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26/04/25
HEAVY LUNGS + LA CRISI + IRMA
BLOOM- MEZZAGO (MB)
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Witchwood - Litanies from the Woods
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( 4945 letture )
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Poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini; poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte si conservano le nazioni (Giambattista Vico, La Scienza Nuova, Libro I, sez. 3, 1744)
In poche parole, la Storia torna perché si regge sui comportamenti degli uomini, che tendono a ripetersi nel tempo, convenendo attorno ad alcuni principi universali ed eterni. Se questo è vero per la Storia delle nazioni, figuriamoci in un campo come quello dell’immaginario collettivo, delle suggestioni e infine della creazione artistica. L’illusione che l’evoluzione storica sia una linea univocamente diretta, che parte da un punto X e arriva ad un punto Y, è pura speculazione: il passato e perfino il futuro in qualche misura vivono in mezzo a noi e continuano ad influenzare le nostre scelte e il nostro pensiero nel presente, e ben lo sappiamo in Italia, Paese che nonostante l’imperante ignoranza e forse proprio a causa di essa, non può fare a meno di specchiarsi nel proprio passato, sempre presente e in qualche modo incombente, dal quale di fatto sappiamo trarre ispirazione solo in parte e quasi mai in chiave prospettica. Eppure, se è vero come è vero che gli scavi di Pompei riportando alla luce gli stupefacenti affreschi e le incredibili rifiniture pittoriche romane, diedero nuovo impulso alle arti, influenzando in maniera diretta il liberty che tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 si pose come “Arte Nuova”, allo stesso modo, tra la seconda metà degli anni 80 e i primi anni 90, grazie alla diffusione del doom e dello stoner, fino alla psichedelia richiamata da entrambi e anche dal grunge e dalla nascente scena alternativa, il ritorno alle sonorità degli anni 70 divenne realtà e nuova fonte di ispirazione per migliaia di band. Compagini che rifiutavano l’epoca storica musicale nella quale vivevano, che sentivano di appartenere ad altro e se già nel 1986 i Saint Vitus si dolevano di essere “nati troppo tardi”, da allora il richiamo a quelle sonorità, al modo libero e “puro” di vivere il rapporto con la musica e con la tecnologia analogica, non ha mai smesso di attirare nuovi compositori e musicisti. Un flusso continuo che trova oggi un nuovo tassello con gli italiani Witchwood, e che tassello.
Nati nel 2014 dalle ceneri dei Buttered Bacon Biscuits e formati da musicisti provenienti da altre band (Bad Ambition, Excrucior e Witche’s Brew), i Witchwood non sono quindi un gruppo di improvvisati e seppure Litanies from the Woods rappresenti il loro album di debutto, è palese fin da subito che la maturità espressiva e compositiva della band sia elevatissima e frutto di un processo di affinamento che dura da anni. La prima esclamazione che prorompe senza freni all’ascolto dell’album è unica e univoca: URIAH HEEP! Il richiamo alla band di Mick Box e Ken Hensley e in particolare alla sua incarnazione settantiana è davvero innegabile e così profondamente radicato da risultare quasi incredibile. Una scelta stilistica e artistica questa che rimanda ad un’altra grandiosa band italiana oggi purtroppo posta in stallo definitivo, i magnifici Wicked Minds. Ma come questi ultimi partivano dagli Uriah Heep per poi allargare le loro ambizioni compositive perfino verso lo stoner e la psichedelia, così i Witchwood riescono nel compito di non rivelarsi come meri emulatori, inglobando nel proprio sound evidenti influenze prog e psichedeliche che spingono avanti il percorso musicale della band verso orizzonti ampli e potenzialmente infiniti. Dai boschi all’universo, dai flauti traversi alle contaminazioni acustiche, dai Jethro Tull alla Allman Brothers Band, sempre con un occhio fortemente centrato sulla forma canzone e sulla melodia, con una qualità compositiva commovente, evocativa e dal bilanciamento praticamente perfetto. I brividi lungo la schiena sono davvero copiosi e, in maniera affatto sorprendente, in particolare proprio quando il gruppo lascia momentaneamente da parte la propria natura primaria hard rock, per addentrarsi pienamente nelle partiture psichedeliche e prog/folk, come nella meravigliosa The Golden King, brano acustico, sporcato dall’elettricità, che ci porta realmente in un’altra dimensione, grazie alla bellissima linea melodica del cantato e al lavoro di punteggiatura delle chitarre acustica ed elettrica e del flauto. Siamo al cospetto di un brano ai limiti del capolavoro. In precedenza, il trittico iniziale si reggeva invece principalmente sul canovaccio hard rock di matrice Uriah Heep, lasciando comunque spazio alle contaminazioni folk e prog, di cui gli stessi inglesi erano e sono tutt’oggi maestri assoluti. Il livello comunque resta alto anche in questi frangenti di minor personalità espressa, grazie ad una qualità del songwriting che non ammette flessioni. Così se con The Golden King eravamo arrivati alla soglia del capolavoro, ecco che la successiva Shade of Grey la varca senza indugi, regalandoci una perla assoluta di tensione emotiva e dinamica, nonostante la lunghezza del brano possa in qualche modo sconcertare dato il continuo riflusso tra pieni e vuoti, che sembrano indicare la fine della canzone, salvo poi riprendersi ancora e ancora. Una canzone che fosse