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17/06/25
DEFTONES
CARROPONTE, VIA LUIGI GRANELLI 1 - SESTO SAN GIOVANNI (MI)
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08/06/2025
( 442 letture )
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C’è sempre un momento, nella carriera di una band progressive, in cui si decide se restare ancorati alle certezze del passato o tentare il salto verso una maturità più consapevole. Pride, secondo lavoro degli Arena, si colloca esattamente in questo crocevia: non è ancora la definitiva consacrazione, ma nemmeno un semplice passo di transizione. Eppure, a distanza di quasi trent’anni, rimane un disco che merita di essere riascoltato, sezionato, compreso nelle sue molteplici sfumature. Se vi state chiedendo se sia il capolavoro degli inglesi, la risposta è negativa. Ma se volete sapere se valga la pena immergersi nelle sue atmosfere, la risposta è un sì convinto, per una serie di motivi che vale la pena esplorare. Si tratta del secondo full-length degli Arena, che arriva nel 1996 a distanza di un solo anno da Songs From The Lions Cage, e che porta con sé un doppio peso: confermare il valore della band e ridefinirne le coordinate dopo un cambio di formazione tanto silenzioso quanto incisivo. Perché dire addio a John Carson e accogliere alla voce Paul Wrightson significa, per i britannici, cambiare volto all’intero impianto narrativo e sonoro del progetto. Paul Wrightson è probabilmente tecnicamente superiore al predecessore e possiede un’impostazione teatrale, quasi musical, perfetta per il pathos progressive che Clive Nolan -leader silenzioso ma assoluto della band- ha in mente. Ma c’è di più: a cambiare è anche il basso, affidato al monumentale John Jowitt, già negli IQ e pilastro della scena neo-prog inglese.
Innanzitutto, Pride è un album che si muove costantemente tra luci e ombre. La copertina, con il suo leone stilizzato e inquieto, è già un manifesto di intenti: fierezza, certo, ma anche una tensione sotterranea, una voglia di affermarsi che si percepisce in ogni nota. Dal punto di vista sonoro, la band abbandona in parte le ingenuità del debutto per abbracciare una scrittura più stratificata, in cui ogni strumento trova uno spazio preciso, senza mai sovrastare gli altri. La produzione, ancora non perfetta ma già più matura, restituisce una gamma dinamica che permette ai brani di respirare, di crescere, di esplodere nei momenti giusti.
L’apertura affidata a Welcome To The Cage è un biglietto da visita eloquente: riff tagliente, sezione ritmica che incalza e una voce, quella di Paul Wrightson, che si insinua tra le pieghe della melodia con una teatralità misurata, mai sopra le righe. È un inizio che lascia presagire un viaggio tutt’altro che lineare, dove il progressive si tinge di colori cupi, quasi gotici, e la tensione narrativa non viene mai meno. Segue Crying For Help V, breve ma intensa, che prosegue la saga degli intermezzi già iniziata nel debutto, e che qui funge da respiro prima della tempesta emotiva di Empire Of A Thousand Days. Quest’ultima è probabilmente il cuore pulsante del disco: una suite che cresce lentamente, tra cambi di tempo e aperture melodiche, fino a raggiungere un climax emotivo che lascia il segno. Qui la band mostra tutto il suo potenziale, sia in termini di scrittura che di esecuzione, con Keith More che regala assoli di chitarra tanto lirici quanto taglienti, e Clive Nolan che tesse trame tastieristiche mai banali. È tutto molto british, e molto prog: c’è teatralità, c’è pathos, c’è mestiere. Soprattutto, c’è coesione.
Medusa è il brano che più di tutti incarna l’anima oscura degli Arena: atmosfere dense, tastiere avvolgenti, una narrazione quasi cinematografica che trasporta l’ascoltatore in un viaggio ipnotico, tra mito e realtà. La voce di Wrightson si fa qui più sofferta, quasi sussurrata, mentre la sezione ritmica di Jowitt e Pointer scandisce il tempo con precisione chirurgica. Non manca, però, la componente più diretta e “rock” della band, rappresentata da Fool’s Gold, dove le melodie si fanno più immediate, quasi radiofoniche, senza mai perdere quella vena malinconica che permea l’intero lavoro. Da segnalare In particolare Crying For Help VII, eseguita a cappella da Wrightson, una piccola gemma vocale che non ha eguali nel catalogo della band. Un sussurro struggente che sfiora il sacro. La chiusura affidata ai lunghi tredici minuti di Sirens è un lento dissolversi, una malinconia sospesa che lascia l’ascoltatore con la sensazione di aver attraversato non solo un album, ma un vero e proprio viaggio interiore. Magistrale l’assolo elettrico di Keith More, uno degli highlight del disco.
Pride non è un disco perfetto. Qualche passaggio appare ancora acerbo, e si avverte la ricerca di un’identità che troverà piena realizzazione solo con i lavori successivi. Ma è proprio questa sua natura “in divenire” a renderlo affascinante: ogni ascolto rivela un dettaglio nuovo, una sfumatura nascosta, un’emozione che si era celata tra le pieghe di un arrangiamento o di una linea vocale. Non aspettatevi la complessità barocca di certi mostri sacri del prog, né la freddezza tecnica di chi fa della perfezione un feticcio. Gli Arena, qui, sono ancora umani, imperfetti, ma proprio per questo capaci di toccare corde profonde, di evocare immagini e suggestioni che restano impresse ben oltre l’ultima nota.
In definitiva, Pride è un album che richiede tempo, attenzione, voglia di lasciarsi trasportare. Non vi conquisterà al primo ascolto, forse nemmeno al secondo, ma se gli concederete la giusta pazienza saprà ricompensarvi con momenti di grande intensità emotiva. E quando vi accorgerete di averne colto anche solo una briciola, difficilmente tornerete indietro, perché il mondo degli Arena è troppo ricco, stratificato e affascinante per essere abbandonato alla leggerezza di un ascolto distratto.
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6
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Disco stupendo, così come il debut. Nelle mie personali preferenze ai primi due album sta davanti solo il successivo The Visitor. Ma anche qui siamo su livelli altissimi, i 5 brani principali sono tutti fantastici. Se proprio proprio devo citarne uno solo allora dico Fool’s Gold. Voto 89 |
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5
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Gli Arena sono una grandissima band e questo disco non fa eccezione. Per gli amanti del prog classico una band da conoscere assolutamente. More chitarrista non apprezzato per quanto meriterebbe secondo me, peccato che non abbiano mai trovato il cantante giusto. Medusa highlight del disco.
Ricordo un loro live bellissimo a Biella nel primo tour di Sowden, tanti anni fa . |
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4
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LAMBRUSCORE,questa non te la perdono  |
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3
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Molto bravi, per chi non lo sapesse venivano sponsorizzati da una nota azienda avicola. |
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2
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... musicisti di gran qualità...bel dischetto... |
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1
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Complimenti Roberto,bella recensione...aggiungo solo che il maestro Nolan nello stesso anno lo ritroviamo nel capolavoro dei Pendragon The Masquerade Overture e nell\'ottimo disco degli Shadowland...un gigante! Questo non è ai livelli di The Visitor o Pepper\'s Ghost ma un 80 se lo merita. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Welcome To The Cage… 2. Crying For Help V 3. Empire Of A Thousand Days 4. Crying For Help VI 5. Medusa 6. Crying For Help VII 7. Fool’s Gold 8. Crying For Help VIII 9. Sirens
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Line Up
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Paul Wrightson (Voce) Keith More (Chitarra) Clive Nolan (Tastiere) John Jowitt (Basso) Mick Pointer (Batteria)
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RECENSIONI |
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