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Wells Valley - The Orphic
16/08/2017
( 948 letture )
Se qualche anima pia dovesse mai decidere un giorno di cimentarsi nella meritoria impresa di scrivere un manuale di sopravvivenza per recensori alle prese con la sterminata messe di arrivi pressoché quotidiani nella posta redazionale, sarebbe cosa buona e giusta riservare un capitolo specifico alla voce “lettura critica delle informazioni sugli orientamenti artistici e le ascendenze delle band”. Se poi nello stesso manuale ci fosse anche qualche consiglio ai gruppi o alle label impegnate nel confezionamento del prezioso press kit (stavolta al paragrafo “scrittura” di quegli stessi contenuti), ecco che l’orientamento di chi deve selezionare un album per l’ascolto e il successivo esame critico ne trarrebbe un più che salutare giovamento, evitando di incappare in aspettative malriposte quando non del tutto frustrate, al fatal rintocco del tasto play. D’altra parte, va detto che le sensibilità di chi riceve il materiale sono talmente disparate che pensare di solleticare in poche righe l’interesse di tutta la potenziale platea dei destinatari risulta impresa fuori dall’umana portata e, comprensibilmente, iperboli e semplificazioni minacciano spesso la puntualità delle informazioni.
Come possibile caso di scuola, prendiamo ad esempio le note di accompagnamento compilate dalla Bleak Recordings per annunciare il rilascio dell’ultimo lavoro dei Wells Valley. Poche righe, in verità, ma subito spicca l’impegnativa promessa di trovare in un EP di poco più di venti minuti complessivi una sorta di compendio tra Neurosis e Gojira, provocando subito qualche brivido a chi si ricordi anche solo vagamente cosa succeda ad acqua ed olio quando provino a mescolarsi. Fortunatamente, alla prova dei fatti l’annunciato Minotauro si rivela poco più che una “trappola per turisti” verbale e, mentre i devoti del combo guidato dall’inossidabile coppia Kelly/Von Till potranno effettivamente trovare pane per i loro post denti, avvertiamo subito eventuali orecchie sintonizzate su frequenze gojiriane che i promessi echi in arrivo da Bayonne hanno una consistenza secondaria, quando non ai confini della trascurabilità. Nelle stesse righe, però, la label annuncia anche un assalto nientemeno che al cielo floydiano, per cui abbiamo deciso di raccogliere la sfida e verificare sul campo le potenzialità di questi ragazzi.

Ennesimi alfieri di una scena portoghese uscita da tempo dalla minore età delle nicchie e delle sperimentazioni artigianali (e ormai decisamente oltre lo stereotipo “après Moonspell le déluge”), i Wells Valley hanno debuttato due anni fa con un più che interessante Matter As Regent, dimostrando di saper trattare una materia sostanzialmente sludge con buona personalità, tanto da permettersi proficue escursioni anche in territori alternativi, dal black al core, dal post metal all’industrial, fino a spunti drone in cui comprimere l’energia in uno stato di sospensione. Decisivi, nell’amalgama di questo turbinio di generi, i trascorsi musicali del terzetto prima dell’approdo al nuovo moniker, dal background death del cantante/chitarrista Filipe Correia, maturato in una ventennale (sia pur discontinua, in termini di rilasci) militanza nei Concealment alle esperienze prog/hardcore del batterista Pedro Mau con i Kneel. Fango sludge, dunque, ma anche aperture atmosferiche, cristallizzazioni drone, rabbiose cavalcate death e le classiche distorsioni black a conferire un aspetto sinistro al tutto per un ipotetico incontro (ebbene sì, esageriamo un po’ noi, stavolta) tra Voivod e Triptykon.

A raccogliere la consistente eredità del debut provvede ora questo The Orphic, in cui i Nostri confermano sostanzialmente una spiccata propensione alle ibridazioni dei linguaggi, anche se l’atmosfera complessiva del platter risulta stavolta più coerentemente orientata verso il post metal. Nonostante il numero esiguo di tracce proposte suggerisca una più che dovuta cautela, il minutaggio e l’articolazione strutturale dei singoli episodi consentono di azzardare una valutazione più che lusinghiera, che si somma all’apprezzamento per il coraggio sfoderato nella scelta della cover in chiusura del viaggio. Da un punto di vista formale, l’involucro complessivo del lavoro sembra essere per larghi tratti più muscolare e imponente rispetto al passato (l’ombra dei Cult of Luna sovrasta non di rado i riflessi neurosisiani), ma sono del pari consistenti le iniezioni di oscurità, instillata dalla band nel corpo dei brani grazie soprattutto a un’attitudine psichedelica complessiva che si permette, senza traumi o emulazioni fuori tempo massimo, di affondare le radici nella lezione aurea settantiana. Centro propulsore e motore di incubi e allucinazioni, l’altro punto di forza dell’album è la prova al microfono di Correia, che spazia con pari qualità di resa da uno scream lancinante a un growl sabbioso, entrambi peraltro declinati prevalentemente secondo la lezione black e contribuendo così a creare un picco ulteriore di spigolosità, a contatto con le maestose impalcature erette della sezione ritmica.

