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Primus - Brown Album
18/01/2020
( 1922 letture )
I Primus, verso la fine degli anni ’90, erano già reduci da quattro album di successo, che avevano marchiato a fuoco uno stile unico e inimitabile, basato sulla contaminazione tra funk, jazz, rock e bizzarrie musico-lessicali figlie di Frank Zappa. Singoli di successo nell’era del crossover come Jerry Was A Race Car Driver, Tommy The Cat, My Name Is Mud e Wynona’s Big Brown Beaver avevano portato il trio verso lo status di icone alternative, al pari di Red Hot Chili Peppers e Faith No More.
Poi di colpo la storica line-up, che aveva retto per ben quattro album, perde un pezzo: il batterista Tim “Herb” Alexander decide di mollare il gruppo, lasciando il frontman Les Claypool e il chitarrista Larry LaLonde in dubbio sul proseguire l’avventura coi Primus o accantonare definitivamente la loro pazza creatura musicale. I due membri rimasti non cedono però, complice la solida intesa che si è venuta a creare negli anni, e decidono di assoldare un nuovo batterista; la scelta ricade su Bryan “Brain” Mantia, che arriva dall’esperienza coi Praxis, band sperimentale che vede tra le proprie fila Bill Laswell e Buckethead e che ha collaborato con nomi come Iggy Pop, Serj Tankian, Mike Patton, John Zorn e Yamatsuka Eye. Un’esperienza di tutto rispetto quella di Mantia, che si pone fin da subito in antitesi con quella di Tim Alexander, laddove quest’ultimo utilizza un suono e un tocco più potente e rock, il primo invece si pone come un batterista più tecnico e improntato alla fusion.
Questo cambio di sezione ritmica influisce in modo importante sui brani che i Primus compongono per il nuovo album, il quinto in carriera, che secondo Les Claypool dovrà essere il loro “milestone”, come lo è stato per i Beatles col White Album e per i Metallica con il Black Album. Da qui la scelta del titolo Brown Album (tutti gli altri colori se li sceglieranno poi i Weezer, ma questa è un’altra storia). E così i tre incidono quindici brani per quello che si preannuncia come un album di grandi cambiamenti, i quali sono fin da subito ben percepibili.
L’introduzione è affidata a The Return of Sathington Willoughby, brano che fa il verso a una situazione da comizio elettorale, con tanto di pubblico live annesso, e già in questo episodio – abbastanza anomalo, se confrontato con le restanti tracce del disco – si comprende che in casa Primus qualcosa è cambiato: il tono di Claypool è più composto e le sonorità adottate sono decisamente scure e meno freak del solito, con gli strumenti che non spiccano, ma restano immersi nel mix generale, lasciando spazio alla voce riverberata. Ma quando si arriva al primo vero brano in scaletta, Fisticuffs, le impressioni avute sull’intro si fanno più vivide: il brano ha inizio con un riff di basso à la Geezer Butler e poi prosegue su un ritmo ostinato dove la band non concede un vero e proprio baricentro all’ascoltatore, ma riesce a mantenere una tensione per tutto lo svolgimento del pezzo. I suoni non godono di una grande definizione, ma questo sarà un aspetto che affronteremo alla fine della disamina della tracklist, e in generale l’umore del brano è scuro e la dimensione tipicamente cartoonesca delle composizioni della band viene decisamente accantonata. D’altronde il testo parla di un gioco morboso, dove chi perde muore.

They found James Ambrose dead in his cell,
A gaping gash in his arm had drained him down to hell.
No one knew for sure if Ambrose was his name.
They called him Yankee Sullivan in early days of fame.
He'd known the game of fisticuffs had always treated him right
But no one knew the men who came and took his life that night.


