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LEGEND CLUB, VIALE ENRICO FERMI 98 - MILANO

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Flogging Molly - Anthem
12/09/2022
( 1060 letture )
Maturità? Vecchiaia? Stanchezza? Oppure mancanza di idee? E se invece fosse una nuova consapevolezza? C’era un tempo, all’incirca poco più di una decina di anni fa, in cui il cosiddetto celtic punk – o irish punk – spopolava e band da ogni parte del mondo si proponevano di caricarsi sulle spalle la pesantissima eredità dei Pogues per adattarla alla modernità nei suoni e per certi versi anche nelle intenzioni. Di quella schiera di band che nascevano come funghi nei primi anni 2000 è ormai rimasta un’esigua fetta di rappresentanti, costituita tra l’altro da gruppi in attività già alla fine degli anni ’90, i quali hanno saputo imprimere una personalità forte alla propria musica non limitandosi a trasporre melodie folk irlandesi su banali ritmiche punk rock. Due nomi su tutti: Dropkick Murphys e Flogging Molly. Se i primi sono da tempo una realtà gigantesca capace di muovere masse notevoli di fan ed organizzare eventi di portata mondiale – impossibile non ricordare lo spettacolare concerto Streaming outta Fenway tenuto nel 2020 nell’omonimo campo da baseball casa dei Boston Red Sox – facendosi riconoscere quasi più come un’entità politico-benefica che come una semplice band, i secondi sono stati sempre considerati degli “eterni secondi” e non hanno mai goduto delle possibilità dei primi (ma forse non l’hanno nemmeno mai voluto), concentrando le proprie forze sempre e solo sulla musica. Constatato ciò si può facilmente arrivare a dire che i Dropkick Murphys siano discograficamente ininfluenti da anni (questo comunque non nega la bontà degli album pubblicati dal 2007 in poi), mentre la band capitanata dal simpatico Dave King ha continuato a sfornare lavori forse meno ruffiani, ma più ragionati e impegnativi per certi aspetti, da non sfruttare unicamente come pretesto per andare in tour. Ad ogni modo non è questa la sede corretta per fare confronti che avrebbero comunque poco senso, fatto sta che ad oggi la rappresentanza mondiale del celtic punk è in mano fondamentalmente a due band che hanno contribuito a far nascere il movimento, con buona pace delle nuove leve come Rumjacks e Paddy and the Rats, spesso poco più che copie di copie sbiadite di ciò che il genere fu.

Ecco che quindi nel 2022 abbiamo modo di ascoltare le nuove pubblicazioni di entrambe le band, con i Murphys impegnati a fine mese in un tributo al più grande chitarrista politico della storia, ovvero Woody Guthrie, e i Flogging Molly che invece immettono sul mercato il proprio album più sofferto e adulto di sempre, intitolato programmaticamente Anthem e con una copertina che più esplicativa non potrebbe essere. Il fatto che questo sia poi un disco di una certa importanza è testimoniato da altri due fattori: la band è tornata in studio con il vecchio amico Steve Albini – già responsabile della produzione del primo lavoro del gruppo, Swagger (2000) – e poi ha deciso di pubblicare l’album in maniera indipendente attraverso l’etichetta Rise Records, dopo l’esperienza con Spinefarm Records per il precedente Life is Good. Il risultato consiste in un’opera viscerale e di cuore, dedicata all’Irlanda sotto tutti gli aspetti e soprattutto legata ad un’idea di musica e composizione senza tempo, tanto vicina ai cari standard folk quanto ad un cantautorato puramente americano che non tocca però mai il blues. Certo, la prima osservazione importante da fare è legata allo stile stesso della band ad oggi: il punk è quasi completamente sparito, perlomeno nei suoni degli strumenti elettrici, molto più relegati sullo sfondo a favore degli strumenti acustici, ma rimane una foga esecutiva che avvicina paradossalmente molto di più gli americani ai Pogues di quanto non sia avvenuto negli ultimi venticinque anni. Anthem infatti, oltre ad essere il settimo album in carriera dei Flogging Molly, segna anche il venticinquesimo anniversario della band stessa e forse è per questo motivo che i musicisti hanno voluto dedicarsi anima e corpo nel rendere questo lavoro discografico quanto più significativo possibile. Possiamo dire, anche solamente dopo il primo ascolto, che Dave King e sua moglie Bridget Regan, da sempre coppia nella vita e nella musica, ci sono riusciti alla grande. Questo non è un disco per chi cerca uno scanzonato ascolto punk rock con inserti folk, ma è invece un’opera di purissimo folk rock che sintetizza bene sia le influenze irlandesi che quelle americane che scorrono nel sangue di King.

