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Witchcraft - The Alchemist
23/11/2024
( 430 letture )
C’è un chiaro spartiacque nella carriera dei Witchcraft, ovverosia, di una delle più influenti band di ispirazione retro-rock nate dopo gli anni Duemila. Quello spartiacque è la pubblicazione di The Alchemist, terzo album di una serie che ha fatto storia, a suo modo, aprendo la strada a centinaia di altre band che hanno preso le mosse in quegli stessi anni o subito dopo gli svedesi. Dopo il leggendario esordio omonimo e la conferma di Firewood, il leader Magnus Pelander fu in grado di prendersi qualche tempo in più per la pubblicazione del terzo album e questo intervallo fu sfruttato al meglio, dato che il disco che ne seguì era al tempo stesso capace di seguire il solco tracciato dai due precedenti e di spingersi ancora oltre, acquisendo ulteriori nuove sfumature e confermando in toto la grandezza della band e del suo compositore unico.

L’unitarietà di intenti e ispirazione dei primi tre dischi è indiscutibile: quell’amore per le sonorità di fine anni Sessanta e primi Settanta rimane indiscutibile, come i suoni genuinamente vintage utilizzati, uniti all’ispirazione sempre rivendicata per alcuni gruppi, in particolare i Pentagram (ma non solo loro). Una coerenza stilistica e compositiva che Pelander riesce a rinnovare sempre, allargando lo spettro delle influenze e inglobando quindi anche elementi prog e folk, oltre al dark sound e al protodoom tipici. Una commistione che va a ripescare quanto realizzato da decine di band trent’anni prima riattualizzandolo con amore e devozione, senza stravolgerlo, ma utilizzandolo anzi con attenzione maniacale al dettaglio e alla coerenza artistica, senza scadere mai nel plagio o nel citazionismo puro. Le qualità compositive di Pelander d’altra parte sono note e decantate, così come l’ottimo livello strumentale della band, con l’inglese John Hoyles a costituire il contraltare solistico del band leader, alzandone tanto il livello tecnico quanto quello stilistico, grazie ai suoi sempre splendidi interventi. Assolutamente non secondari in questo contesto anche Ola Henriksson al basso e Fredric Jansson alla batteria, la cui dinamicità costituisce invece una delle caratteristiche base dei Witchcraft, con il primo peraltro sempre ben in evidenza nella registrazione analogica. Altrettanto si può dire delle qualità di Magnus come cantante, decisamente cresciuto a livello interpretativo rispetto al debutto e ora capace di utilizzare al meglio il proprio bellissimo timbro e di caratterizzare in maniera ancora più calda e compiuta le proprie sempre ottime linee melodiche.
Costituito da sei canzoni che variano dai tre ai sei minuti e dalla imperiosa titletrack, che invece supera i quattordici, nel complesso, The Alchemist conferma anche la capacità di sintesi di Pelander, che riesce a non dilungarsi ove non necessario, pur costruendo brani che, in particolare in questo terzo disco, si prendono il lusso di evoluzioni non scontate e piuttosto peculiari, con la scaletta costruita in maniera di partire dal brano più “semplice” ad arrivare a quello più complesso. Un po’ come i Black Sabbath di Vol. 4, si potrebbe dire. Il doom primigenio del gruppo, tinto di blues e distorsioni terrose, trova aperture verso soluzioni acustiche o anche meno scontate, come il lungo assolo di sassofono contenuto nella sorprendente Remembered, fino appunto alle commistioni folk e prog. E’ ovviamente The Alchemist a torreggiare in quest’ultimo senso, con la sua lunghezza, l’uso del flauto traverso ad accrescere l’atmosfera fiabesca e arcana e l’evoluzione a sezioni tra parti acustiche ed elettriche che confermano la freschezza dell’ispirazione di Pelander e la sua capacità di creare brani deliziosamente citazionisti eppure dotati di una propria identità. Sono forse anche gli Uriah Heep a emergere in mezzo alle altre influenze, in questo album e la citazione non appare affatto forzata.
In ogni caso, sarebbe un peccato ridurre l’interesse per il disco alla sola The Alchemist, dato che ogni canzone brilla di luce propria e basta la rullata che apre Walk Between the Lines o l’impetuoso riff di If Crimson Was Your Colour a rendersi conto che siamo ben oltre la qualità media di dischi del genere e, sì, le influenze dei Pentagram sono ancora ben evidenti. D’altra parte, la spettacolare entrata del sintetizzatore ci dice anche che i nostri sanno giocare anche qualche in più. Semplicemente perfetta Hey Doctor col suo riff blues iperdistorto e pesantissimo, di cui i Blue Cheer sarebbero orgogliosi, unito poi a una perfetta accelerazione con rullatona di batteria che fa tanto Black Sabbath prima maniera, non fosse per il sempre spettacolare assolo di Hoyten. Supremazia esibita con orgoglio e merito. Partenza strana, ossessiva, inquietante e condita di percussioni per Samaritan Burden, che poi esplode in un nuovo spettacolare riff, mentre la strofa si regge tutta solo sul basso e sulla splendida voce di Magnus. Le doppiature della voce nel proseguo non potrebbero essere più vicine ai Pentagram neanche volendo, ma è la parte strumentale a sorprendere con l’apertura folk acustica del lungo finale, a conferma che man mano ci si addentra nel disco e più le canzoni diventano particolari. Una direzione confermata dalla già citata e splendida Remembered, vero terreno di conquista per le chitarre, tra arpeggi, riff e assoli, prima dell’arrivo dell’alchimista.

