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AUTUNNA ET SA ROSE - Parla Disorder
19/10/2006 (2685 letture)
Quello che vi chiedo adesso è un grande sforzo. Un grande sforzo perché le (molte) righe che seguono trattano in maniera per nulla superficiale di musica non strettamente attinente al nostro mondo, ma anche di letteratura, filosofia, pittura ed altre discipline artistiche. Sarebbe ideale che il lettore avesse già un’infarinatura di questi argomenti per apprezzare adeguatamente l’intervista, ma sarei molto soddisfatto se servisse per aprire nuovi orizzonti a qualcuno che non è ancora dentro certi ambiti artistici e si sentisse stimolato ad interessarsene. Disorder fa i complimenti alla nostra webzine per essersi interessata a queste discipline ed agli Autunna meglio di molte riviste specializzate, sono certo che i nostri lettori saranno all’altezza del complimento, dimostrando per l’ennesima volta quanto sbagliati siano i preconcetti su chi ascolta un certo tipo di musica.

1 – Partiamo proprio da te, credo che la descrizione del personaggio Disorder sia funzionale alla descrizione del progetto Autunna; che mi racconti?
Credo di non essere il soggetto più adatto a descrivermi... Per quanto riguarda il progetto Autunna et sa Rose tutto iniziò quasi per gioco nell’autunno del 1994, dopo avere passato anni a buttare giù varie poesie e scritti, tenendo in tasca sempre la passione per la musica: consci infatti di essere fortemente tentati di coniugare queste due forme espressive in maniera personale e sentita, secondo come noi volevamo comunicare quegli stati d’animo che provavamo e di cui scrivevamo, tentammo di dare un completamento più suggestivo possibile alle parole al fine di comunicare emozioni in maniera plurisensoriale. Non a caso la genesi del primo lavoro - Sous la robe bleue, datato 1996 - è negli scritti (varie composizioni di natura “velatamente” autobiografica), prodotti prima della nascita del progetto, ai quali è stato a suo tempo naturale ispirarsi, plasmandoli in una forma di drammatizzazione teatrale. L’idea della teatro-musica non è un qualcosa di tanto strano dal nostro punto di vista, dev’essere infatti la maniera più naturale ed al tempo stesso complessa ed elaborata per esprimere compiutamente le emozioni che ci hanno da sempre formato e che pertanto intendiamo trasmettere come contributo energetico fondamentale dello spirito. Il fruitore viene quindi condotto a passare attraverso una drammatizzazione teatrale che, in forma per nulla snobistica, rappresenta invece il mezzo principe per fare fuoriuscire le proprie ansie, le proprie gioie sepolte e portarne a galla la forza in esse intrinseca e latente. In scena si mette a nudo il proprio cuore, in sostanza.

2 – Il concetto che sta dietro a “L’Art et la Mort” è molto complesso, vogliamo partire dal booklet? Da frequentatore di mostre di pittura mi sono sentito a casa, nel senso che mi ricorda molto i cataloghi stampati in queste occasioni. All’interno poi c’è anche del tuo, no?
L’Art et la Mort è una collezione di brani di artisti di un recente passato, “riveduti e corretti” secondo una sensibilità contemporanea ed una chiave di lettura basata su inaspettate riverberazioni letterarie. Seguendo quindi una sorta di processo di destrutturazione di stampo cubista, i brani originali sono stati fatti a “pezzettini”, tessere di un puzzle ulteriormente tagliuzzate, contaminate e sbrindellate, ogni volta in base a parametri diversi, per poi essere ricomposti con esiti spesso sconvolgenti, tali da far assurgere le composizioni ad una nuova vita, solo apparentemente indipendente da quella cellula che le aveva generate. Le varie connessioni letterarie cui il lavoro nel suo complesso s’affida intessono una trama tematica incentrata sul rapporto tra Arte e Morte, in quanto entità complementari e interconnesse: la riflessione che segue da questo continuo raffronto può indubbiamente condurre a mete diverse, ma certo tenute insieme dal comune filo di una indagine interiore sull’essenza della morte, della natura dell’anima e della vita eterna. Durante questo processo di ricerca spirituale l’animo è condotto ad incontrare sul suo cammino diversi stimoli, rappresentati da diverse forme: l’idea della teatro-musica come io l’intendo, e come peraltro vari grandi artisti del passato hanno già fatto, è che vari linguaggi espressivi si debbano intersecare e fondere in un tutto, amplificando al massimo lo spettro emotivo e ricettivo del fruitore. La nostra ricerca trova certamente la sua massima espressione in un contesto che non può essere quello rappresentato da un freddo disco metallico, anche se bisogna dire che la progettazione di un’opera destinata al commercio, e quindi all’uso individuale, possiede aspetti di notevole stimolo, nel tentare di creare un supporto di memoria, che possa inoltre essere condiviso, in tempi magari lontani e con persone lontane. Per far questo il supporto viene visto come un oggetto che possa contenere chiaramente il maggior numero possibile di media, in maniera interagente e suggestiva: in tal senso la videoproduzione è quel campo che stiamo cominciando a coltivare, per ora con una certa cautela, presto si spera con più convinzione. La grafica è il punto di partenza di tale approccio, in quanto il video altro non è che immagini in movimento, le quali potranno essere anche immagini che da fisse mutano con continuità, secondo un criterio prefissato. Ogni pagina del booklet è allora fondamentale per entrare nella giusta atmosfera di ciascun brano, offrendo una corrispondenza figurativa, più o meno diretta, utile per esplorare al meglio le sfumature che parole e suono vogliono esprimere: ecco che allora il letto di tortura di Antonin Artaud viene immaginato mentre ai nostri occhi appare la spettrale visione delle manopole dell’elettroshock, ideale commento alle già straziante coro di voci interiori che occupano dispoticamente il cervello del geniale artista francese.