Il disco si può dividere in tre momenti distinti, con il primo terzetto di canzoni che potrebbe addirittura disorientare l’ascoltatore, dopo l’introduzione fatta fin qui: infatti These Times Have Got Me Drinking/Tripping Up the Stairs è il classico pezzo à la Flogging Molly con batteria tirata e chitarre in mostra, mentre vocalmente King costruisce le sue indovinate melodie che dal vivo non lasceranno scampo. È subito percepibile però un senso di malinconia crescente che fa sì che la testa ciondoli, ma la testa vaghi con i pensieri verso ricordi nostalgici. Tutto comunque funziona alla grande, con il bell’inserto folk sul finale che alza ulteriormente il ritmo e scatena immagini di danze tradizionali eseguite nella maniera più sguaiata possibile. Si prosegue su questa falsa riga apprezzando anche la buonissima produzione di Albini, che incredibilmente riesce a dare un gran respiro ai brani pur utilizzando il suo noto metodo di registrazione in presa diretta senza quasi mai utilizzare riverberi se non quelli naturali delle stanze dove registra. Eppure la musica fluisce con gioia e la componente rock si amalgama stupendamente con quella folk, regalando momenti corali scatenati come Life Begins and Ends (But Never Fails), dove un testo riflessivo e addirittura cupo a tratti si appoggia su un tappeto ritmico serrato, dove emerge ancora la chitarra di Dennis Casey. A questo punto però il disco prende una piega diversa e si apre il secondo, ampio blocco che ne costituisce la tracklist: No Last Goodbyes è probabilmente il capolavoro dell’album, una ballata sicuramente prevedibile e che gioca su melodie conosciute e tradizionali, ma proprio per questo riesce a risultare atemporale e potrebbe sembrare benissimo un brano ripescato dagli archivi del tempo. Gli strumenti elettrici vengono messi da parte a favore di chitarre acustiche, fiddle e tin whistle e il coro che viene intonato sul ritornello è semplicemente da lacrime agli occhi. Difficile riprendersi da un momento così intimo e sentito, anche se la “piratesca” The Croppy Boy ’98 funge da ottimo interludio prima di tornare ad immergere la testa nell’Irlanda più danzereccia ed allegra evocata dalla breve (Try) Keep the Man Down, la quale si chiude con un’altra dimostrazione tecnica al violino a cura di Bridget Regan.
Arriviamo in fondo alla scaletta con l’ultimo terzetto di brani che aumentano ulteriormente la malinconia riflessiva dell’album: Lead the Way va a riportare alla luce l’affetto per l’oi! punk da parte del gruppo, ma con un’esecuzione ragionata e matura, lontano dall’esuberanza giovanile di una Salty Dog e più accostabile alle ultime prove dei Dropkick Murphys, anche se qui il fattore sentimentale risalta maggiormente rispetto ai brani dei bostoniani. Forse è proprio questo tipo di consapevolezza che ha dato vita ad un’altra ballata sofferta come These are the Days, meno strappalacrime rispetto a No Last Goodbyes, ma comunque efficace in chiusura di disco, con il suo tono solenne e celebrativo e il coro sul finale di cui ancora una volta è immaginabile la potenza nella trasposizione live. La componente folk affidata al violino e alle chitarre arpeggiate ha la raffinatezza dei Chieftains dei tempi d’oro e Dave King trova perciò un campo perfetto per le sue linee vocali con le quali è semplicissimo empatizzare. Infine The Parting Wave acuisce ulteriormente i sentimenti di tristezza caratterizzandosi come perfetto brano di addio – speriamo di non doverlo prendere alla lettera – con una melodia di tin whistle lancinante e una chitarra acustica delicata che richiama immagini di camini accesi e sensazioni autunnali.

