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Secrets Of The Sky - To Sail Black Waters
( 2142 letture )
Chi tende continuamente "verso l'alto" deve aspettarsi prima o poi d'essere colto dalla vertigine. Che cos'è la vertigine? Paura di cadere? Ma allora perché ci prende la vertigine anche su un belvedere fornito di una sicura ringhiera? La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura.
(da “L'insostenibile leggerezza dell'essere”, di Milan Kundera)


I Secrets Of The Sky incarnano l'ideale kunderiano per cui la stessa leggerezza può divenire un insostenibile fardello, riuscendo ad intrecciare in modo manieristico le linee strumentali affinché, attraverso le loro evoluzioni di umori, si provi una vertigine emotiva, nell'instabilità di un tuffo nel cielo.
To Sail Black Waters, questo il titolo dell'esordio sulle scene del sestetto di Oakland, raccoglie quattro tracce, per un running time di quaranta minuti scarsi in cui si alternano passaggi doom/sludge ad arpeggi post-rock, sequenze ambient a sfuriate cadenzate tipiche del post-metal, il tutto condito dall'ugola versatile di Garett Gazay, che passa da uno scream belluino a un pulito soave, attraversando una vasta gamma di timbri vocali.
Definire in modo unico lo stile della band californiana è un'impresa ardua, dato il carattere mutevole delle composizioni a cui questa dà vita, brani di lungo minutaggio in cui si susseguono cambiamenti così numerosi da rendere più calzante il termine “peregrinazione” rispetto a “canzone”.

Gli ormeggi vengono sciolti con Winter, aperta da fraseggi delle chitarre clean che sfociano in una melma doom, con ritmiche pachidermiche, arpeggi dissonanti e vocals abissali, ma quando si crede di aver intuito l'andamento del brano ecco spuntare una nuova sezione senza distorsione, con il basso che impatta direttamente sul timpano ed i sussurri che si nascondono tra le plettrate di chitarra, culminano in un episodio solistico. Le tre chitarre, indiscusse protagoniste di questa release, riescono ad alternarsi nel ruolo di costruzione di un gigantesco muro sonoro, la cui durezza è testata a più riprese dai colpi di batteria e basso, ritmando e caricando di groove i passaggi più lenti, lasciandosi a tratti a scansioni vicine al prog. Quando la divisione si fa più intricata, le sei corde esplorano territori riverberati ed allucinanti, richiamandosi da un orecchio all'altro, giocando in armonie ed inseguendosi in cascate di delay ed effettistica.
Decline è il brano più evocativo del lotto, in grado di contrapporre la plumbea disarmonia dell'apertura con un climax che ne ribalta l'atmosfera nell'arioso ritornello. Questo è preceduto da uno stacco con le chitarre in bending, che procrastinano all'estremo la risoluzione della tensione accumulata durante il brano, fino a quando questa viene sciolta dai synth impalpabili e dal timbro pulito di Garett. Una spirale di chitarre, acustiche ed elettriche clean, crea una scala di cristallo su cui inerpicarsi fino al tetto delle nuvole, fino ad osservare il sole sorgere sulle note dell'assolo orientaleggiante. Ma la conquista dei pilastri del cielo dura per pochi istanti, perché si ricomincia a cadere dopo pochi giri, al suono del tema di apertura del brano. L'impatto perde di consistenza, l'aria si tinge di epicità con la marcetta scandita da Lance Lea sul rullante, il trittico Anderson/Bartholomew/Green costruisce per l'ultima volta una fragile architettura, fili di ragnatela che si dipanano come seta direttamente dai manici delle chitarre, sfumando infine in echi ambient.
Sunrise è paradossalmente introdotta da un tema notturno, dal sound molto vicino al doom, lasciando dilatare i suoni senza fretta nelle pennate, onde mastodontiche che si infrangono su una scogliera di ardesia, per poi virare improvvisamente nel ritornello e trovare una crescente solarità, quando le nubi scoprono per un momento il cerchio luminoso. Cascate di arpeggi creano un suggestivo intermezzo prima della ripresa del chorus, che prelude ad un finale solenne ed epico, con i cori che avvolgono le squassanti mazzate delle corde e delle pelli, lasciando al dolce sciabordio delle onde.
I cerchi che si propagano sulla superficie increspata dell'acqua aprono Black Waters, ricreati dai delay e le pennate in palm muting delle chitarre, sussurri ipnotici, figure che cominciano a liquefarsi e perdere i contorni, con il tempo che si fossilizza in un lento annegare. Quando l'acqua si fa largo a forza nelle vie respiratorie arriva l'impatto, garantito dall'ossessiva ritmica del brano e dal basso, ancora una volta in prima linea quando si tratta di conficcare i colpi nella carne.
Le geometrie melodiche si dilatano lentamente, arricchendosi in dettagli ad ogni giro strumentale, interessando una finestra d'ascolto sempre più ampia e indefinita, come se ci fosse un oceano pronto ad avvolgere l'ascoltatore, facendo percepire la sensazione di un vuoto ed il suo richiamo affascinante. Le linee vocali filtrate si alternando a synth e melodie psichedeliche, spalancando una voragine sotto i piedi. L'ultima barriera è caduta, il sigillo infranto: è tempo di guardarsi allo specchio, osservarsi in una grigia spirale d’acqua e decidere se intraprendere il viaggio dentro di sé, se rispondere al richiamo dell'abisso e lasciarsi andare - e il naufragar m'è dolce in questo mare. Le progressioni in crescendo e le clean vocals di Garett riescono a cullare, infondendo sicurezza, prima di lasciare un'ultima volta con il fiato sospeso.
La prestazione dei Secrets Of The Sky è ineccepibile ed incredibilmente curata a livello sonoro, sfruttando una serie di effetti molto azzeccati e potendo contare su una produzione robusta e versatile, tanto in grado di assecondare il lato greve dei passaggi doom quanto l'ariosità del riffing delle chitarre pulite, avvolgendolo con suoni eterei e facendo perdere di consistenza, in un vero e proprio inno alla leggerezza. Un plauso in particolare al polimorfismo vocale di Garett Gazay, in grado di dare una performance adatta ai più eterogenei contesti.

In definitiva, To Sail Black Waters è un debutto interessante, in grado di emozionare a più riprese e di sorprendere con i cambiamenti che gli americani imprimono al proprio songwriting; un'opera densa e ricca di materia, che necessita di ripetuti ascolti per essere approcciata, ma in grado di acquisire nuovi chiaroscuri al termine di ognuno di essi; per contro, questo lavoro inizialmente potrebbe suonare ostico anche chi è abituato ad una tale eterogeneità, proprio perché spazia profondamente tra i generi, puntando ad unire i punti forti di ciascuno di essi.
Consigliato vivamente a chi ama la complessità ed è disposto ad investire il proprio tempo per approfondire l'ascolto.



VOTO RECENSORE
79
VOTO LETTORI
95 su 1 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2013
Kolony Records
Post Metal
Tracklist
1. Winter
2. Decline
3. Sunrise
4. Black Waters
Line Up
Garett Gazay (Voce, Tastiere, Violino)
Chris Anderson (Chitarre, Tastiere)
Clayton Bartholomew (Chitarre, Tastiere)
Andrew Green (Chitarre)
Ryan Healy (Basso)
Lance Lea (Batteria)
 
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