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SOUTH OF HEAVEN FEST - Teatro Lo Spazio, Roma (RM), 26/07/2019
29/07/2019 (1661 letture)
Nel torrido luglio romano, all'interno della cornice del teatro Lo Spazio a San Giovanni, va in scena il South of Heaven Fest, manifestazione dedicata all'occult rock e al doom metal, con la straordinaria partecipazione degli americani Coven, per la prima volta in Italia, a cinquant'anni esatti dalla pubblicazione del loro più celebre album, Witchcraft Destroys Minds & Reaps Souls. Ciò che rende interessante l'evento è la sua natura squisitamente underground, con gli avventori accorsi in un locale di piccole dimensioni, ma con una acustica sorprendentemente buona, preparazione casereccia dei panini e bizzarre modalità di prevendita dei biglietti. Un contesto di lacrime, sudore e sangue, come ricorda giustamente il vocalist degli Hemp dal palco, sottolineando il concetto con la più classica delle lodi alla Beata Vergine.

SI APRONO LE DANZE…
Assorbita la defezione all'ultimo minuto dei Gorilla Pulp, ad aprire le danze sono i Ghost of a Cosmonaut, power trio stoner/doom che conduce gli spettatori in un'atmosfera sognante e intrisa di lirismo, nel segno dell'iconografia sovietica di Jurij Gagarin. A ruota gli Ars Onirica, più precisamente un one man project ad opera del romano Alessandro Sforza, propongono sonorità che vibrano tra il black e il doom, pur tuttavia con un chiaro retroterra nel death/doom, riconducibile agli scandinavi Katatonia. Gli Hurz, formati da ex membri di Tiresia Raptu, Doomraiser e Sesta Marconi, decidono invece di non esibirsi, dopo che per problemi vari, il tempo a loro disposizione viene drasticamente ridotto a dieci minuti; una decisione che immaginiamo sofferta, ma assolutamente condivisibile. Dopo i ferraresi Hemp, che impressionano positivamente con uno stoner/doom a chiare tinte sabbathiane, è la volta degli Ossuary, che rivendicano una simile ascendenza nel doom settantiano di Black Sabbath e Pentagram, nonostante un passato di rilievo di ben tre componenti in territori death metal, sotto la sigla Natron.

MISANTROPUS
Senza nulla togliere a chi si è esibito prima, i giri salgono parecchio quando entrano in scena i Misantropus, duo strumentale originario di Latina, composto dai fratelli Alessio e Vincenzo Sanniti, che hanno scritto alcune delle pagine più interessanti del doom metal nostrano, forti anche delle storiche collaborazioni con Paul Chain e Mario Di Donato. Da sempre attenti a tematiche ecologiste e allo spiritualismo, i Misantropus investono Lo Spazio con una rete sonora ipnotica dalla quale è impossibile non rimanere affascinati, andando a proporre materiale da tutte le loro pubblicazioni, partendo dai due self titled autoprodotti, rispettivamente nel 2000 e nel 2002, passando per le due successive release con la Doomymood, datate 2011 e 2013, fino all’Ep The Gnomes, uscito nel 2015 per la Minotauro Records. Volendo sbilanciarsi, quella di Alessio e Vincenzo Sanniti rimane la performance più interessante dell’evento, per la ricercatezza e la particolarità della proposta.

CIRCLE OF WITCHES
Dopo questa perla di doom strumentale, salgono sul palco i Circle of Witches. Mario Bove (chitarra e voce), Joe Dardano (chitarra solista), Tony Farabella (basso) e Joey Coppola (batteria) propongono un metal classico con pesanti influenze doom/stoner, in grado di terremotare la piccola location a ospitarli, merito anche della doppia chitarra e del magnetismo animale di Bove. I Circle, freschi di pubblicazione del nuovo album Natural Born Sinners, uscito quest’anno per Sliptrick Records, rivendicano il loro status e la loro posizione nel bill grazie a pezzi incendiari quali Giordano Bruno, il cui ritornello continua a risuonarmi in testa a distanza di giorni, You Belong to Witches e Tongue of Misery.