Non serve molto tempo all’opener Annunciation per catapultarci al centro della poetica dei Wells Valley, che giocano con buon costrutto sull’accumulo di tensione modellando progressivamente la melmosità sludge dell’avvio con una mano doom fino al cuore della traccia, che si materializza con un ricamo della sei corde destinato a tornare in scena per interrompere e contemporaneamente rilanciare il flusso narrativo. Rispetto a una traccia di apertura dall’impianto tutto sommato canonico, la successiva Ophanim rivela tratti molto più frastagliati, aggirandosi nervosamente tra black e death senza disdegnare tocchi vagamente prog (l’equivoco sui richiami ai Gojira nasce probabilmente qui, ma qualche pur innegabile reminiscenza non giustifica un rinvio a una sensibilità che rimane tutto sommato estranea all’economia dell’album), fino ai fuochi d’artificio conclusivi in cui si evocano prima le pulsioni tribalistiche neurosisiane e successivamente, a chiudere, onde drone. Nonostante i cambi di registro in agguato a ogni piè sospinto, il brano riesce a mantenere una coerenza complessiva, ma va detto che le spinte centrifughe delle singole componenti stilistiche arrivano davvero al limite, minacciando di lasciare per strada più di qualche staffa e incudine poco propense ai frullati di generi.
Ed eccolo, infine, il gran cimento su cui i lusitani giocano le sorti del platter; ad alzare l’asticella del rischio non è tanto l’aver puntato su una cover (con gli annessi, classici problemi che prendono corpo ogniqualvolta si decida di metter mano a scritture altrui), quanto piuttosto “chi” si stia scomodando e davvero i Wells Valley puntano in alto, scegliendo i Pink Floyd di Set the Controls for the Heart of the Sun. Tratto dal secondo album dei londinesi, quel A Saucerful of Secrets che, nel 1968, è formalmente l’ultima stazione della band con Syd Barrett ancora a bordo della line up (anche se in realtà già confinato in ruolo più decorativo che di sostanza, soppiantato da un David Gilmour fresco di ingresso in formazione), il brano è uno dei vertici storici della lettura psichedelica del pentagramma, peraltro ulteriormente potenziata nella magnifica versione dal vivo regalata quattro anni dopo nel Live at Pompeii. Affidandosi alla semplicità come stella polare, i Nostri rileggono le spire ipnotiche dell’originale in una credibilissima chiave post metal, in cui visionarietà incantata e orientaleggianti stati di estasi si trasformano in inquietudine, mentre le suggestioni cosmic diventano agorafobia. Completano il quadro una buona resa del cantato (l’alternanza clean/scream funziona alla perfezione, per aggiungere pathos all’impasto), una batteria che Mau intelligentemente non lancia in poco opportune cavalcate (ricordiamoci cosa sia stato in grado di offrire Nick Mason, nell’originale) e l’unico, vero scostamento dal modello floydiano, affidato alla sei corde di Correia che si avventura in un assolo classic heavy semplicemente da applausi.

Distillato di tutte le sensibilità che popolano il lato oscuro del metal, dissonante e imponente ma capace anche di aperture melodiche mai banali, in grado di regalare una sensazione di appagamento a dispetto del minutaggio contenuto, The Orphic è un album che fa segnare un buon passo avanti in una carriera ancora agli inizi. Noi ci sbilanciamo puntando su un significativo apprezzamento, ai Wells Valley il compito di offrire conferme, possibilmente a stretto giro di posta e sulle lunghe distanze…



VOTO RECENSORE
78
VOTO LETTORI
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INFORMAZIONI
2017
Bleak Recordings
Post Metal
Tracklist
1. Annunciation
2. Ophanim
3. Set the Controls for the Heart of the Sun
Line Up
Filipe Correia (Voce, Chitarra)
Pedro Lopes (Basso)
Pedro Mau (Batteria)
 
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