portavoce di uno scenario funereo colmo di macerie e rovine, simbolo della devastazione attuata sul territorio ucraino. Le scorie harsh avvelenano pure i dolci effluvi in falsetto della ricercata Green Serpent, un saliscendi umorale (protagonista la dipendenza dall’alcol) oscillante fra cambi di tempo, sferzate ritmiche, acrobazie canore e massicci breakdown, il tutto fino alla delicata implosione chitarristica dell’outro.
Al centro svetta la qualità lirico-sonora di Kafka, nobile nel riferimento letterario (Il Processo, 1925) ed emulante lo “schema Pisces” per quanto concerne l’avvio melodico e sinuoso fatto poi detonare da un up-tempo lacerato dal growl e qui irrobustito da una grandinata di blast-beat. Terremotanti switch vocali ribaltano in seguito la cupa Dark Bile, forsennati ritmi al limite dell’hardcore spingono l’eccesso di rabbia dell’annichilente Fast Draw (da notare il sinistro feeling anthemico del verso draw your weapon) mentre Someone’s Daughter, convinta e matura dedica femminista, inganna con una partenza docile tramutantesi in un esercizio notevole di abilità tecniche e martellanti dissonanze. Non cambia rotta l’affilata ghigliottina di A Tongue So Sly e nemmeno il vessillo omonimo decide di abbandonare la strada del groove labirintico particolarmente elaborato, una scelta logica ma forse in chiusura si sarebbe dovuto optare per una composizione più “aperta” in vece di un epilogo alquanto pesante e macchinoso.
L’indurimento sonoro, unito all’esclusione di apporti extra-metal, ha reso Duél un album granitico e bellicoso, in linea con l’impostazione antagonista permeante le forbite liriche uscite dalla penna di Tatiana. Se quindi la band può dire di aver centrato l’obiettivo, dall’altra sponda della barricata chi si pone in ascolto dovrà approcciarsi al lavoro con grande meticolosità visto che serviranno diversi tentativi per entrare in piena sintonia con la tracklist, impegnativa e minata dall’assenza del cosiddetto brano identificativo (alla Pisces, I Speak Astronomy, Judgment & Punishment, Wallflower, Vortex ecc.) a meno di non considerare tali Kafka e/o Green Serpent.
I Jinjer sembrano dunque aver messo in pausa l’evoluzione del loro sound, per la prima volta solo rafforzato e non accresciuto: in un curioso giro della ruota, Duél ha maggiori punti in comune con il datato Cloud Factory rispetto agli album successivi e la mancanza di novità effettive impedisce una qualifica superiore alla “riuscita operazione di consolidamento”. Non un difetto in sé, ma quando parametrato ad un gruppo dalle ambizioni progressive il discorso cambia essendo l’ago della bilancia orientato ad uno sviluppo costante e non ad un pur validissimo atto calligrafico.
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7
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Album bello, MA.
È quasi un \"Wallflowers 2\", ci sono tantissimi richiami alle 11 canzoni del precedente album. Dopo 4 anni, io speravo in più tracce (anche se ne roglierei 2 dalla tracklist), e sicuramente più varietà: sono fan del non-ritornello, ma la struttura è praticamente la stessa in tutte e 6 le tracce: parte clean e screams alla fine.
Definirlo un brutto album sarebbe ridicolo, ma forse mi aspettavo un cambio di rotta. Voto personale 70/100. |
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6
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Disco carino ma non il mio genere. Tanta stima alle vittime di entrambi i nazionalismi che hanno fomentato questa guerra. |
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5
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Tanta stima a loro (e tutti gli ucraini) che vengono da un Paese vittima dell\'imperialismo , ma che ancora prova a vivere la loro vita grazie alla musica. Buon disco |
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4
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band che mi lascia davvero poco... lei molto brava per carità, però lo schema pisces come detto in recensione lo ripetono un po troppo spesso. |
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2
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Non si discutono le qualitá tecniche e Tatiana dal vivo é incredibile, peró i Jinjer mi lasciano sempre questa sensazione di ripetitivitá nell\'ascoltare un disco che quasi sfocia nella noia. Sensazione che mi hanno dato anche dal vivo, forse perché meno immediati di Obituary e Sepultura. |
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1
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Volendo fare un paragone, ho avuto la stessa sensazione provata all\'ascolto di \"immutable\" dei Meshuggah; un po\' come per il gruppo svedese, ho trovato duel il disco \"piu´ jinjer\" dei jinjer. Sicuramente solido e godereccio, ma il é il loro primo album per cui non c\'é stato l\'effetto \"wow\".
Per me 75 |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Tantrum 2. Hedonist 3. Rogue 4. Tumbleweed 5. Green Serpent 6. Kafka 7. Dark Bile 8. Fast Draw 9. Someone’s Daughter 10. A Tongue So Sly 1. Duél
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Line Up
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Tatiana Shmayluk (Voce) Roman Ibramkhalilov (Chitarra) Eugene Abdukhanov (Basso) Vladislav Ulasevich (Batteria)
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