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15/03/2019 (2059 letture)
(Day 1 qui)

Siamo di ritorno ai Gothenburg Film Studios per assistere al secondo ed ultimo giorno di The Abyss Festival, che questa volta proporrà una sequenza consistente di gruppi più underground rispetto alla giornata precedente, che invece vedeva una prevalenza di nomi storici, eccezion fatta per gli opener Chevalier.

BLACK VIPER
I primi ad aprire il concerto sono i norvegesi Black Viper, gruppo speed/heavy metal che proprio qualche mese fa ha pubblicato il full length di debutto. Sarà infatti da Hellions of Fire, distribuito dalla veterana High Roller Records, che verrà estratta la maggior parte dei brani: una vetrina non indifferente, considerata la già folta presenza di pubblico e, soprattutto, la possibilità di esibirsi sullo stage grande. Questi fattori, così come un’attiva partecipazione del parterre, mi ha fatto comprendere che i Black Viper, nonostante il loro status piuttosto underground, almeno al di fuori della Penisola scandinava, possono contare già su uno schieramento di supporters non indifferente; ed è forse proprio questo il motivo per il quale gli è stata riservata la possibilità di esibirsi sul palco principale. Concentrandoci sulla musica, devo dire che li ho trovati molto accattivanti per l’uso mixato di stilemi più classici dell’heavy e interruzioni thrash più violente, che mi hanno fatto tornare alla mente gli Exciter. Il lavoro di interazione del frontman Salvador Armijo ha inoltre reso la performance molto energica ed ha aumentato il livello di partecipazione del pubblico, dimostrando una buona tenuta vocale soprattutto nel momento in cui vengono raggiunte -con apparente naturalezza- vette canore più alte.

RAPID
Dalla Norvegia ci spostiamo alla Finlandia e accogliamo i Rapid, che tingono il loro speed metal di sinistre venature venomiane. Anagraficamente sono molto giovani, ma contano già una manciata di brani raccolti in due demo e soprattutto riescono ad incorporare e trasmettere un appeal molto old school: a sentirli sembrerebbe infatti di stare di fronte ad un gruppo riemerso direttamente dagli anni ’80. La maniera con cui intessono i brani è anche molto convincente: mantenendo l’assetto ritmico molto serrato, sporcano la melodia di alcuni riff con un cantato sporco, che in alcuni momenti si esaurisce in acuti sofferti e malati. La prova è stata molto buona e personalmente sono rimasta colpita in positivo dalla loro proposta rozza, direi quasi “punk”, ma allo stesso tempo matura al livello compositivo, che palesa anche un buon gusto negli assoli. Non ci resta, quindi, che attendere di vederli alla prova sulla lunga distanza, vedendo cosa potrebbero tenerci in serbo con un primo disco che ci auspichiamo arrivi quanto prima.

ROOT
Incontriamo il primo vero nome storico di quest’oggi, ossia i cechi Root. Formatisi in uno dei due poli oscuri della Repubblica Ceca, Brno, il gruppo guidato da Big Boss è piuttosto attivo al livello live negli ultimi tempi, ma purtroppo l’ultima volta che ho avuto occasione di rivederli fu in occasione della loro prima ed unica discesa italica, due anni fa, quando si esibirono al Magma Pure Underground Festival (report qui). L’importanza assoluta che il gruppo riveste al livello storico per lo sviluppo nel fronte est-europeo delle frange più estreme del metal è assodata, soprattutto alla luce di una situazione politica asfissiante, proprio negli anni in cui il rigurgito nero cominciava a formarsi (per chi volesse ripercorrerne la storia, troverete le principali coordinate in una mia vecchia recensione al loro disco più emblematico, Zjevení, qui). Parafrasando il titolo del disco del 1990, la prima volta in cui ho appreso dell’esistenza dei Root fu una vera e propria “rivelazione” e personalmente non sono più riuscita a distaccarmene, anche a fronte del fatto che è un piacere vederli all’opera in sede live, perché la band è in grado ogni volta di regalare show energici ed dal punto di vista esecutivo perfetti. Anche in questo contesto e, nonostante il tempo ristretto riservatogli per motivi di scaletta, i Root riescono ad imporsi sul palco, trainati dalla presenza mefistofelica di Big Boss. L’età per lui avanza ed oramai lo si vede per gran parte del concerto esibirsi da seduto, ma il fascino legato alla sua personalità ed al suo ruolo di fondatore del ramo cecoslovacco del “culto” Laveyano resta pienamente intatto. Dal prima citato storico disco, verranno eseguite Píseň pro Satana e 666, dei must per i cultori, che ci traghettano direttamente verso quel passato maledetto, che per fortuna abbiamo in parte rivissuto anche questa sera. Un concerto che, insomma, non ha per niente disatteso le aspettative.

