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Pale Divine - Pale Divine
18/12/2018
( 2039 letture )
A volte ritornano. E come ritornano!

Ci si chiede spesso, al giorno d’oggi, come possano (ancora) stare a galla i generi più tradizionali del metal, come nella fattispecie il doom, estendendo per analogia lo stesso discorso a chissà quanti altri sottogeneri musicali. O ancora - rimanendo nei territori prediletti del recensore - : è (ancora) possibile scrivere, oggi, un buon album di doom metal? Per capirci: uno di quei lavori che inseriamo nello stereo, che ascoltiamo da cima a fondo senza annoiarci mai, ci soffermiamo sui testi, lo sezioniamo, ne ascoltiamo singoli frammenti, ripetiamo “questo” assolo, alziamo ancor più il volume quando spunta “quella” linea di basso o ci concentriamo meglio su “quel” pattern di batteria e, poi, lo leviamo dal lettore, dispiaciuti, dopo chissà quanti ascolti. Risposta affermativa, i Pale Divine ce l’hanno fatta. Pale Divine entra meritatamente di diritto, quindi, nella (sempre più) ristretta cerchia di questi lavori.

Pale Divine è l’omonima, quinta fatica discografica sulle lunghe distanze di una band che senza dubbio alcuno poggia la propria filosofia discografica sul concetto di “pochi, ma buoni”. Perché pochi sono i lavoro in studio (cinque, appunto) di questo monicker della Pennsylvania, ma tutti contraddistinti da una qualità media fuori dal comune, per una band che comincia a muovere i primi passi nel fitto sottobosco underground doom statunitense nel 1997, con la pubblicazione della demo Crimson Tears, e vive una fase artistica feconda negli anni “zero-zero”: l’esordio Thunder Perfect Mind (2001, per Game Two Records) è il preludio ai successivi, due picchi, Eternity Revealed (2004, per Martyr Music Group) e Cemetery Earth (2007, per I Hate). Sei anni sono trascorsi dall’uscita di Painted Windows Black e in sei anni ne sono cambiate di cose per la band. Andiamo per gradi: il veterano Ron McGinnis sostituisce Jerry Bright al basso. E l’apporto del nuovo entrato, in questo lavoro, è di notevole caratura. Della serie: buona la prima. Seconda, sostanziosa novità del 2018 in casa Pale Divine: in pianta stabile entra Dana Ortt, cantante/chitarrista, nonché leader dei Beelzefuzz. Se ad alcuni questo nome dirà poco o niente, è la risposta più verosimilmente credibile riguardo al lungo periodo di silenzio (2012-2018) della band di Diener/McCloskey. I Beelzefuzz sono una hard/doom band di recente formazione (2009) che, dopo varie vicissitudini legali legate al nome, vinte da Dana Ortt, hanno pubblicato l’album sophomore – vivamente consigliato - nel 2016, The Righteous Bloom. In questo lavoro figurano Greg Diener, aggregatosi nel 2014 alle fila di Ortt, e Darin McCloskey, entrato nel 2011, ed entrambi sono tuttora membri della creatura di Ortt, che è prossima a pubblicare l’atteso, terzo lavoro. Quindi no, Diener e McCloskey non se ne sono stati con le mani in mano in questo lasso di tempo, nel caso qualcuno se lo fosse chiesto.

Pale Divine prosegue il sodalizio avviato nel 2012 con Shadow Kingdom Records ed è, manco a dirlo, frutto anche dell’esperienza dei due membri fondatori nella band di Dana Ortt. “Anche”, perché non siamo al cospetto di un copia/incolla sbiadito di The Righteous Bloom, né di una sua scarsa imitazione. “Anche”, perché Pale Divine parla un doom magnificamente contaminato da tutti i dialetti acustici che gli sono più vicini: epic, NWOBHM, stoner e fiumi di rock settantiano che si protrae, quest’ultimo, fino al mood degli Alice in Chains e ritornelli ficcanti. Quarantasei minuti antologici che rendono questo lavoro il più accessibile della carriera dei Pale Divine, grazie anche alla produzione nitidissima, che risalta ogni singola vibrazione. Per esempio, Spinning Wheel si articola su tre segmenti: dapprima è un possente tempo lento costruito su un riff doom/epic, d’antan, ma efficace, che poi si apre in un chorus di matrice heavy facilmente memorizzabile, converge successivamente in un blues sporco sempre puntellato da un lavoro eccellente di Diener in fase solista e, infine, riprende il motivo iniziale inserendo una sessione à la Cantrell. In Bleeding Soul c’è più omogeneità nella proposta: niente segmenti in successione, ma solo un altro mid-tempo doom, soave, farcito da un assolo torrenziale, stop ‘n’ go e richiami alla scena epic ottantiana. Chemical Decline/So Low rappresentano, a detta di chi scrive, i fiori all’occhiello del platter. In Chemical Decline, i Nostri miscelano sapientemente doom e scena di Seattle, per poi sfociare in una cavalcata maideniana (della prima ora), dove a svettare è la solita fantasia in fase di costruzione di Greg Diener. So Low è uno dei momenti doom di questo anno che volge al termine. Il basso saturo di McGinnis e la psichedelia stoner delle chitarre tessono il momentaneo tappeto che precede l’arrembaggio hard/blues sabbathiano della seconda metà, ma soprattutto l’epocale break che avviene a 5.52, tutto basso e chitarre, dove viene riesumata la carcassa dei Cirith Ungol. Un inno alla semplicità, un segnale a tutti i detrattori, un monito che viene rinforzato ulteriormente dalla chiusa raffinatissima e che cesella un brano che è luce salvifica. Con Curse the Shadows si chiude una prima parte eccellente e se ne apre una seconda nel complesso lievemente inferiore, ma dotata di singoli momenti altrettanto brillanti, come qui: a fronte del comunque valido heavy rock oscuro iniziale, arriva un altro break mozzafiato a 2.30, questa volta di natura hard seventies (manca solo l’hammond!), con il quale i Nostri portano a scuola chissà quante band cloni delle vecchie glorie, per riagganciarsi poi al motivo iniziale. Shades of Blues è il brano più lungo del lotto, quello più apparentemente doom, ma anche quello meno efficace, se non fosse per il cantato maiuscolo di Diener che ricrea la giusta atmosfera di una ballatona nera dell’era Staley e risolleva discretamente le sorti di un brano comunque più che sufficiente. Ci imbattiamo poi nella malinconica potenza di Silver Tongues, che si riaggancia alla prima parte di Chemical Decline, nei tempi e nei colori, dove il doom viene confinato ad alcuni brevi istanti di transizione e a poche, letali bordate. E dopo quaranta minuti di vigore e fragore doom declinato in più modalità, Ship of Fools chiude Pale Divine con un altro distillato doom in salsa psichedelica settantiana, nella quale a far da padrone sono il phaser e il wah di Diener, assoluto mattatore del brano ed ennesima dimostrazione di come i Pale Divine siano in grado di muoversi bene su più lidi.

