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Bark Psychosis - Hex
27/07/2019
( 1307 letture )
Solitamente, per un musicista il silenzio non è un buon amico. Il musicista tende a volerlo riempire, il silenzio, a ricamarlo con cascate di note che cancellino quel vuoto così fastidioso, così assordante. Ma quando nasci nella caotica Londra degli anni Ottanta, perennemente circondato dal rumore, il silenzio inizia ad assumere connotati molto diversi.

"Me and John had been doing it a couple of years before we started in 1987. When I was 14, I was into Sonic Youth, Butthole Surfers, Big Black and those hardcore bands. Swans... it kind of has quite an impression on you when you’re at that age. When we started it was just a complete sheet of noise. We were like a hardcore band, but hardcore in terms of attitude. 1989 was really a hard time. I was turned onto all these great bands. This really loud guitar stuff. But for some reason I just flipped one day and I realized silence could have a much greater impact than loud noise. I’ve been into dub stuff for fucking ages. Space and silence are the most important things you can use in music."

Così parlava Graham Sutton, leader dei Bark Psychosis , in un’intervista risalente al lontano 1994 successivamente all’uscita di Hex. Fino a quel momento, il gruppo si era mantenuto su uno stile che attingeva a piene mani dal noise che si era sviluppato negli anni Ottanta, e prima dell’uscita di Hex aveva alle spalle solo una manciata di demo e di singoli di dubbia importanza... almeno fino all’illuminazione del leader sopra descritta: l’utilizzo del silenzio, non solo come pausa riempitiva tra un’improvvisazione e l’altra, ma come elemento cardine del suono. E così, sulla scia di shoegaze, dream pop e delle improvvisazioni di gruppi come i Talk Talk di Spirit of Eden, i Bark Psychosis si ritrovarono quindi per le mani un’arma potentissima, una catarsi in musica in cui l’ascoltatore viene isolato da tutto il resto e ha la possibilità di ammirare, da un punto di vista esterno, il mondo che gli scorre addosso.

Loom si apre con soffici note di piano che subito lasciano spazio agli arpeggi di chitarra, dando vita ad un pezzo classicheggiante ed etereo che si evolve in ritmiche vicine al funk. Non sono passati che pochi minuti, e siamo già stati catapultati nel mondo ritratto nella splendida copertina; vediamo i colori della città in movimento, le luci che guizzano intermittenti, ma tutto ciò è molto lontano: noi siamo seduti sull’erba, col vento tra i capelli, ed ammiriamo da lontano il caos e la frenesia della città. Una dissolvenza non ben definita chiude Loom e lascia il campo all’ipnotica A Street Scene, pezzo dai sapori jazz che si regge sull’alternanza di esplosioni e silenzi, fino alla chiusura che vede il basso protagonista. Absent Friend e Big Shot si muovono all’incirca sulle medesime coordinate: più jazzata e ragionata la prima, più oscura e sognante la seconda. Ma è con la seconda parte del platter che arriviamo ai veri capolavori, a partire da Fingerspit: senza dubbio la traccia più sperimentale del lavoro, minimalista, oscura e a momenti terrificante. In alcuni punti la voce di Sutton sembra quasi rompersi, circondata dal rumore mentre batteria e tastiere si muovono apparentemente senza controllo. Eyes & Smiles è forse la vetta emotiva dell’album; mellotron, chitarre e tromba si mescolano in una traccia struggente sorretta dal drumming mai così preciso di Simnett, fino al crescendo finale in cui il brano crolla su se stesso, mentre gli strumenti si dissolvono pian piano e rimangono solo le urla disperate di Sutton. Chiude l’album la sontuosa strumentale Pendulum Man, canzone in cui prevale il lato ambient che, se da un lato regala un profondo senso di tranquillità e serenità, dall’altro fa capire che il viaggio sta per finire e il ritorno alla cruda realtà si avvicina.

Leggenda vuole che la nascita del termine "post rock" passi proprio da quest’album, così particolare e difficilmente classificabile da costringere Simon Reynolds a coniare questa nuova definizione in occasione di una recensione per la rivista Mojo. Questo dovrebbe bastare per far capire l’importanza di un disco destinato a dare nuova linfa a una corrente musicale prolifica ancora oggi, venticinque anni dopo.
Fondamentale.



VOTO RECENSORE
90
VOTO LETTORI
96.75 su 4 voti [ VOTA]
tartu71
Lunedì 29 Luglio 2019, 9.43.19
4
disco che ho appena ricomprato in cd... che dire...pietra miliare....inventano il post rock
gamba.
Lunedì 29 Luglio 2019, 0.41.16
3
grazie mille per la recensione, conoscevo già l'album in questione ma in questi giorni ho ripreso ad ascoltarlo, non l'ho mai assimilato bene pur comprendendo di essere di fronte a qualcosa di unico e speciale, ne sto quindi approfittando.
Michele
Sabato 27 Luglio 2019, 19.09.05
2
Uno dei più grandi dischi della storia del rock.
God of Emptiness
Sabato 27 Luglio 2019, 11.43.48
1
Grazie metallized, questi non li conoscevo davvero, album magnifico!!! La musica si fonde con la copertina alla perfezione
INFORMAZIONI
1994
Circa
Post Rock
Tracklist
1. Loom
2. A Street Scene
3. Absent Friend
4. Big Shot
5. Fingerspit
6. Eyes & Smiles
7. Pendulum Man
Line Up
Graham Sutton (Voce, Programming, Chitarra, Pianoforte, Hammond)
Daniel Gish (Tastiere, Pianoforte, Hammond)
Neil Aldridge (Triangolo, Programming)
Pete Beresford (Vibrafono)
Phil Brown (Flauto)
Del Crabtree (Tromba)
Dave Ross (Djembe)
Louisa Fuller (Violino)
Rick Coster (Violino)
John Metcalfe (Viola)
Ivan McCready (Violoncello)
John Ling (Basso, Programming, Percussioni)
Mark Simnett (Batteria, Percussioni)
 
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