ANTICHRIST
Giochiamo in casa con gli Antichrist, unico gruppo svedese presente nel bill del festival.
La band di Växjö vanta una discografia piuttosto solida, con all’attivo già due full length che hanno avuto il merito di calamitare l’attenzione su di loro in maniera sempre più estesa, per chi è appassionato di sonorità thrash di matrice tedesca ed ha avuto il modo di incrociarli. È infatti ai gruppi teutonici che viene da pensare quando si ascoltano i riff abrasivi di brani come The Black Pharaoh, tratta dall’ultimo Sinful Birth. In una scaletta che si rivelerà abbastanza equilibrata nel ripescare da entrambi i due album, verremo completamente trasportati dal martellamento ossessivo della batteria, che non sembra quasi mai trovare un momento di vero respiro. La cosa che ho trovato notevole del gruppo è stata, comunque, la capacità di mantenere come filo conduttore un pattern incendiario e primitivo, in cui però hanno trovato spazio anche dei bellissimi ed intensi assoli di chitarra. Questo ha reso la loro esibizione molto variegata e mai piatta, convincendo pienamente sia nella resa scenica che nella sostanza.

AURA NOIR
Per un imprevisto che ha coinvolto i bosniaci Divlje Jagode, gli Aura Noir si esibiscono in anticipo. Da loro non ci si può che aspettare uno show tagliente, diretto e anche questa sera il gruppo guidato da Aggressor non si smentirà in tal senso. L’approccio al live da parte dei musicisti norvegesi è piuttosto algido, per cui nel loro caso è la musica ad avere un ruolo ancora più predominante nel compito di coinvolgere, data anche la condizione di staticità forzata cui il frontman si è costretto dopo una caduta dal quarto piano di un’abitazione, che anni fa lo ha messo nelle condizioni di non poter più rivestire il ruolo di batterista. Ciò non gli ha comunque impedito di essere la voce, il volto principale (insieme ad Apollyon) ed anche la chitarra degli Aura Noir, riuscendo a riorganizzare la line up della band in modo che il cambio di assetto non minacciasse una compattezza che comunque traspare ancora oggi. Il concerto degli Aura Noir non lascia spazio a momenti di respiro e scorre via veloce assecondando la scansione febbrile dei riff, dove la caotica ricorsa trova una tappa obbligatoria (ed attesa) in Black Thrash Attack, tratto dall’omonimo disco di debutto del 1996: mai titolo fu più azzeccato per riassumere fedelmente anche la loro prova di questa sera.

DIVLJE JAGODE
Salto purtroppo l’esibizione degli Alien Force, per trovarmi direttamente al cospetto dei Divlje Jagode, per i quali devo dire nutrivo molta curiosità. Nonostante non li avessi mai approfonditi, i numerosi feedback positivi che avevo ricevuto parlando con chi li conosceva già mi hanno fatto capire quanto lo status di culto della band non abbia di certo loro impedito di costruirsi una solida fanbase. Considerati pionieri dell’heavy metal nella zona dell’ex-Jugoslavia, con una longevità che dura poco più di quarant’anni, i Divlje Jagode trovano nel chitarrista Sead "Zele" Lipovača un fiero condottiero, che in tutti questi anni -rimasto l’unico membro originario del gruppo- non ha desistito dal mantenere vivo il progetto, lo ha anzi portato fino a qui, ad esibirsi su un palco di rilievo come quello del The Abyss. Il concerto è stato davvero molto spassoso e tutti i membri dei Divlje Jagode mi hanno trasmesso una sensazione di “freschezza” e affiatamento, che si è tradotto quindi in un’interazione molto sentita e partecipe anche da parte degli astanti: ad un certo punto ci siamo ritrovati all’unisono a cantare il ritornello super catchy di Motori, con un sorriso stampato sulla faccia. Potranno anche essere molto di nicchia e di certo sorprende vederli occupare una posizione così di rilievo, ma in fin dei conti sono stati una bella boccata d’aria.