3 – Ti cito, (immodestamente), una frase della mia recensione che so tu hai apprezzato: “Molto Braqueianamente, necessità di andare oltre la forma”. Mi descrivi il tuo rapporto con la lezione cubista e con Braque in particolare?
Sono nato e cresciuto nel secolo scorso appena concluso, pertanto penso di essere prodotto di idee e pulsioni spirituali che l’hanno caratterizzato e anche nobilitato. Il modo in cui gli artisti cubisti vollero interpretare la realtà seguiva la lezione già dei fauves, ma esasperandone la carica dissacratoria e quindi provocatoria che poi darà origine alle altre avanguardie. In qualche modo, a mio modesto parere, proprio il Cubismo segna il “punto di non ritorno” per l’arte del Novecento, proponendo definitivamente un approccio che tanti altri pittori dell’epoca - anche nei paesi di lingua tedesca, tanto per dire – seguiranno ognuno con le proprie peculiarità ed influenze specifiche. La scomposizione della forma in piani diversificati, sia cromaticamente che prospetticamente, è in un certo senso l’esemplificazione di una realtà multidimensionale, la quale non si compone di figure puramente visibili, e che rimanda inevitabilmente alle idee che dagli anni dieci cominciarono (con fatica) a diffondersi negli ambienti culturali e scientifici del tempo, alludo alle teorie di Heisenberg, Planck e soprattutto Einstein, ossia la fisica atomica e la teoria della Relatività. Vedere oltre il visibile, insomma, fu l’obiettivo di questi artisti e scienziati: anche per noi è l’ora di accogliere una “Nuova realtà”, sfuggendo sempre se possibile alle prime apparenze, perché proprio così i grandi del passato che abbiamo ricordato sono riusciti a tradurre il vero linguaggio della Natura, la quale esiste e spesso detta le sue leggi presentandoci dapprima una forma che poi fatalmente, di punto in bianco sconvolge.

4 – Ho avvertito chiaramente “L’Art et la Mort” come progetto solo parzialmente musicale, ed i riferimenti alla letteratura ed al teatro mi sembrano palesi. Artaud, Pasolini, Baudelaire, mi parli della “contaminazione” di queste altre forme d’arte che io ho interpretato come parte integrante del lavoro?
Come già scritto, è proprio Autunna et sa Rose che non è un progetto musicale in senso stretto. La letteratura, il cinema, il teatro (quasi più come “contenitore” e punto di arrivo, che come pozzo dal quale trarre specifici riferimenti) sono sempre stati per noi fonti di ispirazione determinanti per la nostra ricerca. Già dagli esordi ci siamo caratterizzati in tal senso in maniera netta, scegliendo di presentarci con un lavoro che in copertina aveva un fotogramma – carico di cardinali allusioni simboliche – tratto dal film La doppia vita di Veronica, del compianto regista polacco Kieslowski, già autore della famosa trilogia Trois couleurs (Film blu, bianco e rosso associati ai tre colori della bandiera della Francia, suo paese d’adozione). Il brano d’apertura di quel lavoro era proprio L’Art et la Mort di Artaud. Cinema e teatro s’intersecano e a volte s’identificano, non fosse che il cinema è da sempre ritenuto più “artificioso”, in quanto arte costruita, che non ha di solito il dono della contemporaneità espressiva. In entrambe le forme d’arte – e perché no, anche nella musica! - la poesia come mezzo espressivo può e dovrebbe ancor oggi giocare un ruolo determinante, intesa sia nella sua forma tipicamente letteraria, che nella raffigurazione visiva di scene, in termini della fotografia o dell’uso strategico delle immagini in generale. In ogni caso, reputo che proprio nel teatro si crei la sintesi vera di tutte le forme d’arte, in un’ideale Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale) sullo stile wagneriano, se vogliamo, o meglio ancora sulla scia spirituale delle grandi sinfonie di Mahler, inneggianti al potere delle forze della Natura.

5 – Esperienze artistiche come Surrealismo, Futurismo, Der Blaue Reiter, hanno avuto un peso o una influenza nella tua formazione?
Beh, certamente non un peso, non vedo come avrebbero potuto! Hanno avuto un’influenza importante per la produzione dei miei lavori, e più in generale rappresentano un bagaglio culturale che cerco tuttora continuamente di approfondire…

6 – Conosci il lavoro di Braque per il balletto di Djaghilev?
Sì, ho visto una nutrita serie di bozzetti alla mostra sul Cubismo a Ferrara nell’autunno del 2004, ma ho un ricordo comunque piuttosto vago, non avendo con me alcuna stampa dei lavori. Tra le cose notevoli di quel periodo ci fu anche il Ballet mécanique di Fernand Léger.