uscita quarant’anni fa, sarebbe oggi ricordata negli annali dell’epoca, nella quale Dal Pane viene affiancato da una leggiadra voce femminile. Eppure, i numeri la band li ha sotto tutti gli aspetti e The World Behind Your Eyes è una ballata dolcissima e perfetta, che si fa davvero fatica a pensare lontana dagli anni settanta, con una evoluzione condita dai richiami ai Jethro Tull da accapponamento della pelle. Se il gruppo finora ha giocato pesante, col trittico finale si va verso un rilancio qualitativo insostenibile per molti. Farewell to the Ocean Boulevard è una piece quasi interamente strumentale di oltre quindici minuti, nella quale le suggestioni fin qui messe in mostra trovano una loro consacrazione elevatissima. Non ci stupiremmo di sentire il lungo prologo affiancato a quella stupenda e inarrestabile Intro a Sweet Jane orchestrata dal duo Wagner/Hunter in Rock’n’Roll Animal di Lou Reed, non fosse per l’incredibile dolcezza della chitarra acustica, le puntuali punteggiature del basso e del flauto, che tengono banco per quasi sei minuti, senza annoiare per un solo istante. Se pensavate che solo la Allman Brothers Band fosse capace di cose del genere, troverete oggi una nuova band da amare. E’ la batteria a rompere questo iniziale idillio e a dare corpo e abbrivio alla seconda parte del brano, nel quale il familiare suono dell’organo hammond e del basso prendono il sopravvento, salvo poi condurci nuovamente verso lidi sognanti grazie a flauto e chitarra elettrica e, verso il finale di questo incredibile viaggio, ai cori perfettamente integrati nel contesto. Song of Freedom aggiunge ulteriore carne al fuoco, con un ritmo stomp e l’armonica a bocca, che rimanda agli States e al country, buttando poi nel mezzo un bastardissimo riffone blues distorto, in una continua altalena tra acustico e distorto, che ci sposta da una parte all’altra dell’Atlantico, tra fughe di chitarra southern style e organi hammond. Forse la canzone risulta appena troppo spinta su questa frammentazione e appena troppo lunga, ma resta davvero piacevole in ogni sua parte. Chiudono i dieci minuti di A Handful of Stars, che già dal titolo si pone come viaggio cosmico, salvo poi rivelare nella parte centrale una natura hard rock mai dimenticata, che sembra un preludio a lunghe jam dal vivo, la quale a sua volta apre al maestoso finale governato dal moog, come una novella Impressioni di Settembre.
Il passato vive in mezzo a noi e ci ispira. Inutile negarlo e abbastanza stupido avversarlo come un nemico da abbattere e ostacolo verso il futuro. La verità è che niente si costruisce da zero e tutto trova un suo predecessore in qualcosa o qualcuno venuto prima. Il punto è sempre la capacità di andare oltre e guardare verso l’orizzonte ricchi di un bagaglio denso e dalla potenzialità tuttora infinita. I Witchwood dimostrano con un disco vicino alla perfezione formale, che certe sonorità non sono mai state dimenticate e che riscoperte oggi non debbano per forza assumere l’aspetto e la forma di pedanti ripetizioni o inutili rincorse alla gloria passata. La differenza è sempre nella qualità dell’ispirazione, più che nel formalismo prescelto per veicolarla. La band ha saputo comporre nove brani di altissimo livello, per una durata complessiva decisamente elevata, che si aggira attorno agli ottanta minuti di musica (fate voi la media, considerando che solo gli ultimi tre brani arrivano ai trentacinque minuti), senza mostrare un calo di tensione, se non forse in eccesso di minutaggio sul finale di Farewell to the Ocean Boulevard e Song of Freedom, che comunque nulla toglie ad un affresco enorme e qualitativamente stupefacente. Siamo al cospetto di un disco monumentale, che mostra il fianco alle critiche per un approccio filologico totalizzante, che va preso o rifiutato in blocco, ma non può essere scalfito da critiche a livello compositivo ed esecutivo. La band è composta da musicisti esperti e di valore e la voce di Riccardo Dal Pane è praticamente perfetta per il genere, il che, pur considerando la preponderanza della parte strumentale, va a costituire un altro elemento di merito, assieme alla produzione calda e perfetta anch’essa. La storia si ripete, perché sono gli uomini a restare spesso uguali a se stessi, ancorati a valori e principi che ritengono, e spesso sono, eterni e universali. Vale così in ogni espressione umana, compresa la musica. Certo è che ci sono tanti modi di esprimere questo legame col passato e con i suoi valori e sono pochi quelli capaci di farlo con tali risultati e questo è forse il disco di hard rock/psych/folk/prog più bello uscito negli ultimi anni. Complimenti ai Witchwood.
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1
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...sapienza e maestria : TOP .
Voto 90 |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Prelude/Liar 2. A Place for the Sun 3. Rainbow Highway 4. The Golden King 5. Shade of Grey 6. The World Behind Your Eyes 7. Farewell to the Ocean Boulevard 8. Song of Freedom 9. Handful of Stars
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Line Up
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Riccardo "Ricky" Dal Pane (Voce, Chitarra elettrica e acustica, Mandolino, Percussioni) Davide Mosca (Chitarra solista) Stefano "Steve" Olivi (Hammond, Piano, Sintetizzatori, Moog) Samuele "Sam" Tesori (Flauto, Armonica) Luca "Celo" Celotti (Basso) Andrea "Andy" Palli (Batteria, Percussioni)
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