GRIM REAPER
In leggera sovrapposizione con i bosniaci, che stanno ancora terminando il loro show, mi precipito subito all’altro palco, perché è in arrivo uno dei momenti che più attendevo questa sera.
Sono infatti felicissima di raggiungere lo small stage per assistere ai Gream Reaper: nella loro ultima calata romana non feci purtroppo in tempo a vederli e le brutte notizie che hanno colpito il gruppo (è di un paio di mesi fa la notizia della morte del fratello del frontman, Steve Grimmet) hanno rischiato di far saltare anche questa opportunità. La band, a seguito di questo lutto, ha infatti cancellato il tour in programma, slittando anche la data d’uscita del loro prossimo disco. Ciò nonostante, è stata una vera prova di forza e di rispetto nei confronti dei fan svedesi (e dei molti, come noi, che sono arrivati da fuori per vederli) decidere di non rinunciare alla loro partecipazione annunciata da tempo qui al The Abyss. Forza e Fede sono senz’altro due aggettivi che viene immediato attribuire al gruppo ed in particolare al suo trascinatore Steve, che questa sera si cimenterà in una performance davvero emozionante. La potenza dei Grim Reaper è trasparita a pieno mentre scorrevano i brani, in un autentico bagno di folla che ha avuto il suo culmine naturale con la meravigliosa See You in Hell, oltre che nella commovente cover di Don't Talk to Strangers di Dio. Vedere Grimmet ancora qui, a trasmettere tutta la sua passione e l’attaccamento a questa musica, nonostante l’aggressiva infezione che lo colpì due anni fa portò alla parziale amputazione dell’arto destro, è un autentico esempio di tenacia: “Nonostante tutto, sono ancora qui per voi!” ci terrà a rimarcare lui stesso durante il suo show, toccandosi la protesi. Da lacrime. A fine concerto avrei davvero voluto abbracciarlo fortissimo per ringraziarlo.
Un’unica nota che mi sento di sottolineare è circa la loro presenza sul palco secondario: a mio avviso, per la storicità e la caratura del gruppo, sarebbe stato più “giusto” vederli all’opera sullo stage grande, nonostante la prossimità fisica con la band -di cui abbiamo potuto godere proprio perché lo small stage è più contenuto e interpone meno spazio di distanza con il parterre- abbia senz’altro creato un’alchimia molto forte.

SODOM
A mettere il sigillo a questa seconda, trionfale edizione del The Abyss Festival sono i Sodom. Con loro mi sentivo di avere un discorso in sospeso: la prima ed unica volta che li vidi fu nel 2013 al Rock Hard a Trezzo sull’Adda, quando ad un certo punto lo show venne disturbato da un episodio spiacevole. Una persona dal pubblico iniziò all’improvviso a spruzzare quello che solo dopo venne identificato come spray al peperoncino o spray urticante, un prodotto che insomma ha reso difficile respirare per chi era nelle vicinanze. Il fastidio alla gola e, soprattutto, agli occhi di fatto mi rovinò il mood e mi fece perdere una manciata di pezzi, mentre mi ero rifugiata nell’area all’aperto per far cessare l’irritazione. Per questo motivo, a maggior ragione sono eccitata all’idea finalmente di porre rimedio a questo pezzo mancante del puzzle.
Questa sera i Sodom entreranno sul palco a gamba tesa e, saltando inutili convenevoli, dichiareranno da subito le loro intenzioni guerrafondaie con la tripletta Agent Orange – Sodomy and Lust – Outbreak of Evil: solo tre pezzi, ma ci sentiamo già devastati per l’enfasi con cui assecondiamo la loro aggressività. Gli occhi sono ovviamente tutti puntati su Tom Angelripper, in ottima forma e che da bravo thrasher tedesco accompagna le sue plettrate incazzate sul basso, sorseggiando della birra in bottiglia. Ma l’altro vero protagonista dello show sarà l’inarrestabile Frank Blackfire, già chitarrista degli Assassin, che tra l’altro proprio quest’estate verranno a farci visita in Italia: è totalmente preso dall’interpretazione e si lancia da una parte all’altra del palco, spesso anche protendendosi sul bordo estremo, nel tentativo di avvicinarsi il più vicino possibile al tappeto di mani alzate che si eleva dal parterre. Una menzione d’obbligo è ovviamente da dedicare alla precisione di Stefan Hüskens, che avevo già avuto modo di apprezzare nella corsa alla batteria con gli Asphyx e, soprattutto, con i Desaster. Il concerto, insomma, è da tachicardia, anche se una nota dolente è da rivolgere verso l’assenza di Nuclear Winter, che purtroppo non viene presentata in scaletta, nonostante la cover di Iron Fist dei Motörhead abbia senza dubbio rappresentato un momento di significativa partecipazione corale.

Come spesso accade al termine di qualsiasi cosa, capita di voler tirare le somme. Ed in questo caso, se dovessi nominare il miglior gruppo di tutto il festival, non avrei dubbi: i Sodom sono stati protagonisti assoluti, offrendo lo spettacolo migliore, chirurgico ed arrogante, portandolo al termine con una feroce maestria che solo dei veterani del genere come loro sarebbero stati in grado di assicurare.



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