7 – La scomposizione della forma per trovare significati occulti restituisce i brani scelti per L’AELM sotto una luce insospettabile, quando cominci la destrutturazione miri ad un certo risultato o sei come quegli scultori che lavorano per eliminazione dell’eccesso dal blocco iniziale, cercando quello che è già insito nel tutto?
Bella domanda… La destrutturazione ha finalità fondamentalmente sovvertitrici, dell’ordine precedentemente stabilito, del clima di piattezza che regna in taluni ambienti e “cosche” musicali. Certamente essa viene condotta secondo regole ed idee motrici che debbono portare ad un certo risultato, quello che si vuole offrire con quest’opera di rivoluzionamento: ad esempio, il brano N’importe où hors du monde, il cui testo è tratto dall’omonimo scritto di Charles Baudelaire contenuto nella celebre raccolta Le spleen de Paris, reca il secondo titolo francese del componimento, sottostante quello in inglese, Anywhere Out Of The World, che, forse inconsapevolmente, Dead Can Dance utilizzarono per il loro brano. Ossia, che il testo di Brendan Perry fosse ispirato allo scritto del grande poeta francese non ci è dato di sapere, la cosa che però appare chiara è che esso non ha un’attinenza diretta con il dialogo tra il poeta e la sua anima, come racconta Baudelaire. E’ tuttavia presumibile che Perry amasse e tuttora ami il grande Charles e che possa essersi comunque lontanamente ispirato a quello scritto per comporre il proprio brano. La mia operazione ha reso assolutamente concreta tale ispirazione più o meno presunta, lavorando massicciamente sul testo del francese, al fine di rendere totale ed effettiva la “musicazione” dello stesso, a partire da alcune cellule sonore del brano degli australiani. Pertanto la destrutturazione mira ad un preciso fine, anche in termini strutturali, dal momento che, come nel caso del brano appena considerato, l’organico strumentale e la forma costitutiva del pezzo furono scelti dall’inizio (le due voci, una alternata tra recitazione e canto come voce “portante” il testo, o meglio sfuggenti frammenti di questo, l’altra pronta a ricalcare i nomi delle quattro località proposte dal poeta all’anima, e tra esse il violoncello – e, nel finale, il crescendo orchestrale ad accompagnare l’esplosione dell’anima). La cosa generalmente obbedisce quindi ad un progetto compositivo, che, magari, volta per volta si sviluppa in base a differenti criteri e intenzioni iniziali. Tanto per dire, Kyfi è nata da una cellula sonora – peraltro ricorrente nell’originale Egypt dei Tuxedomoon – sulla quale si è deciso di operare in termini improvvisativi secondo uno stile minimal, eliminando il testo di Steven Brown, comportandoci proprio come gli amici americani, come se essi avessero deciso di sviluppare una delle loro mitiche sessions d’improvvisazione sul tema del loro brano. In tal caso, magari, la questione che hai sollevato fa pensare, appunto perché l’idea di quest’ultimo brano citato potrebbe essere venuta da un’esigenza di “cercare quello che è già insito nel tutto”, come tu dici. Rimane però il fatto che non ci è stata tramandata alcuna versione super-improvvisata di Egypt, se mai i Tuxedomoon avessero, anche soltanto in prova, osato in tal senso; forse, magari si è riusciti a indovinare un loro pensiero musicale, un sogno sonico che essi potevano aver celato negli anfratti dei loro straordinari cervelli. Tuttavia credo che il parallelo con l’attività dello scultore (classico) non s’addica troppo alla causa, in quantoché qui non ho comunque lavorato per eliminazione dell’eccesso da un grezzo blocco iniziale, ma semmai manipolando e trasformando qualcosa di già formato, non una massa informe; si potrebbe forse paragonare l’attività di destrutturazione ad un genere di scultura diverso, per certi versi similare ai ready made di Duchamp (che ambiva a decontestualizzare l’opera facendole assumere un significato totalmente stravolto), o meglio ancora all’opera di scultori contemporanei come ad esempio Bruno Munari, che assemblava materiali diversi con finalità nuove, come fare “cantare” una macchina da lui inventata o costruire un oggetto che muti forma interagendo con l’ambiente circostante.

8 – Questa scomposizione porta ad evidenziare un altro concetto che ti sta a cuore, quello della distinzione tra l’essere e l’apparire.
Mi conforta molto il fatto che tu abbia notato come il processo di destrutturazione de L’Art et la Mort abbia in qualche modo a che vedere con la “distanza tra l’essere e l’apparire”, uno dei capisaldi della nostra poetica che abbiamo sempre segnalato come principale piaga di questo mondo di “uomini perfetti” in cui le emozioni vengono mascherate per rifuggire miseramente nei meccanismi ”plasticosi” dell’apparenza a tutti i costi. A dir il vero non avevo pensato che ci potesse essere un preciso collegamento in tal senso, e la cosa ora mi fa pensare, come se in realtà io abbia prodotto tutto ciò pensando fortemente a quest’idea fissa, fissa a tal punto nel mio cervello e nel mio cuore da rendere inconsci tutti i legami con essa… Evidentemente l’ormai lontana nel tempo presa di coscienza di questa dicotomia, oserei dire sociale, s’è talmente tanto impregnata nel mio spirito, che tutto ciò che faccio e che dico ne lascia impresso il segno. Certo la scelta di proporre un simile lavoro, anche contrapponendone la natura ai prodotti della squallida logica speculativa delle cover-bands, fucine di una vera e propria spersonalizzazione creativa, la dice lunga su quanto oggi sia importante apparire per avere successo, al punto clonare il successo di quel dato autore cui molti pseudoartisti tendono spasmodicamente ad assomigliare nella speranza di essere finalmente ascoltati. La denuncia, la provocazione de L’Art et la Mort toccano vari livelli e varie categorie; l’ironia ne è il tramite raffinato, quel gusto che si prova ogniqualvolta ci si cimenta nel tentativo di “andare oltre” (la forma).

9 – Un certo romanticismo di fondo mi sembra guidare la parte strettamente musicale, sei d’accordo?
Abbiamo sempre manifestato un carattere romantico nei nostri lavori, specialmente all’inizio. Essere romantici per noi ha significato non tanto una tendenza ad un recupero di una certa tradizione musicale, quanto piuttosto un ritrovarsi debitori nei confronti di un ideale culturale, legati ad una visione del mondo e affezionati in qualche modo ad un periodo storico – specie il tardo Romanticismo - che incarna l’impeto emozionale e passionale di cui ci riteniamo portavoce. La Gesamtkunstwerk è nata come idea artistica nel Romanticismo, e alla fine dell’Ottocento è diventata il grido motore del movimento espressionista e quindi delle Secessioni. Potremmo allora affermare, senza per questo dovere rivedere le nostre idee artistiche di base, che di Romanticismo siamo fieramente impregnati fino al midollo, e direi in senso assoluto, non solo strettamente musicale.

