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Shape of Despair - Shades of…
31/08/2018
( 1330 letture )
Qualcuno ha storto il naso, qualcuno è rimasto deluso, altri hanno alzato le spalle archiviando l’episodio come un espediente commerciale neanche di particolare respiro, praticamente nessuno ha gridato al miracolo… non si può certo dire che l’ultima uscita in ordine cronologico degli Shape of Despair, Alone in the Mist, rilasciata a fine 2016 sotto le insegne Season of Mist, abbia scatenato estasi ed entusiasmi tra i fan più recenti della band finlandese, in avida attesa di una replica di quell’ottimo Monotony Fields che ne aveva segnato il ritorno sulla scena dopo più di un decennio. Chi invece ha seguito le orme dei ragazzi di Helsinki fin dagli esordi sapeva esattamente cosa attendersi, da un platter nato un ventennio fa come rilascio non ufficiale di un combo mai approdato alla dimensione del full-length canonico e che si è barcamenato per quasi un quinquennio tra demo e split. Particolare tutt’altro che trascurabile, infatti, all’epoca i Nostri si aggiravano ancora con il moniker Raven (scelta peraltro non proprio felicissima, vista l’ingombrante omonimia con la creatura dei fratelli Gallagher, in terra d’Albione) e solo nel 1998 sarebbero passati all’attuale denominazione.

Ma il vero problema della riproposizione a distanza di un album come Alone in the Mist non è nell’”anacronisticità” dell’operazione (in fondo, alzi la mano chi non coltivi una almeno latente propensione archeologica nei confronti dei primi, artigianali cimenti delle proprie band di culto), quanto nel fatto che gli Shape of Despair avevano già di fatto riproposto la stragrande maggioranza del materiale confezionato per quella release e, anzi, lo avevano posto come pietra angolare per l’avvio della carriera con la nuova denominazione. Se, dunque, la conoscenza degli elementi biografici è un elemento essenziale per cogliere la storia che ha portato alla nascita di questo Shades of…, non va però dimenticato che è sul versante della poetica che si gioca la partita continuità/rottura rispetto al passato e qui va subito messo in evidenza che nel giro di un paio d’anni molti attrezzi del mestiere erano davvero cambiati, nella fucina ormai non più artigianale della coppia Salomaa/Ullgren.
Intorno al nome degli Shape of Despair, infatti, si discute animatamente da anni, alla ricerca di una classificazione che evidenzi o meno la componente funeral della loro ispirazione e, a parere di chi scrive, è proprio nel confronto tra Alone in the Mist e Shades of… che si possono cogliere tutti gli elementi che sottolineano un progressivo affrancamento della band dalle cristallizzazioni funeral, per un approdo che ci sentiamo di definire (con tutti i rischi insiti nelle catalogazioni sommarie, beninteso) più tradizionalmente doom. Non è una questione di mutamenti “quantitativi” delle componenti (l’oggettivo incremento del ruolo delle tastiere o la comparsa del flauto, da sole, non sono condizioni necessarie e sufficienti) e nemmeno dell’inevitabile dialettica che scaturisce dall’immissione nel comparto vocale di un timbro etereo e sfoggiato in modalità cantilena come quello di Natalie Koskinen (Safrosskin, da nubile), a fare da controcanto al growl di Toni Mäensivu, il dato più importante è piuttosto una virata delle atmosfere complessive dei brani verso orizzonti in cui la luce filtra ancora, sia pure sfuocata e in grado al massimo di illuminare un mondo dai contorni che restano grigi e sfumati. Come corollario immediato di questa tendenza e ulteriore argomento a sostegno dell’allontanamento dagli stilemi funeral, ecco allora un contenuto melodico in prepotente emersione, di cui sfidiamo a rintracciare i prodromi nell’intero viaggio dei Raven e che qui invece si candida a divenire vero e proprio tratto distintivo del platter.
Non che improvvisamente la narrazione si orienti verso prospettive rassicuranti o anche solo vagamente consolatorie, ma più che la disperazione è la malinconia, il sentimento più immediato che sgorga dall’incontro con la “nuova” versione dei brani, in un processo che si raffinerà nelle uscite successive al punto da farci parlare, per un album come Monotony Fields, di esiti quasi alcestiani. E il parallelo con la creatura dell’ineffabile duo Neige/Winterhalter (da prendere ovviamente con tutte le cautele del caso, prima che a qualcuno venga in mente di ipotizzare che gli Shape of Despair siano gli Alcest meno il black più il doom) prosegue anche nella capacità di entrambi i gruppi di cospargere le tracce di una nebbia quasi magica, a metà strada tra l’espediente paesaggistico e l’artificio di scena in cui tutte le emozioni si attenuano e giungono ad unità, sublimandosi in una sorta di nenia.