Ci pensa però la più breve Golden Boy a riportare l’ascoltatore su lidi maggiormente conosciuti, con un up-tempo funk a base di basso slappato e voci stralunate. Anche qui il testo non è dei più allegri, sebbene prenda spunto da un immaginario fantascientifico e weird; infatti la storia narrata da Claypool è quella di un giovanissimo ladruncolo con le braccia di metallo e la fronte di legno, che sfrutta queste sue menomazioni per ricevere pene meno severe per i suoi crimini.
Seguono quindi i due singoli rilasciati per promuovere l’album: Over The Falls è un breve brano in ¾ dove i toni si fanno ancora una volta sommessi e sospesi, mentre Shake Hands With Beef è il brano più celebre del disco, dove ritornano ancora al centro dell’attenzione il groove funk e il grande lavoro di batteria. La chitarra di LaLonde rimane decisamente in ombra in questo caso e ancora una volta il missaggio non aiuta per niente. Si parla di un tema controverso, ovvero del piacere della carne, da intendere come un “attacco” al vegetarianismo, intavolato con la solita ironia da parte di Claypool e soci. Un brano che sarebbe piaciuto ai primi Faith No More, ma che rimane comunque lontano dalle vette compositive del trio californiano.
La scaletta prosegue con episodi che non sorprendono quasi mai, riproponendo da una parte quelli che sono gli stilemi ormai classici del gruppo, dall’altra invece cercando di scurire ed indurire il proprio sound, ma con risultati poco convincenti, come nella ripetitiva Camelback Cinema.
Il momento più esaltante dell’album arriva in corrispondenza di Bob's Party Time Lounge, dove la tecnica di Claypool e di Mantia viene esaltata in maniera egregia e LaLonde costruisce un riff semplicissimo, ma di grande impatto. Il chitarrista si prende la meritata luce nella seconda metà del brano, con un assolo modale sporchissimo, ma di gran gusto, tra il jazz e lo shred. Una versione estesa di questo brano, condita da una bella jam strumentale, si può ascoltare sull’Ep Rhinoplasty, uscito nel ’98.
Fortunatamente l’onda positiva trasmessa dal brano appena citato si trasmette anche sulla seguente Duchess and the Proverbial Mind Spread, sbilenco esercizio reggae, dove ancora una volta LaLonde si prende la scena, accompagnato da un ormai impazzito Bryan Mantia.
Ritorna ad abbassare il ritmo Restin’ Bones, che non sorprende in niente a livello strumentale, ma indovina un bel groove al limite dell’hip hop e si lascia ascoltare bene, malgrado la sua prolissità.
C’è spazio anche per un momento di puro speed metal in chiusura in corrispondenza di Coddingtown, dal risultato straniante, in senso negativo: non c’è quell’aria freak e weird che ha reso celebri i Primus, ma solamente un tentativo piuttosto maldestro di unire stili differenti senza un vero e proprio focus sull’obiettivo da raggiungere.
L’album si chiude con una tripletta di brani dalla riuscita altalenante, a partire dalla ballabile Kalamazoo, passando per l’ottima The Chastising Of Renegade – che ricorda i Red Hot Chili Peppers del periodo di Hillel Slovak e regala un riff memorabile sul finale, sempre ad opera di LaLonde – e chiudendo con la pessima Arnie, che non è altro che una jam strumentale, che sarebbe pure godibile, ma che soffre della scelta di essere lasciata grezza, con un suono globale paragonabile a quello di un demo amatoriale. Non una grande scelta per chiudere il disco, ma perfettamente coerente con il brano che apre la scaletta e soprattutto con lo spirito che permea tutto l’album.
Il problema principale di Brown Album, lo dicevamo in apertura, risiede proprio nella produzione scelta, che opta per un risultato complessivo grezzo e poco rifinito, dove tutti gli strumenti sono come immersi in una bolla e nei pochi momenti in cui emergono dal mix sono come perennemente distorti e mai perfettamente definiti. Questo fa sì che il disco sia invecchiato terribilmente in fretta e l’ascolto, soprattutto oggi, risulta tutt’altro che semplice e godibile, al contrario di quel che succede con dischi registrati prima come il debutto Frizzle Fry. Lo stesso Bryan Mantia racconta che il titolo dell’album deriverebbe, al contrario di quel che sostiene Claypool e ho scritto all’inizio, dalla sensazione fangosa o melmosa trasmessa dalla produzione dei brani, merito dello studio di registrazione Rancho Relaxo, inaugurato dai Primus proprio per questo disco. Chiaramente, lo strumento che soffre più di tutti nel mix finale dell’album è proprio la batteria, soprattutto sui suoni dei timpani e del rullante, che suonano slabbrati e in modo decisamente poco incisivo. Aggiungiamo infine una copertina anonima e bruttina e il pasticcio è completo.

Per concludere, sicuramente Brown Album è un disco difficile sotto diversi aspetti, in primis lo deve essere stato per i Primus stessi, che lo hanno composto con un membro nuovo che ha dovuto inserirsi in un meccanismo già più che consolidato; in secondo luogo, l’umore e i toni scelti dal gruppo vanno in controtendenza con quelli che li hanno resi famosi e riconoscibili e se questo approccio in qualche caso riesce a convincere, in molti altri invece non riesce affatto. Si può quindi considerare questo disco come un disco di passaggio e di relativa sperimentazione da parte dei Primus, che cercano di trovare una nuova stabilità prima di tutto dal punto di vista della line-up. E la conferma del nuovo equilibrio raggiunto la si avrà giusto un paio di anni più tardi, con l’uscita del bellissimo Antipop, disco che gode di ottimi brani e di un’ulteriore svolta a livello di sound, stavolta maggiormente rivolto all’industrial. Ma segnerà anche la fine della breve avventura di Bryan Mantia con la band.
Brown Album rimane un disco da conoscere per capire in che modo il suono dei Primus si è evoluto e ha avuto il coraggio di affrontare diversi aspetti della propria produzione musicale, ma a conti fatti rimane il capitolo meno luminoso della brillante discografia della band.