10 – Un altro artista che mi sembra affine al vostro lavoro è Kokoschka; vedi “Sturm”.
Certo. Sturm è il titolo della nostra prima vera e propria opera di teatromusica, fornita di sceneggiatura completa; Sturm in tedesco significa tempesta, ed è il nome del protagonista, giovane dall’ancestrale indole romantica e turbinosa, erede storico di una tradizione mitteleuropea che l’ha formato culturalmente, latore di quella magica ondata culturale ed artistica che caratterizzò la Felix Austria a cavallo tra gli ultimi due secoli. Il suo nome è collegato anche a quello della rivista – e dell’omonima galleria d’arte - berlinese Der Sturm, per la quale Oskar Kokoschka preparò una celebre copertina-autoritratto in cui si raffigura con il capo rasato come un ergastolano (un gesto di protesta contro la società degli "adulti arrivati") e l'indice conficcato nella ferita sul costato, gli occhi circondati da occhiaie che sembrano cicatrici e la bocca distorta in una smorfia grottesca. Il personaggio Sturm, come già Kokoschka nel suo dipinto, presenta se stesso come il profeta e martire che espia le colpe di una società ottusa, la quale preferisce nascondersi dietro alla maschera dell'apparenza ad ogni costo, esattamente, in un parallelo non forzato, come è la società di quest’inizio di terzo millennio. Il personaggio Sturm nell’opera ricorda molto dal punto di vista fisionomico l’immagine del dipinto di Kokoschka, come se la tempesta che gli incarna sia una sorta di trasfigurazione di quel flusso continuo di sofferenze esistenziali contro cui ha lottato nel corso della sua vita. Nonostante siano richiamate spesso e volentieri citazioni culturali e letterarie del periodo a cavallo tra i due secoli passati, la collocazione storica del personaggio Sturm è volutamente non precisata: in realtà il lavoro sottende un’innata necessità di operare un’indagine interiore legata anche ad una ricerca delle proprie origini, culturali e più diffusamente spirituali, con l’intento di stabilire un “ponte” tra le epoche.

11 – Arriviamo alla figura di Artaud ed al suo scivolare verso la follia, mi è sembrata la parte più “sentita”, è una figura che trovi affine al tuo “sentire” la vita?
Sì. Sì, anche se può apparire pericoloso questo confronto, se si pensa alla fine che Artaud fece… Ma evidentemente alcune esperienze da me provate in passato la dicono lunga sul legame che credo di avere da sempre avuto con quest’autore, in termini di visione del mondo e del modo di concepire l’arte, soprattutto. Ci sono poi del fatti importanti che credo sia il caso di raccontare in dettaglio. Il nostro primo lavoro, Sous la robe bleue, è uscito il 4 settembre del 1996, per un puro e fortuito caso, incredibilmente nel centenario della nascita di Antonin Artaud (in pratica la cosa fu da me scoperta solo in seguito...). Se fosse destino non so, certo fu una “rivelazione”, per così dire, che un anno prima avessi recuperato quello scritto che Artaud aveva allegato a margine della raccolta L’Art et la Mort, edita nel 1929, ed avessi deciso, così, impulsivamente direi, di musicarlo... Che dire a proposito dell’influenza che egli ci ha sempre dato? La prefazione al primo suo libro che lessi cominciava così: “Quando si è letto Artaud, non ci si riprende. I suoi testi sono di quelli, molto rari, che possono indirizzare tutta una vita, influire direttamente o indirettamente sul modo di sentire e di pensare, di regolare un comportamento sovversivo attraverso ogni tipo di sentimento, di pregiudizio e tabù i quali, nella nostra “cultura”, contribuiscono a frenare e pure a fermare uno slancio fondamentale”. Rileggendo queste righe oggi a distanza d’anni capisco al volo una serie di cose. Capisco perché il progetto Autunna et sa Rose ha avuto la forza di continuare nonostante le innumerevoli difficoltà trovate, non soltanto in termini economici, ma pure nel riscontro e nell’interesse vero del pubblico. Artaud non può essere oggi visto né come poeta, né come scrittore, né come attore, né come regista, ma forse come tutte queste cose insieme e forse il contrario di tutte: di certo è stato un uomo che ha cercato di sfuggire a ciascuna di queste definizioni e, forse proprio per questo motivo, ha incontrato la più grande repressione possibile. Tuttavia ha avuto la forza di continuare, e non senza difficoltà e rischi per la vita, tanto che fu internato per dieci anni in un manicomio giacché ritenuto pazzo dalle autorità francesi dell’epoca che giudicavano i suoi scritti “malati”. Credo che donare la propria vita all’arte, per quanto possa oggi sembrare “anacronistico”, sia segno di forza di spirito, e se davvero Autunna et sa Rose fosse nato sotto la “protezione” spirituale di Artaud, spero non si fermerà dinnanzi a nulla e nessuno. Non abbiamo mai accettato di tenere a freno quello slancio fondamentale che ci ha spinto ad operare sacrifici che magari a molte persone parranno pura follia, ma che noi eravamo “obbligati” a compiere in virtù di una necessità quasi rituale (in effetti, è l’istinto del sacrum facere, del fare qualcosa che sia sacro per sé, per la propria vita, che vince ogni freno...); tanto che, ogni qual volta si profilava la prospettiva di un compromesso, potevano sorgere situazioni pericolose, o comunque dissocianti... Insomma, ci sono motivi profondi se ogni nostra rappresentazione live deve iniziare con il brano L’Art et la Mort. Un inizio che pare allo stesso tempo una fine, di questo sono cosciente e penso che l’effetto che ha sempre avuto sul pubblico possa essere stato quasi sempre di straniamento: questo, oggi, deve essere per me il teatro della crudeltà...