È una strada che, se imboccata a rotta di collo, prevede necessariamente a fine corsa il contatto con il pianeta ambient/space/shoegaze, ma per prevenire abbandoni troppo spinti in orbite segnate dall’impalpabilità, i finlandesi utilizzano il cantato di Mäensivu come più che solido ancoraggio: denso e contemporaneamente sabbioso, non estraneo alle spigolosità abrasive di marca black ma con tutti i tratti di solennità e imponenza caratteristici della scuola scandinava, il growl del nuovo singer (l’ugola storica, Miika Niemela, aveva nel frattempo salutato la compagnia) supera abbondantemente la prova del debutto e solo il successivo approdo al microfono di un mostro sacro del calibro di Pasi Koskinen ha reso indolore e ridotto i rimpianti per la quasi immediata dipartita di Mäensivu dalla line up. Dove gli Shape of Despair dimostrano di avere ancora margini di miglioramento, pur mettendo a segno un già significativo passo avanti rispetto al materiale Raven, è sul fronte della caratterizzazione individuale dei singoli episodi, tanto che l’album riesce a dare il meglio di sé in presenza di una fruizione complessiva, che privilegi e valorizzi il flusso narrativo. Non mancano, ovviamente, momenti dalla “riuscita artistica” differente (personalmente scegliamo come candidati per il podio qualitativo due brani come Woundheir e Shadowed Dreams, il primo con un flauto in modalità Hamelin, l’altro con una Koskinen da applausi, alle prese con eleganti incastonature gothic, mentre una certa prolissità sembra appesantire in qualche passaggio …in the Mist e soprattutto Down into the Stream), ma complessivamente l’intera ora di viaggio non presenta cali di tensione e rende veniali alcuni innegabili difetti, su tutto un tappeto di tastiere con trame e orditi intrecciati talvolta un po’ scolasticamente. Oltretutto, se qualcuno coltivasse dei dubbi sul processo di crescita in corso, ci penserà l’unica traccia inedita dell’album, la conclusiva Sylvannight, con i suoi abissi di malinconica delicatezza, a pronunciare una parola definitiva sul destino che avrebbe atteso la band nel breve volgere di un anno… Angels of Distress era ormai alle porte.

Radici antiche che innervano nuove ramificazioni destinate a diventare presto un vanto per l'intera doom foresta, indovinato punto di incontro ed equilibrio tra profondità del contenuto ed eleganza delle forme, Shades of... è il prototipo di album ideale per qualunque band sul punto di spiccare il volo verso una carriera incapace di concepire passaggi a vuoto. Non avranno forse illuminato il cielo con passaggi frequenti, ma quando hanno deciso di inviare le loro comete nel cielo del doom d'autore gli Shape of Despair hanno sempre trovato il modo di renderle incantevolmente riconoscibili, al primo apparire sulla linea dell'orizzonte...



VOTO RECENSORE
80
VOTO LETTORI
94.25 su 4 voti [ VOTA]
valz
Sabato 1 Settembre 2018, 18.37.59
1
no, questo è un CAPOLAVORO assoluto e irripetibile. sognante, mistico, onirico.
INFORMAZIONI
2000
Spinefarm Records
Doom
Tracklist
1. … in the Mist
2. Woundheir
3. Shadowed Dreams
4. Down into the Stream
5. Sylvannight
6. Order of the Nightshade
Line Up
Toni Mäensivu (Voce)
Natalie Safrosskin Koskinen (Voce)
Jarno Salomaa (Chitarra, Tastiera)
Tomi Ullgrén (Basso, Chitarra)
Samu Ruotsalainen (Batteria)

Musicisti Ospiti
Johanna Vakkuri (Flauto)
 
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