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Goatpsalm - Erset La Tari
( 3229 letture )
I rituali hanno da sempre affascinato i compositori, in quanto nella loro componente mistica e trascendentale si nasconde l’essenza di tradizioni, valori, credenze che l’uomo porta con sé da millenni, ma che, però, senza la ripetizione, non è in grado di indagare. Una sorta di mezzo psichico potremmo dire.
Ed è questo che il nuovo album dei Goatpsalm si prepara ad essere: un ritorno, lento, inesorabile, alle radici del male, al demonio primitivo, in un viaggio perverso che si ricollega all’indagine sonora della creatura di It, ossia quegli Abruptum che, nemmeno nominati, causano tremori ai deboli di cuore.

Precisazione dovuta: i nostri mefistofelici e sumeri compagni (nonostante siano geograficamente russi!), non raggiungono l’apice della violenza esibita quanto i colleghi svedesi, preferendo, a parer mio intraprendendo un’ottima via, atmosfere sì cupe, ma non assillanti come quelle plasmate dalla controparte scandinava. Questione di latitudine evidentemente.

L’album è strutturato intelligentemente in tre parti. La prima e l’ultima che assieme giungono ai quaranta minuti di durata, spaziando tra black metal canonico (primi minuti di Under The Trident Of Ramanu), drone, in quanto le soluzioni adottate fanno presagire una deriva verso un indefinito sonoro e musicale -in cui melodia, armonia, progressioni non sono che elementi relativi, dinnanzi all’immenso boato delle chitarre estremamente distorte-, ed ambient “orecchiabile” -nel quale spicca una ferrea volontà di mantenersi accanto ad un concetto di musica non troppo frammentato e dispersivo, diversamente, e sta in ciò la grandezza di questo disco, da ciò che numerose altre proposte estreme optano per fare- , sono la spina dorsale dell’opera. La sorella di mezzo, cinque minuti e poche note di chitarra acustica arpeggiata, svolge l’importantissima funzione di dar sufficiente respiro all’ascoltatore, la cui pazienza rischia il tracollo dopo, l’avvolgente, ma esigente opener. Tale difficoltà di approccio è agevolata dall’assenza di un’impalcatura che non sia quel flebile filo rosso garantito dalla sei corde, impegnata più volte nel ricostruire le idee già espresse richiamandole alla mente tramite brevi parti soliste.

Non è tuttavia un lavoro per pochi questo Erset La Tari. Certamente il modo di approcciarsi con il pubblico non è di quelli chiari e distinti, senza dubbio. Sorpassato questo primo pensiero, è fondamentale scendere in profondità: notate quanto le composizioni, sapientemente arrangiate, benché come sovente capita, esse sembrino totalmente improvvisate (e parlando degli Abruptum questo sospetto non è svanito), siano nella veste di trascinare chi incontra il disco per la prima volta in una dimensione fatta dei rituali di cui discorrevamo all’inizio, di occultismo autentico, di stanza nella penombra dove figure avvolte in scuri mantelli recitano arcane formule. Nulla a che vedere con il satanismo generalizzato o commercializzato: l’inquietudine e l’esoterismo qui sono facilmente tangibili. I canti infernali scanditi al ritmo della scarna ed evanescente sezione ritmica, a volte incarnata da un semplice tamburo di pelle tesa, sembrano provenire non da sterili solchi nel silicio, ma da templi sommersi da secoli di tempeste di sabbia. Chi avesse una passione morbosa per H.P. Lovecraft, il quale ricorre sotto mentite spoglie in numerosi lavori di tal fatta, non stenterà a riconoscere nelle litanie e nelle fumose rappresentazioni dei culti sumerici, una descrizione particolareggiata delle monolitiche città degli Antichi.

Il titolo Erset La Tari, infatti, porta con sé un significato recondito, un presagio, essendo traducibile come “La Landa del Non Ritorno”, una specie di Tartaro, di Inferno cristiano. Un territorio di dolore, dannazione, tremende torture e altrettanto efferate manifestazioni religiose officiate da Utuk-Xul, deità della distruzione e della morte, il cui nome è il titolo della prima traccia. Oppure una città abitata da dannati, l’interludio Bab-Illu si riferisce a Babilonia, conosciuta da noi occidentali come una fonte di corruzione, di depravazione. Oppure ancora il regno indiscusso di Ramanu, il dio amoritico del tuono.

Si dispiega così, anche grazie ai testi forniti dall’evocativa confezione del cd, su cui capeggia una raffigurazione di una divinità mesopotamica, un album costruito su più livelli, rinforzando l’impressione che i musicisti sovietici abbiano scritto pervasi da un’ineluttabile ispirazione.

Due parole veloci proprio su cosa vi troverete fra le mani nel caso decideste di acquistare in copia fisica il presente oggetto di recensione: un elegante libretto, corredato da immagini, foto dei componenti del gruppo, liriche -essenziali per poter fornire la vostra interpretazione a quanto ascoltato-, più le comuni informazioni riguardanti anno di composizione, ospiti, sessioni di registrazione, ringraziamenti. Una presentazione professionale, ben curata, da cui si evince l’attenzione per i particolari già intravista nella musica.

Su produzione e tecnica non è il caso di soffermarsi: se sulla seconda davvero non si potrebbe dir nulla, tranne elogiare il chitarrista Azag, autore dell’assolo in Under The Triden Of Ramanu, sulla prima è nota di rilievo la discreta resa sonora dei molteplici contributi del synth, che viene udito limpidamente, nonostante i voluti riverberi. Unica è la voce a risultare di ardua distinzione, incisa a basso volume, coscientemente impastata e priva di espressività, atteggiamento che, comunque, si addice al suo ruolo nell’architettura del disco. In ogni caso, seppur si collochi appieno nella proposta, essa, per chi non avesse sotto mano i testi, sembrerebbe un inesausto lamento, quasi non intellegibile.

In conclusione Erset La Tari è una perla di oscurità generata da un filone della nera fiamma solitamente elitario, chiuso, a volte incapace di, superata la fase distruttiva e violenta esternamente, comunicare un messaggio, di trasmettere un’emozione. Qui la barriera che divide sperimentalismo esagerato e canonicità è meno pronunciata, tanto da evidenziare un’apertura mentale non indifferente nei compositori. Inoltre l’insistere su una caratterizzazione maggiormente interiore, cadenzata, allucinata piuttosto che brutale, contribuisce a irretire il fruitore, via via sempre più coinvolto nella dinamiche della celebrazione a cui, suo malgrado, sta assistendo. In breve, il ritorno della tonante, disturbata eco degli indimenticati MZ412, a cui, non a caso, i Goatpsalm dedicano la presente opera.



VOTO RECENSORE
85
VOTO LETTORI
47.93 su 16 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2012
Aesthetic Death
Black/Ambient
Tracklist
1. Utuk-Xul
2. Bab-Illu
3. Under The Trident Of Ramanu
Line Up
Baal Shaggashtu (noises, synth)
Baal Utukku (vocals, noises)
Baal Shedu (guitars)
 
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