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27/04/25
HEILUNG
TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI - MILANO
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27/04/2019
( 1498 letture )
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Le reunion non funzionano mai. Questa è la triste verità. A dire il vero, qualche eccezione alla regola esiste, ma son pochissime. Va bene, dai, a volte sono anche capaci di sorprendere. Si tratta naturalmente di una ulteriore eccezione alle già eccezionali reunion che funzionano. Se poi consideriamo quelle che sorprendono positivamente, allora siamo proprio a considerare un numero infinitesimale a fronte di un fenomeno che, specialmente negli ultimi anni, è del tutto fuori controllo e senza alcuna giustificazione. Eppure, tra mille palesi tentativi di furto e demolizione di una credibilità faticosamente costruita e lasciata poi alle amorevoli cure del tempo, ogni tanto ci sono reunion che riescono anche a lasciare il segno. Ebbene, la reunion dei Winger è esattamente una di quelle. La band, nata grazie all’incontro tra Kip Winger, talentuoso polistrumentista e compositore, accolto alla corte di Alice Cooper nel periodo Constrictor/Raise Your Fist and Yell e lo straordinario chitarrista Reb Beach, diede alle stampe due album destinati a vendere milioni di copie e fare sfracelli nella dorata epopea di MTV. Due album che, per molti, rappresentano una delle punte di rilievo dell’intero movimento hard rock ottantiano e che mettevano in mostra non solo i muscoli del frontman/bassista, ma anche la sua meravigliosa vocalità e il suo straordinario talento. Assieme a lui e all’astro della sei corde Beach, ricordiamo la presenza di Rod Morgenstein, meraviglioso e ipertecnico batterista proveniente dai Dixie Dregs di Steve Morse. Purtroppo, la fortuna, veloce come era arrivata, decise di voltare le spalle ai nostri col breve volgere del nuovo decennio: il danno fatto all’immagine della band dalla serie Beavis & Butthead, nella quale il gruppo veniva associato allo sfigatissimo personaggio di Stewart Stevenson, fu enorme. I Winger finirono inderogabilmente sul banco degli accusati per l’intero movimento ridicolizzato come “hair metal” e ne pagarono il prezzo più di tutti, proprio loro che erano sempre stati tutto sommato una band anomala rispetto alla corrente glam, dotata di una tecnica notevolmente superiore alla media delle altre band. L’uscita del ben più maturo Pull non fece che peggiorare le cose: con la sua malinconia e i suoni moderni e rivisti, il disco perse nettamente fascino agli occhi di chi considerò questa svolta una mera operazione di re-brand e fallì nel tentativo di accreditare i Winger presso il “nuovo” pubblico novantiano, che aveva già emesso la sua sentenza. Lo scioglimento fu quasi inevitabile. Da qui inizia una storia nuova per Kip Winger e per gli altri membri del gruppo, fino a quella che, rincorsa da diversi annunci, diventerà la effettiva reunion del gruppo, prima come trio dei soli Winger, Beach e Morgenstein, poi recuperando il monicker Winger a partire dal 2006, con l’uscita di IV per l’italiana Frontiers Records.
L’album riprende esattamente da dove i Winger si erano fermati: la maturazione verso un sound più duro e ricercato non viene rinnegata a favore di un improbabile ritorno alle sonorità dei primi due multimilionari album. Una scelta spontanea, che conferma la serietà degli intenti che animano i cinque musicisti, non a caccia di lustrini, ma decisi a rendere infine giustizia al proprio nome. Il risultato per questo IV non sarà nel complesso forse all’altezza delle ambizioni messe in campo, ma le basi per un ritorno che non sarà un fuoco di paglia ci sono tutte e, per certi versi, questo avrebbe potuto essere uno dei migliori album in assoluto della band, se solo non ci fosse qualche problemino che lo mina in maniera indelebile. Musicalmente, IV è forse il disco più ricercato e tecnicamente elevato della band. Naturalmente, il tutto viene filtrato dalla consueta dose di melodia e dalla ricercatezza delle armonizzazioni vocali. E’ innegabile però che tanto da un punto di vista di sezione ritmica, con Morgenstein in grandissimo spolvero, quanto da un punto di vista solistico, con un Beach ai vertici dell’ispirazione, il disco sia letteralmente pauroso. L’abbandono di tematiche spensierate e teenager-oriented e l’approdo verso sonorità più dure, malinconiche e tutto sommato pessimistiche, sono esemplificate dalla copertina, probabilmente ispirata al testo di Right Up Ahead, sulla quale un soldato americano viene circondato e forse messo in guardia o accompagnato da angeli femminili. Un tema che si ritrova in tutte le canzoni, quasi fosse una sorta di concept album non dichiarato sulla vita e i pensieri delle truppe che, ricordiamolo, in quel momento erano nel pieno della “guerra al terrorismo” promossa da George W. Bush sul doppio fronte Afghanistan e Iraq e che sembrerebbe trovare un riscontro anche nella concatenazione dei brani, quasi tutti uniti in rapida sequenza l’uno all’altro con finali tronchi ed aperti. In aggiunta a questo, troviamo una latente quanto fondamentale matrice prog che fa più di un capolino