12 – Nel CD è contenuto il concetto di morte millenaria, ricordo qualcosa di simile nella tradizione degli aborigeni Australiani ed il “tempo del sogno”, c’entra qualcosa?
Abbiamo già trattato il concetto della morte “millenaria” durante la stesura del lavoro Né l’être…éternel, edito nel 2000: varie popolazioni antiche consideravano la morte fisica come una parte della vita dell’uomo, una vita stessa che è in qualche modo “regolata” dal sogno, dove si possono “sentire” le anime, ed è pure possibile incontrare gli angeli. Secondo Artaud il sogno è una delle cose che ci mettono in contatto con stati più raffinati dello spirito in seno ai quali la morte si esprime; di certo, comunque, varie manifestazioni che finiscono con lo stabilire un rovesciamento delle apparenze preconcette hanno il potere di avvicinarci ad un rapporto con un’altra dimensione, dentro la quale rischiamo consapevolmente, anche se poi magari ci rendiamo conto di avervi tratto qualche sorta di magica ispirazione, quasi come se qualche ente sia intervenuto nella situazione onirica per donarci le dritte di cui forse avevamo bisogno... Non so se questo concetto abbia a che vedere con la tradizione aborigena, è probabile…

13 – Per affrontare il lato più prettamente musicale: ho trovato nomi di alto livello, di tipo wave/gothic/industrial, nelle vostre destrutturazioni, alcuni dei quali ora accettati anche in ambiti più duri come il nostro. Trovi positiva questa commistione? Io ho sempre il timore che le contaminazioni edulcorino troppo il senso originale del messaggio.
Il punto è che non è esatto parlare di commistione a questo riguardo. Il processo di destrutturazione non è infatti stato da me messo in atto con l’intento di mescolare generi musicali al fine di produrre un risultato “contaminato”, come si usa in molti ambienti dire oggi. La destrutturazione operata non è insomma da vedersi come un mero ri-arrangiamento di vecchi brani anni ’80 con sonorità anche diverse dalle originali. Questo è da sottolineare, anche se può risultare pesante ad alcuni lettori, siccome viviamo in un‘epoca in cui le “coverizzazioni” selvagge sono all’ordine del giorno, e quasi tutte, se ci pensate, recuperano brani degli anni ’80: in tutte queste operazioni (smaccatamente commerciali, ché non si è ancora capito il reale perché di tali scelte…) si prende una vecchia hit di quel periodo, se ne salva la base portante (melodia, con i suoni originali) e spesso si sostituisce il canto e/o il testo con voci più “moderne” (si fa per dire, come quelle di qualche singer hip-hop), quando addirittura non si affianca alla voce originale quella di un/una interprete che non c’azzecca più di tanto con quello che era lo spirito del brano, e magari che canta lo stesso testo, con qualche variante a livello armonico sulla parte. Al di là del fatto che, come ricordato sopra, queste cose sono il risultato di un’operazione commerciale becera, tali interventi costituiscono una manipolazione atta a rivedere quel dato brano che dal punto di vista sostanziale rimane IDENTICO alla prima versione, perché, almeno per noi “vecchietti”, è impossibile non riconoscere quel “motivetto” che tanto andava quando eravamo giovani! Oltretutto, in termini specificamente strutturali, la partitura del brano non cambia di una virgola, come non cambiano nemmeno i suoni principali, cambia soltanto il contorno ivi presentato (con astuzia!): insomma, è come se al ristorante per secondo ci facessero scegliere tra bistecca di manzo con i funghi, bistecca di manzo alla Bismarck (con l’uovo sopra), bistecca di manzo alla pizzaiola, bistecca di manzo con salsa alle erbe aromatiche, cotoletta di manzo, ecc… Poco conta che cosa scelgo, rimane il fatto che mi tocca comunque mangiare una bistecca di manzo! Risulta di certo chiaro a chi ha sufficiente acume per osservare questo genere di fenomeni, che c’è sempre un fine strategico nel riproporre (perché è proprio di riproposizione a tutti gli effetti che è lecito parlare, soltanto mascherata da oggetto “nuovo”…) melodie note del passato, evidentemente già in qualche modo entrate a far parte dei cosiddetti evergreen, in questo caso però imbastarditi per piacere – grazie ad arrangiamenti più attuali - anche a chi non li aveva sentiti quando essi erano in auge. Il mio intervento è invece sostanzialmente diverso, anzitutto perché è stato a tutti gli effetti un lavoro di ricerca e rielaborazione creativa svolto sopra brani che, tra l’altro, non erano per nulla hit di successo, nemmeno nel ristretto “giro” dark/wave del periodo. Non è stato mai sufficiente infatti cambiare il testo dei brani, né tanto meno utilizzare strumenti diversi da quegli adoperati dagli autori che per primi l’avevano interpretato: 1) la partitura è stata sempre stravolta. Talvolta solo alcune battute si sono conservate, e magari relative alla parte di strumenti che non eseguivano melodie portanti; 2) si è sempre arrivati a decontestualizzare l’opera prelevandone una cellula che poi ha finito per generare soluzioni diverse, magari poi anche “scontrandosi”, in momenti inaspettati, con altre cellule, per dar vita a un groviglio completo e necessariamente complesso. Mi è venuta in mente ora un’opera di Malevic (pittore russo dell’avanguardia d’inizio secolo, fautore del movimento chiamato Suprematismo), intitolata Donna alla fermata di un tram (Donna in un