DEMON HEAD
Nel frattempo, il locale si è fatto più gremito, con una densità innaturale nella metà sinistra della sala per via della prossimità con il condizionatore d'aria. Arriva così il turno del quintetto danese Demon Head, che rade al suolo Lo Spazio con un indiavolato scandinavian diabolic rock, come gli autori stessi lo descrivono, portando sul palco anche un certo piglio da rock star, merito soprattutto del tastierista e cantante Marcus Ferreira Larsen e di un tarantolato Mikkel Fuglsang al basso, accompagnati da Gjerluff e Gjerlufsen Nielsen alle chitarre e Jeppe Wittus alla batteria. Alle 23.15, nel pieno della loro esibizione, l'attenzione generale viene sottratta per alcuni istanti dall'ingresso nel locale di Jinx Dawson, che attraversa la sala per raggiungere il camerino come fosse un qualsiasi astante. Ma torniamo a occuparci dei danesi, che propongono in scaletta diversi pezzi dal loro ultimo album Hellfire Ocean Void, uscito a febbraio scorso per la Svart Records. In un crescendo di ritmo e intensità, durante l’ultimo brano, Larsen prima scende dal palco, venendo issato dal pubblico per un improvvisato crowd surfing, il tutto continuando a cantare, quindi si sistema tra gli spettatori per seguire l’intermezzo strumentale, prima di riprendere infine il proprio posto sul palco.

COVEN
Arriviamo così al momento più atteso della giornata, quello della sacerdotessa del rock. Jinx Dawson raggiungeva il grande pubblico con l'album d'esordio dei Coven, il già citato Witchcraft Destroys Minds & Reaps Souls, nel 1969. Oggi di anni ne ha proprio 69, anche se il suo aspetto sembrerebbe suggerire tutt'altro. Questo a dimostrazione di come buone conoscenze e frequentazioni a sud del paradiso ripaghino bene. Dopo tre album, i Coven erano andati incontro allo scioglimento nel 1975, tornando in pista solo nel 2007. Dopo due ulteriori pubblicazioni, nello specifico il full length Jinx (2013) e l’Ep Light the Fire (2016), la band è adesso impegnata nel suo Magickal Chaos Tour, che conta ventuno date in tutta Europa, di cui ben tre in Italia. Intorno alla mezzanotte, Jinx accede al proscenio attraverso una bara posta in verticale al centro del palco, raccogliendo l'ovazione dei presenti. Ad accompagnarla cinque giovani musicisti, tra cui si mette in luce il chitarrista Chris Wild. A parte qualche piccola concessione, Jinx ha mitigato e centellinato, con intelligenza, il ricorso a simbologie esoteriche che, sebbene attese da qualcuno, avrebbero probabilmente ridicolizzato la performance. A trionfare è invece il tripudio di heavy psichedelia che va in scena. Arrivano così, nell’entusiasmo generale, nonostante il caldo sempre più asfissiante, grandi classici quali Black Sabbath, Wicked Woman, White Witch of Rose Hall, Choke, Thirst, Die e For Unlawful Carnal Knowledge, accanto alla più nuova Out of Luck.

IMPRESSIONI A CHIUSURA
La serata volge così al termine verso le due. Nel complesso possiamo parlare di un evento più che riuscito, nonostante le scelte di un pomeriggio infrasettimanale di fine luglio e di una location chiusa. Come accennato prima, ad impressionare positivamente è questa dimensione in cui vengono abbattute le barriere tra artista e fruitore. E così puoi ritrovarti a seguire le esibizioni fianco a fianco con chi pochi minuti prima era sul palco o a fare da mediatore linguistico tra il chitarrista dei Demon Head e il personale del locale di servizio al bancone del bar. Una giornata lontana dal grande business e dallo star system fatta, come detto, di lacrime, sudore e sangue ma, più che di ogni altra cosa, di grande passione per la musica e per il rock più in particolare.

Da Roma è tutto, che il metallo sia con voi!



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La locandina del Fest
ARTICOLI
29/07/2019
Live Report
SOUTH OF HEAVEN FEST
Teatro Lo Spazio, Roma (RM), 26/07/2019
 
 
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