Sorvolando su alcuni leggeri cali d’ispirazione percepiti nelle battute finali, Pale Divine, grazie alla miscela di generi racchiusi in esso e grazie alla forte personalità dei membri, vecchi e nuovi, si rivela a mani basse come uno degli episodi doom migliori di questo 2018. Se ci stavamo interrogando sulle sorti del genere, attualmente possiamo tirare un respiro di sollievo: al netto delle numerose sfumature interne, Pale Divine rimane un lavoro di doom puro, ancorato a certi stilemi, ma reso fresco dai guizzi solisti e ritmici. Forse l’innovazione non è proprio di casa nel doom, ma, se si tratta di sfornare musica di qualità, questo genere sarà sempre in prima linea. Col sorriso, a noi non resta che accontentarci…e stare sull’attenti per le prossime mosse in casa Pale Divine/Beelzefuzz. L’underground dell’East Coast è vivo e vegeto.



VOTO RECENSORE
80
VOTO LETTORI
80 su 1 voti [ VOTA]
Le Marquis de Fremont
Giovedì 27 Dicembre 2018, 13.17.39
5
Un disco che mi è piaciuto moltissimo. Oltre al songwriting che è sempre eccellente (come nel precedente) mi piace molto questo sound. Probabilmente qualcuno ci vede cose non innovative ma personalmente non mi interessa e gira spesso sui miei device. Tra le migliori uscite di questo (ottimo) 2018 che si chiude. Au revoir.
lucignolo
Mercoledì 19 Dicembre 2018, 19.17.36
4
Si fa presto a criticare....spesso sbagliando e non rendendo merito all'album e alla band,nonvoglio abbassare la media del voto quindi voterò 80 come da suggerimento di Giax,ma il mio voto si avvicinerebbe più sul 70/75,poi tutto è personale e soggetto ad errore.L'album mi piace,ma ci sono delle cose ad "istinto" che non me lo fanno apprezzare a pieno.Il suono mi piace anche se mi sa un pò di "forzato", non tutti i brani sono sullo stesso livello o non rendono perdendo di potenza,e poi la voce,non mi prende,non ha pathos,eppure è naturale come piace a me,ma non rende come dovrebbe.Mi devo scusare,forse non dovevo commentarlo e forse il tempo gli renderà merito,se non mi fosse piaciuto non lo avrei commentato,ma è un album che merita sicuramente.ciao
ObscureSolstice
Martedì 18 Dicembre 2018, 22.49.34
3
Well, well... mi ha incuriosito. Per niente male. Suona molto bene, buon ritorno. Siamo su altezze da 80 eccome e qualcosina anche di più
No Fun
Martedì 18 Dicembre 2018, 19.29.05
2
#1 Ah ah, anch'io letto il nome ho pensato alle pale eoliche La rece mi ha molto incuriosito (purtroppo, cheppalle, maledetto Giax...)
Analizzatore
Martedì 18 Dicembre 2018, 12.29.53
1
Ma oltre a ritornare girano?
INFORMAZIONI
2018
Shadow Kingdom Records
Doom
Tracklist
1. Spinning Wheel
2. Bleeding Soul
3. Chemical Decline
4. So Low
5. Curse the Shadows
6. Shades of Blue
7. Silver Tongues
8. Ship of Fools
Line Up
Greg Diener (Voce, Chitarre)
Ron McGinnis (Basso)
Darin McCloskey (Batteria)
 
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