qua e là, in particolare nella prima parte del disco e in Generica, nella quale si fonde ad un altrettanto evidente matrice funky. Basta ascoltare l’arpeggio della opener, che lancia la spettacolare voce di Kip, per poi aprirsi ad un riff enorme e pesantissimo per gli standard della band, per capire che le cose qua si fanno decisamente serie. Linea melodica fantastica e tensione a mille che si scioglie solo nelle meravigliose armonizzazioni del bridge e del perfetto refrain AOR. Se non si considerano i clamorosi assoli di Beach e la spettacolare linea di basso, che ci sia almeno riconoscimento per il pesantissimo lavoro di Morgenstein alla batteria. Pezzo enorme, che da solo metterebbe a tacere ogni detrattore della band e che invece è solo il preludio di una sequenza paurosa. Blue Suede Shoes è infatti un brano di qualità tecnica e compositiva superiore: clamorosa linea di chitarra e basso all’unisono, sulla quale appare la voce filtrata di Kip, la quale lancia l’inaspettato quanto enorme bridge e poi al refrain corale armonizzato. Carriere intere si fondano su presupposti meno musicalmente grandiosi di questo singolo brano. Se le prime due tracce colpiscono per arrangiamenti ricercati e quasi progressivi, ecco che invece Four Leaf Clover alza i ritmi con una tensione comunque ricercatissima, nel contrasto tra la linea delle chitarre, nervosa e spezzata e quella del cantato, melodico e graziato dalla timbrica caldissima di Winger che, immedesimatosi nel soldato canta la propria lontananza alla ragazza lasciata a casa, pregandola di rivelargli se veramente lo sta tradendo. Attenzione qui alla prestazione di Morgenstein che fa paura e allo spettacolare assolo di chitarra. Si volta pagina ed ecco un ennesimo capolavoro: M16 è un pezzo nel quale la tecnica strumentale clamorosa si mette al servizio della melodia creando un contrasto stupendo. Canzone che mette i brividi, nella quale ancora una volta oltre alla qualità superiore di scrittura si legano un assolo da urlo, delle armonizzazioni perfette e un approccio aggressivo che ben rende la crudezza del testo:
March through this dream With my M16 Mind’s busting seams Grip my M16 American dream Flowing through my magazine Like blood of human machine To spread democracy You see we come in peace
Dopo tanta tensione, arriva finalmente un pezzo tutto votato alla velocità e Your Great Escape compie alla perfezione il suo lavoro, con un Morgenstein ancora una volta semplicemente grandioso, letteralmente incontenibile e Beach che si ricava lo spazio per l’ennesimo grande assolo. Da notare anche il gran lavoro di Winger al basso e il rutilante finale, al quale le tastiere di Eroglu agganciano le poche fondamentali note che portano a Disappear. Senza soluzione di continuità si passa quindi direttamente nelle atmosfere a metà oniriche e metà aggressive del brano, nel quale ancora una volta prog e hard rock si parlano alla pari. Ennesimo capolavoro di un disco che in questa prima parte si attesta su livelli altissimi e non accenna a diminuire di intensità neanche nella successiva toccante ballata a titolo On a Day Like Today: se c’è bisogno di qualche ripetizione su come si costruisce e si interpreta un brano del genere, basta prendersi pochi minuti e seguire la lectio regis del buon Kip e dei suoi degni compari. Purtroppo, un disco che fino a qui era praticamente perfetto, quasi un capolavoro, inspiegabilmente da Livin’ Just to Die in poi perde la propria lucida superiorità compositiva. Intendiamoci, le due canzoni successive sono tutt’altro che brutte prese di per sé, in particolare Livin’ Just to Die alla quale non si riesce forse a perdonare un bridge scontato, nel quale il tentativo di unire un riff potente ad una melodia "celestiale" non funziona affatto. Entrambe le tracce contengono comunque almeno un’intuizione degna di nota, come ad esempio il dinamismo e l’assolo finale di Short Flight to Mexico, ma il risultato è talmente inferiore alle precedenti, quasi fuori fuoco, che si resta lì per lì quasi confusi, per poi arrivare alla conclusione che qualcosa inevitabilmente si è inceppato e non sarà più recuperato. La successiva Generica, infatti, pur riproposta dal vivo nel tour successivo, è ancora più confusionaria e indecifrabile, con la strofa che sembra quasi rievocare l’Alice Cooper di Hey Stoopid, per poi aprirsi ad un bridge e ad un refrain filtrati e carichi di tensione che non sembrano però andare da nessuna parte e ad un break centrale acustico del tutto inutile; un patchwork malriuscito nel quale l’unico elemento di rilievo è la strepitosa prova strumentale, in particolare per la vena funky che caratterizza il finale. Chiude il disco una traccia che, nelle intenzioni, doveva essere un maestoso quanto epico congedo: Can’t Take It Back cerca di tirar fuori il meglio di Blue Suede Shoes e On a Day Like Today, con una vena blues che sfocia nell’AOR e riuscendo quasi nell’intento con un crescendo notevole e un bellissimo refrain armonizzato ma, ancora una volta, esagera nel mettere troppi elementi assieme, mancando di quella naturalezza che l’avrebbe resa un pezzo indimenticabile, con una conclusione tronca che lascia davvero l’amaro in bocca.
