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Ask The Slave - Good Things Bad People
20/07/2021
( 1508 letture )
Quando si ha a che fare con musica proveniente dall’Islanda la curiosità istintiva che si crea è immediata e spesso ripagata da prodotti sopra la media talvolta capaci di esulare dagli schemi stilistici cui il nostro orecchio è abituato. Si pensi alla recente scena black metal islandese che, anno dopo anno, sta conquistando sempre più consensi internazionali, per tacere di vere e proprie celebrità ormai leggendarie come Sigur Rós e Björk; e la lista potrebbe continuare, soprattutto in ambito pop ed elettronico (múm e GusGus su tutti).
Consapevoli di ciò l’approccio al terzo disco degli Ask The Slave è stato estremamente positivo: i cinque musicisti di Reykjavík, dopo due album rilasciati quasi esclusivamente in patria, si sono affidati all’etichetta indipendente Crime Records per rilasciare il loro primo disco in undici anni distribuendolo a livello internazionale. È principalmente per questo motivo se noi ne siamo venuti a conoscenza, a differenza dei primi due prodotti della band, passati completamente in sordina.
La musica proposta dal gruppo si risolve in un bel mix di influenze che hanno più di un richiamo in comune, spaziando da una base alternative metal sempre ben radicata verso soluzioni smaccatamente pop, trovando modo di inserire momenti puramente rock ed altri quasi avanguardistici, inseriti in strutture complesse di matrice prog. Numi tutelari di una miscela simile sono sicuramente artisti come Mike Patton, Idiot Flesh (la band che ha fatto nascere poi gli Sleepytime Gorilla Museum) e i connazionali Solefald ed Agent Fresco, sebbene questi ultimi siano nati più recentemente rispetto agli Ask The Slave. Indubbiamente però la ricerca di un perfetto mix tra progressive rock e pop rimanda a un nome su tutti, quello dei sempre troppo poco lodati Mew. La band danese rimane un picco irraggiungibile per chiunque, ma non ci sarebbe da sorprendersi se i nostri cinque islandesi avessero imparato a memoria album come Frengers prima di mettere mano al proprio materiale.

Detto questo, gli undici brani che compongono Good Things Bad People scorrono bene, riuscendo a intrattenere e stimolare l’ascoltatore con partiture non banali e complessità assortite, accompagnate da sezioni vocali e melodiche catchy e memorizzabili, sebbene non sempre indovinate. I cinque sono bravi a variare i minutaggi dei loro brani non perdendosi in fughe strumentali esagerate, dando il giusto risalto alle voci carismatiche del frontman Ragnar Ólafsson e dei due chitarristi Elvar Atli Ævarsson e Valur Árni Guðmundsson, le quali fungono da elemento avantgarde nell’economia compositiva della band: un bel brano come Eulogy, sorta di ballad pomp-rock che si evolve progressivamente in cadenzato mid-tempo djent, alterna impostazioni vocali power metal ad altre in puro stile AC/DC, mentre i cori che puntellano qui e lì il brano sembrano estratti dagli ultimi dischi dei Blind Guardian. Il minestrone che ne esce fuori è tanto confusionario quanto intrigante, anche se questa è solamente una delle infinite facce che il gruppo mostra durante lo svolgimento della scaletta.
Lo spettro di Mike Patton e dei suoi infiniti progetti aleggia ovunque durante l’ascolto di Tag, You’re It! dove progressive metal, sezioni acustiche dal sapore jazz e intermezzi celestiali esaltano ancora una volta le voci dei musicisti, qui libere di esprimersi in ogni sorta di stile umanamente proponibile.
C’è spazio anche per omaggiare gli Opeth più recenti nella penultima Chain Gang – a voi scoprire il perché di questo nesso – anche se a dire il vero il rock progressivo tipicamente europeo compare già dal brano di apertura Catch 22, vagamente ispirato dai Porcupine Tree più imberbi.
La prima parte della scaletta è anche quella più tendente al metal, con riff contorti e chitarre dal suono compresso che riescono a passare agilmente dai Meshuggah ad un rock radiofonico dal retrogusto americano, senza perdere di vista le strutture complesse e articolate del prog. Wounded Knee, oltre ad essere il brano più lungo del disco, è anche un perfetto esempio per comprendere il metodo compositivo degli islandesi.
Sebbene non vi siano episodi realmente deboli all’interno del disco, vi sono riempitivi abbastanza stucchevoli come la tiletrack e Slave, che non sono altro che intermezzi ambient e spoken word che vorrebbero essere interpretati come momenti di pausa nel mezzo della scaletta, ma in realtà dopo il primo ascolto viene spontaneo skipparli senza pietà. Purtroppo anche The Beginning Of The Blues rischia di subire la stessa sorte, poiché in questo caso gli Ask The Slave si cimentano in un lentone piuttosto didascalico, dove le voci vengono impiegate bene, ma si trovano al servizio di una composizione spenta e poco brillante, priva di spunti davvero interessanti. E all’interno di un album così variegato un brano del genere finisce di diritto tra i momenti peggiori.
Concludiamo però con i due momenti migliori del disco, ovvero White Vigilante e soprattutto Katie Mae: la prima è una cavalcata epica dove gli archi e i cori impreziosiscono la prova vocale più indovinata in scaletta; dissonanze e cambi di accento precedono i ritornelli nei quali la voce svetta con un’estensione vocale invidiabile, mentre la componente metal arretra leggermente per far spazio alle melodie celtiche del violino, il quale chiude le danze insieme ad un vocoder talmente fuori luogo da risultare incredibilmente azzeccato. Nel secondo caso invece siamo di fronte alla perfetta fusione tra The Dillinger Escape Plan, Leprous e Tesseract, con ovviamente il tocco speziato del solito Mike Patton. In realtà è proprio in questo brano che l’influenza dei Mew emerge con più forza, nel momento in cui le sezioni vocali si fanno maggiormente cantabili e riconoscibili. In questi sei minuti però succede davvero di tutto e di colpo si passa dall’hardcore punk più cervellotico a poliritmi metal dominati da uno screaming lacerante, mentre una cantilena morbosa rimane costantemente sullo sfondo per tormentare ulteriormente i timpani dell’ascoltatore. Il finale del pezzo sfoggia uno dei riff più cattivi partoriti dal gruppo, che mostra di non badare ad alcuna categorizzazione muovendosi tra i generi e mischiandoli senza soluzione di continuità. Si rimane storditi, ma con un sorriso ebete stampato sul volto da quanto ci si è divertiti.