tram), dipinto fortemente influenzato dal Cubismo: nel quadro è presente una figura femminile, ma è assolutamente arduo vederla, o, per lo meno, vederla per intero… Pare che il pittore avesse inizialmente dipinto la donna, ma poi l’abbia in qualche modo nascosta dietro vari oggetti disposti in un disordine strategico e comunque complesso, tanto che di essa rimane quasi un’idea, idea che peraltro ricaviamo da una visione prolungata e critica, per così dire, del dipinto. Ma il quadro è bello anche e soprattutto per questo... In questa società da fast-food emotivo e quindi culturale la complessità è da molti aborrita come fosse uno scomodo partner, come un bidone dell’immondizia che nessuno vorrebbe svuotare. Sentirsi dare del “complesso” è da considerarsi un giudizio negativo, ti etichettano subito come “complicato”, come se le due definizioni fossero davvero equivalenti. La complessità è invece presente nella vita quotidiana di ciascuno di noi, sotto varie forme e manifestazioni, negli elettrodomestici o negli apparecchi tecnologici che usiamo, nelle vicende politiche di cui siamo informati, nei sentimenti che proviamo e di cui siamo spesso vittime… Perché allora dovremmo vederla così ostile? Non si tratta di “complicare” le cose, ossia di vederle o renderle più complesse di quelle che effettivamente sono: bisogna esser consci della complessità e riuscire a interpretarla, solo così saremo in grado di vivere il nostro tempo in maniera cosciente e piena, non da larve, ma da uomini responsabili. Essa non è che il risultato di tante cose, concetti, idee, messe insieme: creare oggetti complessi è nella natura dell’uomo e del mondo, del Creatore che ci ha lasciati su questa Terra, dentro all’Universo che ci contiene. L’uomo stesso è un organismo complesso, per capirne il funzionamento bisogna accettare - e per fortuna! – questo fatto e interpretarne i comportamenti: sareste contenti se tutti noi umani potessimo per esempio soltanto respirare ma non camminare, o viceversa?! Dobbiamo, o almeno così ci è stato concesso, fare tante cose insieme per essere un organismo vivente altamente efficiente (non me ne voglia chi magari oggi non può più deambulare, intendo soltanto dire che Dio ci ha dotato in partenza, perché così aveva previsto, di varie funzioni vitali…). In definitiva, non ho operato nei termini di una contaminazione, di generi, di idee musicali e non: l’idea che ha portato i brani alla forma finale partiva da assunti spesso del tutto discostanti da quelli degli autori dei brani wave anni ’80. Perciò quando dico che la cosa importante nella musica e in genere nell’Arte è l’opera, oltre ad un fine evidentemente provocatorio (contro la figura fin troppo tenuta in considerazione dell’autore), intendo fare capire come essa può davvero essere finalmente veicolo di una complessità magari non subito evidenziata o sviscerata: ecco perché, a mio avviso, le opere debbono essere veicoli di idee ed emozioni a più ampio spettro di rischio, esse possono cioè comunicare più di quanto si possa aver mai pensato prima. Su un magazine italiano ho di recente letto una buona e in fondo obiettiva recensione al lavoro, che riportava una considerazione, secondo la quale avrei chiaramente affermato l’intento – se non ho inteso male - di confrontarmi in qualche modo “con i propri (cioè miei) maestri”, come se questa fosse stata davvero la molla che mi ha dato la spinta per metter in moto il processo di destrutturazione sui brani. Non ne sono molto convinto. Sicuramente a me non interessava quello che tu chiami “il senso originale del messaggio”, così come non sono convinto che l’opera di destrutturazione sia stata da me pensata con il fine di “preservare lo spirito” di quei pezzi, e quindi sia poi riuscita a farlo in ogni caso. Non soltanto perché sono passati decenni da allora, ma perché la destrutturazione è stato soltanto un mezzo, uno strumento formale, se vogliamo, il fine del quale era però ben più rivoluzionario di quanto si pensi. Così come il mio interesse non è quello di riproporre, la componente rivoluzionaria vive appunto nell’ironia che si configura come atto di acquisito snaturamento, di voluta perdita dell’identità, quindi dell’identificazione di un oggetto (sonoro), che rende la forma ai più appunto “irriconoscibile”. A tal livello anche la sostanza muta, e ne è prova il fatto stesso di avere prelevato scritti di autori letterari ben più anziani, con l’intimo fine di comunicare qualcosa di specifico e di diverso dallo spirito originale dei brani, di solito, oltre che di stabilire un “ponte” tra le epoche, che dia in un certo qual senso l’idea dell’atemporalità dell’Arte. Si potrebbe quasi dire che la scelta di dati brani sia stata una sorta di pretesto per comunicare qualcosa d’altro, che io ho preteso di tirare fuori dalle spire del Tempo, ed anche la scelta degli estratti letterari non è affatto casuale, bensì intende legare idee e afflati di menti illustri e sublimi spiriti distanti tra loro, nel tempo e anche dal punto di vista della formazione culturale. Che poi la mia formazione musicale sia passata attraverso alcuni autori, come ho dichiarato nel booklet, non significa che sia stato il mio presunto desiderio di emulazione, o di dovere tributare loro qualcosa di particolare, a spingermi in quest’impresa, nella maniera in cui essa è stata progettata e si è sviluppata.