Per molti, il ritorno dei Winger dopo tredici anni dall’ultimo album da studio fu una vera delusione. Ci si aspettava infatti che Pull fosse relegato ad “episodio” infelice, influenzato dall’ondata storica che vide tante e tante band degli anni Ottanta costrette a rincorrere la modernità e le atmosfere tristi e malinconiche portate dal nuovo decennio. Trovare in IV invece un ulteriore passo in avanti in tal senso, con il quasi totale abbandono dell’identità dei primi due album e un hard rock potente, scuro, moderno nei suoni quanto nelle strutture, che flirtava con l’AOR quanto con il prog e con tematiche serie e decisamente realistiche, ispirate alla guerra (e che ritroveremo pari pari nel ben più celebrato American Soldier dei Queensryche), non fu apprezzato. Oltretutto, la band si complicò da sola la vita spezzando in due il disco qualitativamente, con una sequenza dalla prima alla settima traccia praticamente da urlo a cui fa seguito una seconda parte confusa e inferiore, gravata probabilmente dalla volontà di strafare, quasi a rinfacciare a tutti quanto avessero sottovalutato la band in passato. Purtroppo, questo dualismo portò in genere a valutazioni decisamente inferiori a quelle che l’album avrebbe meritato se avesse mantenuto una coerenza interna capace di sorreggerlo fino in fondo. Eppure, proprio in virtù di quanto espresso, IV resta un disco potenzialmente enorme, capace di piacere a chiunque ricerchi grandi canzoni suonate da musicisti eccellenti e dotate di quel non so che di superiore che solo i Grandi possiedono e che i Winger sanno creare. Curiosamente, il successivo Karma, ribaltando totalmente la composizione interna, con i primi brani tutto sommato piacevoli ma relativamente ordinari ed una seconda parte invece clamorosamente superiore, otterrà risultati molto più lusinghieri e valutazioni altissime ovunque, rilanciando definitivamente la band. Insomma, se sono poche le reunion che hanno davvero un senso e ancora meno quelle che portano qualcosa di nuovo al nome di una band o addirittura superiore a quanto realizzato in precedenza, il ritorno dei Winger può senz’altro appartenere a quelli degni di nota. Per molti il gruppo resterà inevitabilmente legato ai primi due album e difficilmente si affezioneranno a questo nuovo formato. Per tutti gli altri, la riscoperta di IV è dannatamente consigliabile. Questo è il classico album da rispolverare e rivalutare: non c’è modo di pentirsi.
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3
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Disco semplicemente splendido, nettamete superiore alle media sotto ogni punto di vista |
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2
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L'immagine è quella "interna" della inlay card. Il booklet è, ovviamente, il libretto..  |
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....ottima band....brava frontiers records a reclutare tante vecchie glorie dell'hard rock.....spero presto che ristampi il primo disco dei fortune e il primo degli svedesi alien....ci vorrebbe proprio...... |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Right Up Ahead 2. Blue Suede Shoes 3. Four Leaf Clover 4. M16 5. Your Great Escape 6. Disappear 7. On a Day Like Today 8. Livin' Just to Die 9. Short Flight to Mexico 10. Generica 11. Can't Take It Back
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Line Up
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Kip Winger (Voce, Basso, Chitarra acustica, Tastiera) Reb Beach (Chitarra, Voce) John Roth (Chitarra, Voce) Cenk Eroglu (Tastiera, Chitarra, Effetti) Rod Morgenstein (Batteria)
Musicisti Ospiti Denny McDonald (Cori su traccia 2) Paula Winger (Cori su traccia 2)
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RECENSIONI |
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