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Dream the Electric Sleep - Beneath the Dark Wide Sky
17/09/2016
( 1819 letture )
Tra il 1931 e il 1939 nel cuore degli Stati Uniti d’America ci furono diverse tempeste di sabbia denominate Dust Bowl. Esse causarono la devastazione delle Grandi Pianure degli USA provocando la migrazione di decine di migliaia di contadini verso ovest, alla ricerca di una nuova casa e di un nuovo lavoro. La triste condizione di queste sfortunate famiglie venne immortalata dagli scatti della fotografa Dorothea Lange e le immagini hanno ispirato ai Dream the Electric Sleep una sorta di concept album sull’argomento. Questo trio rock progressive americano si è formato nel 2009 a Lexington, in Kentucky ed ha già realizzato due autoprodotti: Lost and Gone Forever (2011) e Heretics (2014). Considerando le premesse che anticipavano l’uscita di Beneath the Dark Wide Sky, cioè la tematica decisamente impegnata, il neonato legame con l’etichetta Mutiny e in particolare la produzione affidata al plurivincitore di Grammys, Nick Raskulinecz (il quale in passato ha collaborato con gruppi del calibro di Foo Fighters, Rush, Alice in Chains e Mastodon) e analizzando per bene tutti questi fattori, il lavoro è un grosso buco nell’acqua e l’aspetto che stupisce maggiormente è proprio la produzione superficiale e la registrazione imperfetta del materiale, entrambe cause primarie della non riuscita del disco. È fondamentale sollevare tale argomento per concepire l’interessante disegno pensato e ideato dalla band, purtroppo mal realizzato in termini pratici.

Beneath the Dark Wide Sky spazia tra progressive e alternative rock, non disdegnando i suoni provenienti dal panorama indie. I ritmi sono mantenuti lenti in modo da poter privilegiare la prestazione vocale del singer e la natura introspettiva dei brani, ciò però produce un danno nei confronti delle singole prove dei musicisti, i quali preferiscono seguire uno schema preciso senza andare ad intaccare la monotonia delle tracce. Il trittico iniziale è, a conti fatti, veramente noioso: anche se l’intenzione del trio è comprensibile -si cerca infatti d’introdurre l’ascoltatore in una desolante e tempestosa atmosfera- Drift, Let the Light Flood In e Flight sono tremendamente leggere e scialbe a causa degli arrangiamenti elementari, che per di più vengono penalizzati dalla scarsa nitidezza del sound, che tendenzialmente va ad inficiare le distorsioni eseguite dal cantante/chitarrista Matt Page. La cattiva e fastidiosa qualità del suono e la bassa resa della sei corde sono una prassi di tutto il disco ed in alcuni momenti generano una gran confusione andando a rovinare dei passaggi che di per sé sarebbero notevoli, come avviene sul solo finale di Hanging by Time. Per ascoltare qualcosa di valido bisogna quindi aspettare la strumentale e psichedelica We Who Blackout the Sun, dove finalmente è lasciato maggior spazio alla costruzione di trame oscure e misteriose attraverso una buona amalgama tra i vari strumenti. Anche la lunga e potente Culling the Herd ha degli ottimi spunti: le energiche randellate del batterista Joey Waters, le linee melodiche realizzate dal synth e supportate dal basso e la prova vocale notevole del cantante. Il racconto della tragedia del Dust Bowl prosegue e anche noi, come fecero gli agricoltori americani degli anni Trenta, cerchiamo di salvare il salvabile; ci imbattiamo così nella catchy e ruffiana The Good Night Sky, la quale si distacca dalle altre tracks non essendo né cupa né tantomeno noiosa, bensì vivida e profondamente speranzosa. Una speranza che fuoriesce prepotentemente su Headlights: il sound è stranamente compatto e senza imperfezioni, la sezione ritmica è incisiva, i ritmi sono incalzanti ed il ritornello è particolarmente gradevole, persino il finale roboante è ottimo. Purtroppo, però, tale situazione è solo un fuoco di paglia, poiché la successiva Black Wind è discreta nella parte strumentale fortemente alternative/noise, ma veramente lenta e stucchevole nelle strofe indie e la conclusiva All Good Things si muove su binari prog risaltando solo per la sua ripetitività, distruggendo definitivamente qualsiasi aspettativa e lasciando sul “campo di battaglia” solo silenzio e sabbia.

In definitiva, il desiderio di comporre un album osservando delle fotografie raffiguranti una delle pagine più dolorose degli Stati Uniti del XX secolo è sicuramente stimolante sia da un punto di vista storico, sia da un punto di vista antropologico. Il problema è che i Dream the Electric Sleep sono rimasti talmente affascinati dal tema da subirlo, creando (in)volontariamente una “conca di polvere” artificiale nella quale opprimere l’ascoltatore tramite tracks sporche, flemmatiche e troppo spesso apatiche. Probabilmente per la band americana sarebbe meglio rivedere le proprie prerogative, magari ritornando a suoni puliti e a trame progressive (come avveniva su Heretics), limando di conseguenza le contaminazioni provenienti da altri generi, ma soprattutto accantonando risolutivamente questo tipo di produzione.



VOTO RECENSORE
49
VOTO LETTORI
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Alex Cavani
Lunedì 19 Settembre 2016, 14.06.49
1
Heretics è un disco che ho letteralmente consumato: un progressive molto soft sporcato da melodie pop a mio parere sempre azzeccate. Su questo disco non sto leggendo dei gran pareri, ma se avrò l'occasione un ascolto glielo darò sicuramente.
INFORMAZIONI
2016
Mutiny Records
Alternative Rock
Tracklist
1. Drift
2. Let the Light Flood In
3. Flight
4. We Who Blackout the Sun
5. Hanging by Time
6. Culling the Herd
7. The Last Psalm to Silence
8. The Good Night Sky
9. Headlights
10. Black Wind
11. All Good Things
Line Up
Matt Page (Voce, Chitarra)
Chris Tackett (Basso)
Joey Waters (Batteria, Cori)
 
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