VOTO RECENSORE
67
VOTO LETTORI
76.62 su 8 voti [ VOTA]
Tommy the cat
Sabato 25 Gennaio 2020, 0.40.33
11
Io posso dire che personalmente lo ritengo un disco bellissimo nell'insieme. La produzione scarna valorizza l'abilità dei musicisti(Una produzione del generi con musicisti meno precisi e tecnici avrebbe fatto veramente un disastro). Questo suono da al disco omogeneità, atmosfera,tiro e dinamica naturali. Poi ci sono pezzi, secondo me, bellissimi (Shake hands with beef,bob's party time lounge,Kalamazoo e altri). Rimane una mia opinione personale molto positiva su questo Brown album,che effettivamente rimane un album ostico su alcuni punti di vista,in primis la pruduzione che io ho apprezzato,ma può non piacere. Non lo definirei epocale in quanto non fu un disco che rivoluzionò il panorama musicale e non ebbe così successo.
Black Me Out
Giovedì 23 Gennaio 2020, 21.36.31
10
@gioppino Secondo in me in questo disco, confrontandolo coi precedenti, succede esattamente il contrario: vi è una semplificazione quasi disarmante delle strutture dei brani e della "tecnica" sfoggiata dai musicisti, Bryan Mantia a parte, che di sicuro si dimostra più tecnico e raffinato di Alexander. E la conferma di questo approccio più "semplicistico" arriva nel disco successivo Antipop, che è praticamente il loro disco più lineare di sempre!
gioppino
Giovedì 23 Gennaio 2020, 21.12.26
9
non piace perchè diventarono più complicati, ma il disco è di assoluto valore.
Black Me Out
Mercoledì 22 Gennaio 2020, 9.40.34
8
@Tommythecat e @Masterburner potete spiegarmi perché considerate questo disco eccezionale addirittura un capolavoro epocale? Davvero, senza polemica, ma voglio proprio capire cosa apprezza chi ama questo disco.
Tommy the cat
Mercoledì 22 Gennaio 2020, 0.14.32
7
Disco eccezzionale. 90
Masterburner
Domenica 19 Gennaio 2020, 0.02.13
6
Per me un capolavoro epocale. Totale disaccordo con il voto.
marmar
Sabato 18 Gennaio 2020, 23.30.10
5
Ricordo poco di questo disco, e questo mi dice gia molto; ho comunque il ricordo che all'epoca fu una grossa delusione, a partire dall'orrenda copertina, ma magari prima poi mi sforzerò di riascoltarlo bene. Dopo quattro album eccezionali ed il grosso e meritato successo ottenuto, la sensazione è che questo lavoro sia stato una battuta d'arresto che ne ha decretato l'inizio della fine, o quantomeno ha loro tarpato le ali in pieno volo, peccato. Visti live con Alexander per il tour di "Tales...", concerto meraviglioso; rivisti un altro paio di volte dopo questo disco, una mezza delusione, e non era solo colpa di Mantia, comunque ben inferiore al suo predecessore.
duke
Sabato 18 Gennaio 2020, 17.49.52
4
...molto meglio i primi album.....che ho letteralmente consumato......
Black Me Out
Sabato 18 Gennaio 2020, 16.04.00
3
Perfettamente d'accordo coi vostri commenti ragazzi, infatti questo disco è proprio l'unica probabile vera pecca nella discografia dei Primus, che fino a Tales sono stati inattaccabili. Però alla fine, leggendo un po' in giro, questo Brown Album ha moltissimi estimatori, che ne parlano in toni più che enfatici! Se ne esiste qualcuno anche qui su Metallized sarei curioso di sapere il suo parere, perché per me questo disco è veramente malriuscito, pur avendo alcune buone frecce al proprio arco.
Galilee
Sabato 18 Gennaio 2020, 15.44.12
2
Quoto Shock, anche io dopo Tales ho perso interesse e ho smesso di seguirli. Però è passato tanto tempo. Dovrei provare a riascoltarli.
Shock
Sabato 18 Gennaio 2020, 15.03.35
1
Niente da fare, purtroppo i Primus dei primi dischi fino a Tales erano di un livello incredibile, poi non sono più riuscito a digerirli: questo album lo trovo troppo lungo e difficile da finire tutto d'un fiato, mi assale la noia troppo spesso. Sufficiente solo perché sono loro.
INFORMAZIONI
1997
Interscope Records
Alternative Metal
Tracklist
1. The Return of Sathington Willoughby
2. Fisticuffs
3. Golden Boy
4. Over the Falls
5. Shake Hands with Beef
6. Camelback Cinema
7. Hats Off
8. Puddin' Taine
9. Bob's Party Time Lounge
10. Duchess and the Proverbial Mind Spread
11. Restin' Bones
12. Coddingtown
13. Kalamazoo
14. The Chastising of Renegade
15. Arnie
Line Up
Les Claypool (Voce, Basso)
Larry LaLonde (Chitarra)
Bryan Mantia (Batteria)
 
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