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Orthodox - Proceed
11/02/2023
( 284 letture )
Gli Orthodox sono una band drone doom con elementi stoner, oltre a un rarissimo caso di omonimia con un’altra band passato in sordina, cosa molto rara visto che sovente si finisce a dover cambiare monicker in seguito a dispute legali. Ritornano in pista dopo aver già pubblicato sette full lenght e due EP, annoverando all’interno del proprio curriculum una discografia invidiabile, per una band attiva da circa quindici anni. Da segnalare in particolare Baal e Sentencia, i due full lenght che fanno un po' da spartiacque all’interno della loro carriera. Detto questo, è bene sapere che gli Orthodox vengono da Siviglia, la band andalusa è formata da tre elementi: Marco Serrato si occupa di voce e basso, Ricardo Jimenez alla chitarra e Borja Diaz dietro la batteria. Siamo pronti quindi ad addentrarci nell’ascolto dell’ultimo lavoro degli Orthodox, che prevedono per noi non un ultimo tango in Andalusìa, bensì un viaggio di quaranta minuti a cavallo di stoner, doom e drone metal.

Si danno qualche giri ai motori con l’attacco di Past Seers, dove nei primi tre quattro minuti ci si assesta quatti quatti in territori stoner, non lesinando qualche accenno di digressioni quasi progressive, dopodichè si romba davvero, con la furia vocale che esplode fragorosa e riff sulfurei con cambi di tempo repentini. Passata l’opener, la successiva Abendrot si preannuncia più marziale, i tempi sono molto distesi ma vengono scanditi con accenti tumultuosi, onde per cui il viaggio si tramuta in un loop continuo e si ha la sensazione di sentire un deelay prolungatissimo, con le urla che si sentono solo in lontananza. Se finora la sensazione è stata simile a quella di sentire i Meshuggah alle prese con partiture degli Sleep dopo che si sono fumati anche i remi delle barche, dalla terza traccia le cose cambiano. In Rabid God compare subito una batteria forsennata con un ritmo marcatamente grooveggiante, intervallata con affondi doom dal riverbero ossessivo. Con Starve non solo si ritorna su coordinate doom di stampo più tradizionale, ma si riesce anche ad uscire nettamente fuori dal confine, andando a sforare in pieno territorio sludge, con molti elementi noise. Qui domina sicuramente il miscuglio di dissonanze e urla assordanti, ma allo stesso tempo non mancano parentesi dove ci si abbandona alla sperimentazione, per poi tornare di gran carriera ai tribalismi imponenti che avevano caraterrizzato la prima parte del brano. Torna a mettersi in luce il basso all’inizio di The Son, The Sword, The Bread, come era accaduto in occasione dell’opener, ma nel proseguimento della tracklist era lentamente sparito, rimanendo invischiato all’interno del marasma sonoro che tutto risucchia. A parte il ruggire del basso, quello per cui si differenzia l’episodio in questione, rispetto ai restanti dell’album, è anche per il lungo monologo del frontman, quasi invocazioni pesudo sciamaniche verrebbe da dire. Tuttavia, in una traccia d quasi dieci minuti, ci sono altre cose da segnalare, come la spianata di batteria esattamente a metà brano, dopo di chè si conclude la suite riportando nuovamente il mood nei territori onirici ed evocativi in precedenza, con un breve accenno di arpeggi orientaleggianti. Chi però termina davvero l’album è The Long Defeat, un altro monolite di dieci minuti cui spetta l’arduo compito di porre fine a tutto, e lo fa in modo grandioso. Si annuncia subito come un traccia dall’impulso distruttivo, con un riff imponente e rabbiosamente minaccioso, mitigato all’inizio dai rintocchi di batteria, ben sapendo di potersi scatenare nel giro di poco tempo. Lo stesso percussionista imbastisce nei secondi successivi un fill quadrato e continuo, che costituisce l’ossatura del lungo segmento tribale destinato ad accompagnarci fino a metà traccia. A questo punto adempie al suo ruolo e, dopo un brevissimo accenno di assolo, ci lascia nella fauci della rabbia pura, che esplode per un minuto abbondante. Si ritorna poi nella dimensione landscape a cui la band ci ha abituato finora, con una sezione strumentale gorgogliante, mentre le urla provengono da lontano e affiorano solo in brevi momenti ai nostri padiglioni auricolari. Si riaffaccia quindi la componente doom, con sollevamenti profondi e scanditi a cadenza regolare. La voce si lancia poi in un ultimo disperato urlo, destinato alla dissolvenza per poi essere dimenticato, lasciando poi spazio ad una jam session dai retaggi jazz e blues.

Gli Othodox danno alle stampe un disco visionario, atmosferico senza mai necessariamente sforare nell’onirico, ma anche carico di qualche moto di rabbia e di drammaticità. Se difatti si deve sottolineare il lavoro svolto dal riffing chitarristico, e anche l’ottima performance di Serrato al basso, è però l’aspetto evocativo l’elemento chiave del loro lavoro, o quantomeno che la band ha voluto mettere in primo piano, affinchè avesse il maggior peso sul piatto della bilancia. Non so voi, ma durante tutto l’ascolto ho avuto l’impressione prima di essere sballottato dentro la centrifuga e, da metà album in poi, di trovarmi catapultato a vagare in mezzo al deserto. Quando si riescono a trasmettere suggestioni così vivide ed efficaci è sempre un buon segno, quindi questo certamente aggiunge un sacco di punti in fase di valutazione. Quello che però manca a Proceed per passare da essere un buon disco ad un ottimo album è la profondità, ovvero sia il riuscire ad avvinghiare l’ascoltatore lasciando il segno in modo deciso, mentre quando arriva il momento in cui dovremmo provare il senso della disperazione o dell’oblio riusciamo sì a percepirli, ma non a sentirli in modo così tangibile. Ciò non toglie che gli Orthodox ci regalano l’ennesima prova soddisfacente, dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, che sono un gruppo solido e sinonimo di garanzia. Quella stessa garanzia che ci porta ad attendere il prossimo lavoro con aspettative elevate, mentre nel frattempo ci immergiamo ancora una volta in questo Proceed.



VOTO RECENSORE
73
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2022
Alone Records
Stoner/Doom
Tracklist
1. Past Seers
2. Abendrot
3. Rabid God
4. Starve
5. The Son, The Sword, The Bread
6. The Long Defeat
Line Up
Marco Serrato (Voce, Basso)
Ricardo Jimenez (Chitarra)
Borja Diaz (Batteria)
 
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