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27/04/24
CRASHDÏET
VHS - RETRÒ CLUB, VIA IV NOVEMBRE 13 - SCANDICCI (FI)
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Hacktivist - Hyperdialect
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11/08/2021
( 2051 letture )
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Meglio chiarirlo subito prima di cominciare: se vi proclamate dei Defenders o dei Trve questo disco semplicemente non fa per voi; se invece amate certe frange del crossover, il nu metal e il djent allora ben fatto, siete nel posto giusto.
La recensione odierna non poteva che aprirsi con una simile avvertenza in quanto l’album analizzato rientra in una categoria molto particolare, una vera e propria nicchia etichettata dai critici come “grime metal”, filone del modern metal di stampo prettamente inglese che ha iniziato ad acquisire una certa notorietà a partire dagli anni ’10 del nuovo millennio. Gli Hacktivist, insieme ai The One Hundred e ai DVSR, ne sono i maggiori rappresentanti e il loro stile prevede una concatenazione strumentale di djent, metalcore e nu metal infettata dall’elemento grime che si esplicita nel ricorso ad un’elettronica figlia del 2-step garage e della jungle e nell’utilizzo di un modo di rappare derivato dall’hardcore hip-hop. Nati nel 2011 a Milton Keynes, gli Hacktivist hanno finora avuto una carriera piuttosto discontinua e, dopo l’hype generato dall’Ep omonimo e dal debutto Outside The Box (2016), sono stati costretti ad affrontare una serie di importanti defezioni - il cantante Ben Marvin e soprattutto il fondatore Tim James - che inevitabilmente hanno causato ritardi nella lavorazione del nuovo materiale. Rispetto al precedente, Hyperdialect si dimostra un disco molto più aggressivo e pesante, incentrato sui riff di una otto corde in piena tradizione djent e su una sezione ritmica poderosa che rinfocola l’assalto sonoro complice anche un basso a sei corde accordato, al pari della chitarra, in drop E. Non è da meno il comparto vocale, affidato alla formidabile coppia di MC composta da J Hurley e dalla new entry Jot Maxi, non dei semplici cantanti che rappano ma degli autentici rapper sprigionanti un flow incendiario fatto di barre taglienti e ultra-veloci che all’occorrenza sanno anche rallentare in simil-spoken word o, al contrario, accelerare spingendosi ai limiti dell’extrabeat. Quella che non è cambiata è l’attitudine barricadera, come se fossero dei novelli Rage Against The Machine perseguenti un concetto di edutainment teso a denunciare le storture del mondo contemporaneo, paragonato ad un incubo distopico in cui a regnare sono la corruzione della politica, l’asservimento dei media, la manipolazione delle informazioni, le disastrose condizioni climatiche e la guerra: in uno scenario tanto desolante, il gruppo si fa portavoce della gente e il ruolo di profeti urbani che i membri si attribuiscono comporta l’esplicitazione senza filtri della cruda verità, così che le coscienze possano risvegliarsi dal torpore e i cuori trovare il coraggio di far partire una rivoluzione concreta atta a rovesciare un sistema ormai al collasso.
All’atto pratico, la musica del quintetto parte sganciando tre molotov di modern rap metal su basi djent in Anti Emcees (con tanto di blast beat) e nelle speculari Luminosity/Lifeform, dove i rapper slalomeggiano su ritmiche iper-ribassate e fratturate alla Meshuggah. Da capogiro la seguente Armoured Core, con il sostrato djent che inizia a subire incursioni nu metal e l’ospite Kid Bookie (già visto all’opera nel disco solista di Corey Taylor) che fa terra bruciata con il suo arrogante high speed flow. Se Currency estorce le chitarre ai migliori Korn degli anni ’90 e si propone come brillante esempio di nu-djent, il grime propriamente detto entra di prepotenza dalla quinta traccia Turning The Tables, selvaggia nel suo abbinare i beats elettronici tipici del genere a una ferocia -core esaltante strofe rap dinamitarde e le harsh vocals esacerbate di Jot Maxi. La folle velocità d’esecuzione non accenna a fermarsi e si mantiene spericolata anche nel grime contaminato dai sentori deathcore della title-track (portati in dono dall’ex Betraying The Martyrs Aaron Matts) e nel flow stellare sciorinato in Dogs Of War o in quella bordata djent-core munita di breakdown che è Planet Zero. Come ultima mossa, la band sceglie di piantare il proprio vessillo nell’anthemica Reprogram, simbolo della resistenza edificato sugli ormai canonici sfoghi djent stavolta disturbati da synth più dilatati e da una minima influenza trap in una delle strofe.
Hyperdialect mostra un lato ancora più cattivo e determinato degli Hacktivist che, a differenza del primo disco, rinunciano completamente alle clean vocals e a refrain di facile assimilazione preferendo puntare sulle indubbie qualità dei rapper e su un sound granitico a tratti soffocante. Tolte la non indispensabile Ultima Dies e alcune lyrics un po’ troppo tendenti all’autocompiacimento, il sophomore album degli inglesi non presenta difetti rilevanti e si pone come un’uscita degna di nota per chi è in cerca di un solido lavoro in cui metal e rap copulano rumorosamente senza bisogno di alcuna protezione.
L’ennesima carta vincente uscita dalla policroma fucina del modern metal.
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1
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Ho apprezzato moltissimo questo disco, mi sorprende molto il voto dei lettori. |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Anti Emcees 2. Luminosity 3. Lifeform 4. Armoured Core 5. Turning the Tables 6. Currency 7. Hyperdialect 8. Dogs of War 9. Ultima Dies 10. Planet Zero 11. How Dare You Exist 12. Reprogram
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Line Up
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Jerman “J” Hurley (Voce) Jot Maxi (Voce) James Hewitt (Chitarra, Programming) Josh Gurner (Basso) Richard Hawking (Batteria)
Musicisti Ospiti: Kid Bookie (Voce su traccia 4) Aaron Matts (Voce su traccia 7)
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