14 – Cosa sono le “Stanze della mente”?
Le stanze della mente era stato concepito da un amico psicologo come laboratorio multidisciplinare di teatro-terapia, aperto anche a neofiti da introdurre nel mondo della recitazione e dell’improvvisazione teatrale, invitandoli a proporre essi stessi i soggetti che avrebbero poi finito per rappresentare in scena. Purtroppo, dopo alcune buone esperienze iniziali, il progetto incontrò sempre maggiori ostacoli ad essere accettato da parte delle istituzioni all’epoca contattate, alle quali era stato proposto come metodo terapeutico, tanto che finì di lì a poco per essere accantonato, con grave dispiacere dei responsabili.

15 – Analizzando “Neue Wirklichkeit” mi sono imbattuto nella figura, a me sconosciuta di Hundertwasser, poi ho trovato in rete le sue spirali e sono rimasto affascinato, cosa puoi dirmi di lui?
Hundertwasser fu per me, all’età di 22 anni, un vero shock. Primo viaggio a Vienna, fu grazie ad un amico che ebbi modo di vedere la Hundertwasserhaus (casa Hundertwasser, abitazione civile progettata in maniera rivoluzionaria), della quale nemmeno io avevo mai sentito parlare. Da allora mi si aprì davanti un vero e proprio nuovo universo: il mondo delle favole era vivo, favole moderne, non come quelle che ci avevano raccontato da piccoli, qualcosa di fantasticamente zampillante dal nostro subconscio, come ipercromaticamente risvegliato dal piattume della vita quotidiana e dal grigiore dell’ipocrisia metropolitana delle città in cui viviamo. Hundertwasser era pittore e architetto, ha congegnato sistemi per il riciclo dell’acqua utilizzata nelle abitazioni (che normalmente viene sprecata), ha progettato le case con gli “alberi-inquilini”, affinché l’uomo moderno recuperi il rapporto con la Natura che nel corso dei secoli e in seguito all’avvento dell’era dell’industrializzazione ha gradualmente perduto. Sarò sempre riconoscente al grande pittore-architetto austriaco per l’importanza che egli ha dato al ritrovato sentimento ecologista, e parimenti per le sue spirali, forme geometriche capaci di racchiudere simbolicamente in sé la dualità Vita-Morte (da qui Leben-Tod…). Hundertwasser credeva infatti ad un’esistenza dopo la morte ed ha cercato di farci capire come solo grazie ad un buon rapporto con la Natura siamo in grado anche di comunicare con i nostri avi, perché sono proprio le loro anime “sepolte” in terra che sono capaci di dare vita e vigore ai fiori e agli alberi, questi ultimi veri e propri “doppi” degli uomini, secondo il genio austriaco.

16 – Curiosità: cosa ti piace dell’arte contemporanea? Conosci ad esempio Cesare Berlingeri?
Mi piacciono varie cose, non tutto ciò che vedo, comunque, nel senso che non tutto ciò che ci arriva è a mio avviso degno e valido. Molte cose degli autori dell’Action Painting, chiaramente Pollock e non solo lui, Fautrier, Dubuffet e vari pittori dell’Informale; mi interessa l’indagine di Burri, del quale ho visitato la fondazione a Città di Castello (suo paese natale), mi piace sempre Francis Bacon, e poi altri artisti più giovani e magari meno famosi, come Ravà, senza naturalmente dimenticare Hundertwasser, ovvio. Disprezzo in generale i cosiddetti artisti che si divertono a squartare carcasse di animali, proponendoci “opere d’arte” costituite da tali resti di organi morti immersi in formaldeide. E, come accade per la musica, nel quale ambito la merda sonora vince sempre, stranamente ancora una volta ci tocca vedere che questi qua sono o diventano pure famosi… Bleah! Per quanto riguarda Berlingeri, devo dire che non lo conoscevo, ma mi sono subito documentato per saperne di più. Non male la sua tecnica della tela piegata, ma al momento credo di non potere dire di più, forse dovrei vedere qualche mostra di/con sue opere.