Conferma delle qualità superiori di scrittura di Magnus Pelander e della sua ambizione compositiva, The Alchemist porta avanti il percorso della band ampliandone lo spettro di influenze, seppur rimanendo fedele alle proprie radici identitarie. Probabilmente, in molti preferiscono ancora l’acerba ma esaltante versione del debutto o la già più raffinata versione di Firewood, dalle quali The Alchemist prende le mosse per andare un pochino oltre. Eppure, è difficile ritenerlo meno che grandioso e riuscitissimo e chiudere con esso il trittico iniziale della band. Parlavamo infatti di uno spartiacque: dopo The Alchemist Pelander metterà a riposo la band per cinque anni, tornando solo nel 2012 con Legend, album che vedrà una sostanziale ridefinizione dell’identità della band e una quasi totale rivoluzione della formazione, poi proseguita quattro anni dopo da Nucleus, nel quale il solo membro stabile sarà appunto il band leader. Da quel 2016 l’attesa per un ritorno è stata interrotta unicamente dal controverso Black Metal, disco di fatto solista di Pelander e totalmente avulso da quanto fatto in precedenza sotto il nome dei Witchcraft. Difficile dire cosa riserverà il futuro. Certo è che fare oggi un passo indietro e riscoprire questo splendido The Alchemist appare quanto mai utile per ricordarci quando questa band sia stata grande, senza innovare nulla, ma rilanciando un certo modo di fare musica con passione e capacità. Un atto di amore che ha lasciato il segno e che merita di essere celebrato a dovere.



VOTO RECENSORE
84
VOTO LETTORI
76.5 su 2 voti [ VOTA]
Rob Fleming
Domenica 24 Novembre 2024, 12.01.47
2
Album a dir poco ottimo con The Alchemist (la canzone) in grado veramente di emozionare. Hey doctor e Leva sono puro Sabba Nero con (la prima) spruzzate di NWOBHM nella sua declinazione più arcana. If crimson was the color, per me va in una direzione che ci porta ad un Danzig hard rock, come la stessa Samaritan Burden (o Jim Morrison se si vuole). 83
Galilee
Sabato 23 Novembre 2024, 20.48.17
1
Gran bel disco, come un po\' tutti quelli dei Witchcratf.
INFORMAZIONI
2007
Rise Above Records
Doom
Tracklist
1. Walk Between the Lines
2. If Crimson Was Your Colour
3. Leva
4. Hey Doctor
5. Samaritan Burden
6. Remembered
7. The Alchemist
Line Up
Magnus Pelander (Voce, Chitarra)
John Hoyles (Chitarra elettrica e acustica)
Ola Henriksson (Basso)
Fredrik Jansson (Batteria)
 
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