Tirando le somme Good Things Bad People è un bell’album che potrà essere apprezzato da tutti gli ascoltatori che amano le contaminazioni, ma soffre di alcuni difetti che non lo fanno arrivare all’eccellenza: innanzitutto la ricerca della cantabilità nei momenti più pop dei brani non è quasi mai raggiunta ed è difficile, anche dopo più ascolti, ricordarsi qualche melodia vocale o strumentale, salvo rare eccezioni. In questo gli Ask The Slave possono e devono migliorare perché le potenzialità ci sono tutte e sarebbe un peccato non sfruttarle a dovere. In secondo luogo l’estrema eterogeneità che il disco mette in mostra rischia di sfiorare l’eccesso in più di un’occasione; forse sarebbe meglio concentrare la scrittura su meno elementi e cercare di estrarre il massimo da quelli, senza divagare troppo e perdere di vista il focus del singolo brano, cosa che qui talvolta avviene.
Gli islandesi possiedono capacità ed intuito in grandi quantità e sanno sicuramente comporre musica eclettica e affascinante, ma devono ancora levigare la propria proposta per renderla infallibile. Senza dubbio i Mew rimangono ancora lontanissimi, anche perché i nostri mirano a rimanere sostanzialmente una band metal e molto meno sofisticata, ma dal momento che Good Things Bad People sta ricevendo ottimi riscontri tra la critica internazionale la speranza è quella che gli Ask The Slave possano presto scrivere nuova musica prendendo il buono contenuto in questo album ed esaltandolo ancora di più. Noi aspettiamo fiduciosi!



VOTO RECENSORE
76
VOTO LETTORI
54 su 1 voti [ VOTA]
INFORMAZIONI
2021
Crime Records
Inclassificabile
Tracklist
1. Catch 22
2. Wounded Knee
3. White Vigilante
4. Good Things Bad People
5. Katie Mae
6. Slave
7. The Beginning of the Blues
8. Eulogy
9. Tag, You're It!
10. Chain Gang
11. Catch 33
Line Up
Ragnar Ólafsson (Voce, Pianoforte)
Elvar Atli Ævarsson (Voce, Chitarra)
Valur Árni Guðmundsson (Voce, Chitarra)
Hálfdán Árnason (Basso, Synth)
Skúli Gíslason (Batteria, Percussioni)
 
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