17 – Quanto credi che il tuo lavoro sia capito dal pubblico?
Ho di recente conosciuto un ottimo giovane regista indipendente italiano, si chiama Emiliano Cribari, il quale ha riportato nel suo ultimo film la citazione, presa da un giornale, secondo cui l’attenzione media di un uomo oggi si aggirerebbe sui 3 secondi. Non può non far pensare questo dato, pienamente attendibile o meno che sia, di sicuro c’è una forte, preoccupante tendenza alle emozioni da supermercato, da fast food: la gente, la massa pare non sia più in grado di avere un giusto approccio all’atteggiamento riflessivo, si rifiuta quasi di pensare, arriva a casa la sera – come dice provocatoriamente Emiliano – e non ha voglia di vedere qualcosa di complicato, di sentire la poesia in un film, è stressata, vuole rilassarsi e non scervellarsi di fronte ad una pellicola in cui c’è troppo da capire… E’ allora il caso di ribattere con un’altra domanda: “Quale pubblico?” Valutando con il giusto peso il discorso appena fatto, il pubblico che io dovrei aspettarmi non può certo essere la massa, così come capita ad Emiliano. Egli stesso mi riferisce che la cosa essenziale che ricerca nel pubblico è “ […] la capacità di arrivare a toccare la gente, di riuscire a risvegliarla da quel torpore che le fa perdere concentrazione dopo soli tre secondi e la fa pensare, riflettere, talvolta ripiegare su se stessa...” Esiste dunque questo pubblico? Sarà al massimo una parte dell’intera massa, quella porzione di essa cui non pesa il fatto di mettere in discussione un ascolto, una visione, proprio e soprattutto perché capisce che questo l’aiuta a metter in discussione se stessa, e apprezza l’importanza di questo confronto. Allora quale parte? Uno dei motivi per i quali ho accettato quest’intervista risiede nel fatto che io non sono come alcuni personaggi, i quali ritengono che la loro musica debba essere promozionata e fatta conoscere soltanto in taluni ambienti, sostenendo di fare un genere che non può “andare” fuori da un certo “giro”; tu stesso mi ha intervistato pur non essendo io un musicista metal (cosa che molte altre webzines e giornali metal non fanno), e la cosa mi conforta, perché mi fa capire quanto tu sia evidentemente uno dei rappresentanti di quella suddetta “parte”, (credo di poter estendere l’apprezzamento a tutta la redazione – NdA -). Insomma, ciò che voglio dire è che ho sempre voluto cercare questi rappresentanti la “parte” dovunque fosse possibile, perché ho sempre cercato la comunicazione, conscio che il mio messaggio poteva esser colto e interpretato da chiunque, senza distinzioni classiste di “genere”. Rimane certo il fatto che non ci si può fermare superficialmente alle apparenze, e di sicuro nel nostro caso si è costretti a sviscerare, ad analizzare la nostra proposta, quanto basta per entrare in sintonia con essa. Ritornando alla complessità, non posso non ammettere che la proposta di A&SR è figlia di questa. E non potrebbe esser altrimenti: visto e considerato che il nostro obiettivo precipuo è indagare il mondo, i sentimenti, le passioni, i tumulti dell’animo umano, non possiamo nascondere le intime complessità che li caratterizzano. Per cui, all’ascoltatore che bolla il nostro lavoro come frammentario, l’accusa di essere “troppo simbolico”, ritiene che richieda al fruitore troppa pazienza, ché tanto la gente vuole qualcosa di semplice, dico che se sceglie questa linea rimanendo così in superficie alle cose, difficilmente si collocherà nella famosa “parte”. A quanto risulta dalle statistiche su scala nazionale, siamo il paese civilizzato (sicuro?!?) in cui si legge di meno; si potrebbe generalizzare dicendo pure che in Italia si pensa di meno, si Vive di meno (nel senso vero e profondo del termine…). Eppoi, se la media dell’attenzione del pubblico è davvero di tre secondi, siccome io possiedo un’attenzione assai più lunga, vuol dire che c’è gente che ha un’attenzione tendente a zero (o magari negativa)!?

18 – Vuoi aggiungere qualcosa di particolare?
Il mio amico Angelo Bergamini di Kirlian Camera, gruppo parmense di elettronica, dice che viviamo in un paese occupato, di un’”occupazione antica”, capitalistica e massonica, mafiosa in una parola. Il bombardamento mediatico-tecnologico ad oltranza ha creato frotte di giovani e meno giovani rincoglioniti, quanto basta per non rendersi conto di come le cose stanno andando a rotoli. E’ un vero e proprio svilimento della cultura quello al quale ci tocca assistere, spesso tarlati da un deprimente senso di impotenza. Noi miriamo chiaramente ad una reazione di almeno una “frangia” di persone, le quali non si accontentino più delle loro presunte sicurezze, basate sulla logica del supermarket e dei “consigli” televisivi, ma decidano una volta per tutte di ricercare, di non fermarsi alle comode apparenze della quotidianità, accettando di mettersi in discussione e di affrontare percorsi anche accidentati, pur di scoprire. In questo clima asfissiante Internet può e dev’essere a mio avviso un valido - per quanto anche pericoloso e dannoso, se non si sta attenti – strumento di ricerca e di scoperta. Non che il problema, purtroppo, sia però di facile soluzione: il ruolo che tu ammirevolmente stai ricoprendo all’interno del tuo magazine virtuale è tuttavia pure assunto da una discreta quantità di bizzarri cialtroni, evidentemente spinti non si sa bene da quale mania di grandezza. Si leggono recensioni redatte con tutta probabilità ascoltando dischi mentre si è intenti a pranzare, o impegnati in non si sa in quale altra amena occupazione. A volte pare addirittura che il “giornalista” in questione sia stato costretto con la forza a recensire un dato disco, quando poi si viene a sapere che manco viene pagato per questo…(se è per questo nessuno di noi è pagato, ma noi di Metallized ci mettiamo tutti la massima passione – NdA-) Da anni dobbiamo lottare contro un immobilismo dilagante, associato allo “scetticismo”, se così si può definire, di una grandissima parte della stampa, italiana e non. Le logiche di mercato vincono spesso anche in ambiti giornalistici che amano professarsi “indipendenti”, mentre fanno il gioco delle grandi labels o dei distributori più influenti. Il risultato è spesso che, sia su magazines, che anche oramai purtroppo su varie webzines, si leggono interviste inutili ad artisti che molto spesso se la tirano talmente tanto e di solito sono interpellati sul Nulla di ciò che esprimono con la loro attività. Non posso perciò fare a meno di denunciare l’indifferenza - da anni subita - nei confronti di qualcuno, come io credo di essere, che quanto meno ha davvero qualcosa da dire, questo al di là dell’eventuale tono di protesta che mi trovo a dover tenere. Se troppi giornalisti italiani e, purtroppo, anche stranieri in questi anni mi hanno del tutto ignorato, non posso non pensare che la cosa sia stata dovuta alla loro mentalità ristretta e obsoleta, quando si trattava di proporre qualcosa di “nuovo” che non fossero personaggi con idee trite e ritrite. Eh sì, perché era più facile, o forse vantaggioso (?) andare in cerca solo di chi “odorava “ già del gruppo X, cioè di chi era bravo ad imitare gli altri... Indipendenti? O magari figli viziati di quello stesso immobilismo culturale e sociale di chi non ha le palle per rischiare, pur di cercare proposte nuove e stimolanti… E certo, sennò mica ti saresti sentito dire che il tuo genere è “troppo fuori”…

OK, mi pare che si più che sufficiente, ciao Disorder e grazie per la collaborazione.



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