Si chiude proprio così, con il pensiero della stagione imminente, questo nuovo album dei Flogging Molly, che dimostrano di avere ancora parecchie frecce al proprio arco e soprattutto urlano forte e chiaro che non ci tengono ad essere considerati una band di serie B e nemmeno degli eterni secondi. Anthem è un album che tiene alta la bandiera del celtic punk inteso nel suo significato originario, una compenetrazione tra musica rock e folk irlandese legata ai sempiterni Pogues e ai maestri Dubliners. È qui che sta la forza di questo disco, che al confronto con le ultime prove degli amici/nemici Dropkick Murphys si posiziona diverse spanne sopra musicalmente parlando. Dave King non ha alcun interesse nello scrivere musica socialmente impegnata o che funzioni necessariamente dal vivo, ma l’impegno della sua band è quello di comporre canzoni che siano potenzialmente valide ora come tra quarant’anni e che tributino l’amore verso l’Irlanda così come all’America nella maniera più pura e sincera possibile. Sotto questo punto di vista Anthem è un lavoro bellissimo, anche se pecca di qualche prevedibilità e un paio di brani meno a fuoco rispetto agli altri, ma nel complesso parliamo di meno di quaranta minuti di musica da ascoltare con il cuore leggero, sorridendo, ballando, ma anche piangendo. A questo punto potete provare a dare una risposta alla domanda posta in apertura, da parte mia credo di avervi dato più di uno spunto.

Through a sea of faceless bottles
And the stench of the afternoon
I crawl into this coffin
Sure I was dead before I knew
Morning starts with sunset
As the darkness fills my eye
It’s been so long since another soul
Occupied this life.



VOTO RECENSORE
78
VOTO LETTORI
73 su 1 voti [ VOTA]
SkullBeneathTheSkin
Mercoledì 14 Settembre 2022, 11.11.46
1
Dopo aver raggiunto il loro apice con Within a Mile of Home, imho, hanno accusato inevitabilmente una flessione: questo è infatti il terzo album consecutivo che definirei buono ma nulla più, pur essendo il migliore del post-WAMFH. Già con Speed Of Darkness si erano palesati un diverso modo di scrittura dei brani, consapevolezza e maturità diversa, un mood meno solare che però in questo album si stempera con qualche song (come l'opener) decisamente più vicina all'energia dei primi lavori. @Alex: mi sta bene il riferimento ai più famosi Dropkick per presentarli a chi non li conosce, ma insistere mettendone a confronto i lavori lo trovo fuori luogo... qualitativamente non c'è proprio paragone. Voto 73
INFORMAZIONI
2022
Rise Records
Folk Rock
Tracklist
1. These Times Have Got Me Drinking/Tripping Up the Stairs
2. A Song of Liberty
3. Life Begins and Ends (But Never Fails)
4. No Last Goodbyes
5. The Croppy Boy ’98
6. This Road of Mine
7. (Try) Keep the Man Down
8. Now is the Time
9. Lead the Way
10. These are the Days
11. The Parting Wave
Line Up
Dave King (Voce, Chitarra, Bodhrán)
Dennis Casey (Voce, Chitarra, Banjo)
Spencer Swain (Voce, Banjo, Mandolino)
Matt Hensley (Voce, Fisarmonica)
Bridget Regan (Voce, Violino, Tin Whistle, Cornamusa)
Nathen Maxwell (Voce, Basso)
Mike Alonso (Batteria, Percussioni, Cucchiai)
 
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